III. Il Medioevo italiano e la professionalizzazione degli studi storici in Gran Bretagna tra storia universale, scienza della politica e Kulturgeschichte (1857-1923)
«It’s that organic sense of continuity and deep time that makes Italian towns and cities so captivating. You can picture medieval life here, can feel the presence of generation upon generation. So much life is embodied in Italy’s stones».
Jonathan Jones, Italy’s earthquake affects us all – theirs is a cultural richness like no other, in «The Guardian», 31 ottobre 2016.
1. Un’area di studio refrattaria alla scientificizzazione?
Allo scopo di abbozzare una mappa preliminare della varia presenza del Medioevo italiano nella storiografia britannica tra la metà del XIX secolo e il primo dopoguerra, ossia nel periodo in cui essa conobbe le fasi iniziali del suo peculiare processo di professionalizzazione, si rivela proficuo prendere le mosse da un esame critico del severo giudizio comparativo espresso a tale riguardo nel 1923 da Charles William Previté-Orton (1877-1947), nel contesto di una rassegna assai elogiativa dei lavori della «modern school of Italian medievalists» scritta per il primo fascicolo del «Cambridge Historical Journal».
Posta a confronto con i più recenti e brillanti sviluppi della storiografia nostrana, la produzione medievistica insulare d’argomento italianistico continuava a manifestare, agli occhi di Previté-Orton, un deprecabile «carattere tutto suo», da imputarsi a tendenze più generali e di lungo periodo della relazione culturale anglo-italiana:
«Lo studio della storia medievale italiana è sempre stato incline, in Inghilterra, al pittoresco. Si tratta di una tradizione antica; ne scorgiamo le origini già nel dramma elisabettiano; e possiamo tracciarne le ramificazioni, passando per Byron e per [Robert] Browning, fino ai moderni autori di biografie e di storie di un’epoca o di una città. Convenzionalmente virtuosa in Dennistoun, retoricamente filosofica in Symonds, eccitante e vivida in Heywood, Clio ha avuto qui l’opportunità di atteggiarsi a musa melodrammatica, e l’ha sfruttata appieno. I casi commoventi hanno pressoché monopolizzato la sua tematica, ed essa sembra averne tratto a volte il medesimo tipo di piacere che Charles Lamb ritrovava nel teatro della Restaurazione – la fuga nel paese “dove non è una fredda moralità a regnare sovrana”».
La ragione di fondo per la quale al di là della Manica erano prevalsi e perduravano «un interesse sentimentale» e un’attitudine escapista verso il passato di una nazione percepita come Alter Orbis rispetto all’Inghilterra dell’ethos puritano e della rispettabilità vittoriana, che rendevano l’approccio esoticizzante coltivato dagli storici britannici l’esatta antitesi di quello severamente scientifico divenuto invece predominante in Italia stessa, andava ricercata, per Previté-Orton, nel fatto che il Medioevo italiano «giunge a noi nella luce del Rinascimento e di Dante»: come un periodo, cioè, nel quale la «personalità» umana, nelle sue forme più varie e intense, non solo si era potuta liberamente dispiegare nell’esistenza reale, ma aveva segnato la propria calda impronta su una documentazione «che è vivente letteratura e non semplice “fonte”». Al privilegiamento del «personale» onde colpire l’emotività del lettore andava altresì congiunta una propensione a collocare le sue «avventure», raccapriccianti o sublimi che fossero, sullo sfondo di «uno scenario d’arte e d’antiquaria che fa di quasi ogni libro inglese sull’Italia una sorta di guida turistica».
Una dozzina d’anni più tardi, recensendo la postuma raccolta degli Italian Studies di Edward Armstrong (1846-1928) curata dalla di lui allieva Cecilia Mary Ady, Previté-Orton sarebbe tornato a elencare, quali caratteristiche del «metodo adottato quasi istintivamente nello scrivere di storia d’Italia» in Inghilterra,
«la forte prominenza data alla personalità individuale, l’abbondante e dettagliata evocazione del colore locale, le citazioni ben indovinate e rivelatrici desunte da testimonianze di spettatori emotivamente coinvolti negli eventi, la zelante riproduzione della superficie luccicante della vita accanto alle correnti più profonde della politica e dell’economia».
Divenuto nel frattempo il direttore della «English Historical Review», egli si premurava peraltro di puntualizzare che, nel caso di Armstrong, benemerito pioniere dell’insegnamento del Rinascimento italiano a Oxford, le virtù dello «stilista», capace di resuscitare simpateticamente l’umanità del passato e di «stimolare l’interesse per la storia medievale italiana da Dante in avanti» facendone alcunché di «reale e intelligibile» per il «largo pubblico», non andavano scompagnate dalle qualità dello «studioso» di amplissima erudizione attento a basare le proprie affermazioni su un esteso vaglio critico delle fonti e della letteratura secondaria.
Più esplicito nel lamentare le nefaste conseguenze dell’«interpretazione pericolosamente anglicizzata» di cui l’Italia aveva patito ad opera del «ramo della storiografia inglese» rappresentato da Armstrong era stato l’anno prima Thomas Sherrer Ross Boase (1898-1974), biografo di Bonifacio VIII e futuro direttore del Courtauld Institute of Art di Londra:
«egli [Armstrong] apparteneva a una scuola di autori che si accontentava di rinarrare le vicende ben note della Firenze di Dante o della Roma rinascimentale, usando in maniera esatta e scrupolosa le informazioni già acquisite per dare espressione al “fascino perenne” esercitato su di loro dall’Italia, anziché fornire nuovi dati per l’avanzamento degli studi».
Lo «struggimento per l’Italia», rimasto troppo a lungo la nota dominante dell’atteggiamento inglese verso la Penisola, non si era perciò tradotto soltanto in una concentrazione selettiva e ripetitiva degli storici d’oltremanica sui «nomi e periodi» della storia italiana che avevano maggiormente ispirato la cultura inglese, a scapito di indagini più approfondite e organiche sulle sue «origini e sviluppi» complessivi, ma si era talora rivelato addirittura «nocivo per la ricerca» empirica, come dimostravano per l’appunto i saggi di Armstrong, cui Boase rimproverava di non avere apportato «nulla di particolarmente nuovo» alla conoscenza fattuale dei temi trattati. La ...