Dreamland
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I confini dell'immaginario

  1. 114 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Dreamland

I confini dell'immaginario

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Informazioni sul libro

Prima pubblicazione a cura del collettivo A4C-Arts For The Commons, il volume riflette sul rapporto tra arte e attivismo con una selezione di opere di artisti contemporanei che si sono cimentati con il tema delle migrazioni, della frontiera, della cittadinanza, per offrire strumenti concettuali e visuali con cui leggere la frontiera come luogo di produzione di significato, creazione di "commons", rivendicazione di autodeterminazione e diritti.Il confine diventa così spazio «costituente» tra sovranità e territori, a prescindere dai regimi tracciati arbitrariamente nel corso della storia, immateriale, ma produce narrazioni che contengono in sé il potenziale del proprio superamento.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9791280124043
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

Mappare una rotta
Esilio, diaspora, nomadi, rifugiati
P
er una genealogia di arte e migrazione
T.J. Demos1

Modernità come esilio

Vista attraverso la lente dell’esilio, la modernità assume i contorni di una catastrofe, una tempesta di implacabile violenza che travolge ogni prospettiva di riscatto. Così almeno scriveva Walter Benjamin a proposito di quella «tempesta [che] spira dal paradiso» che noi chiamiamo progresso, contemplata dall’angelo della storia (pensava all’acquerello di Paul Klee, Angelus Novus [1920]). «Questa tempesta [...] spinge [l’angelo] irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre ii cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo». Con queste celebri parole il filosofo ebreo tedesco guardava con sconforto al suo presente, nel pieno di un esilio culminato nel suicidio per sfuggire ai nazisti2. Se, nel trovarci perpetuamente sradicati dal presente, siamo tragicamente privati dei suoi piaceri e delle sue gioie, almeno con la lontananza che ne consegue possiamo meglio vederne le storture e le ingiustizie. Riconsiderando quella modernità catastrofica a circa mezzo secolo di distanza, ii verdetto che ii critico letterario palestinese in esilio Edward Said pronuncia a proposito del XX secolo conferma le cupe conclusioni di Benjamin: «II nostro tempo, ii suo moderno imperialismo militare, le ambizioni quasi teologiche dei suoi governanti dispotici e totalitari, è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell’immigrazione di massa»3.
Tale è la modernità-come-esilio, caratterizzata dalle devastazioni che costringono a migrare e dagli effetti alienanti di capitalismo e nazionalismo, ma anche dallo squilibrio psichico di una Unheimlichkeit traumatica, come è intesa nel pensiero marxista e freudiano. Le tenebre della modernità minacciano tuttavia qualcosa di più di quanto lascino intendere le semplici congiunture politiche, economiche e sociali, e ciò è chiaro nell’idea di Benjamin del tempo storico, una filosofia di temporalità complessa che ci rende di fatto perpetuamente rifugiati in un presente effimero. Altre diagnosi filosofiche avvalorano la tesi ontologica di Benjamin, definendo l’epoca modernista come un’epoca di «spaesamento trascendentale» secondo György Lukács4. Analogamente Heidegger scriveva che «la mancanza di una casa diviene un destino mondiale»5. Ma quando parla del «tempo dei rifugiati, dei profughi, dell’immigrazione di massa», Said ribadisce un concetto ostinatamente politico. La sua idea di migrazione mette a fuoco una contro-narrazione ed espone il volto rimosso dei nazionalismi trionfanti, delle utopie e dei tanto magnificati traguardi tecnologici del secolo scorso, sempre presentati come vincenti; rivela il fallimento, il tragico costo umano e le conseguenze di tanta oscena sfrontatezza6. Nelle pagine che seguono, vorrei esplorare quella contro-narrazione e quel volto rimosso ma, invece di concentrarmi sulla modernità, prenderò in considerazione piuttosto l’arte contemporanea attraverso la lente della migrazione. Con questo spostamento di prospettiva storica emerge una distinzione terminologica: si lascia il termine «esilio», che evoca imperi, tragiche proscrizioni e condanne penali, per accostarsi al termine «migrante», più neutro, che lascia spazio all’idea di una partenza volontaria, una scelta autonoma di cambiamento e una disponibilità a diventare altro (o così almeno si crede)7. Rimane da stabilire se il termine «migrazione» sia a sua volta abbastanza ampio e al tempo stesso adatto a descrivere le tante forme di movimento e le singole scelte di distacco che caratterizzano l’esperienza contemporanea. Esso ha comunque il merito di dischiudere l’opportunità di concettualizzare una forma di vita che è politicamente ed esteticamente impegnata in una certa mobilità; tale mobilità verrà esaminata in questa sede in modo sistematico. Anche questa visione ottimistica della migrazione merita di essere analizzata più a fondo. Collocata accanto a sostantivi come «diaspora» (dispersione geografica collettiva) e «rifugiato» (vittima di persecuzione o espulsione forzata), «migrazione», nel suo designare chi viaggia per scelta (che sia per necessità economica o, come accade recentemente, per ragioni ecologiche), si ritrova in una famiglia di concetti accomunati dalla «doppia coscienza» (nell’espressione con cui Paul Gilroy riformula il concetto di W.E.B. Du Bois) di cui sono dotati coloro che esperiscono un vivere altrove. Questa «doppia prospettiva» (con le parole di Said a proposito dell’esilio) o «doppia cornice» (come Homi Bhabha caratterizza la migrazione) è il risultato della conoscenza biculturale prodotta dal vivere in un ambiente estraneo. Questa esperienza genera, nella sua espressione positiva, una sensibilità verso la differenza (di culture, luoghi e comunità) e un rinnovato apprezzamento del carattere culturale delle proprie origini viste dalla prospettiva privilegiata e insieme obliqua del migrante8.
In quest’ottica è importante evitare di leggere lo spostamento, in una qualsiasi delle sue forme, esclusivamente in senso negativo, malinconico o caotico, come se fosse dotato di un’identità radicata nella metafisica. Come dimostra molta letteratura basata su testimonianze storiche e artistiche, viaggiare significa anche spiccare un volo creativo nell’esperienza della molteplicità, al di là dei rigidi confini tra identità, media e convenzioni. In questo senso, vivere una trasformazione può liberare energie sia critiche sia creative, articolando la vulnerabilità esistenziale e le perdite materiali che comporta su altri fronti. Hannah Arendt scriveva dei «profughi costretti di paese in paese», travolti dal genocidio senza precedenti dell’Olocausto, non come di semplici vittime; al contrario, a suo dire, costoro «rappresenta[va]no l’avanguardia dei loro popoli»9.
Da quel momento in avanti infatti queste persone, libere dai legami naturali (almeno nel 1943, prima della fondazione dello stato di lsraele), avrebbero preso in mano il proprio destino: «per loro la storia non è più un libro chiuso e la politica non è più un privilegio dei Gentili». Più di recente, Giorgio Agamben ha proposto che nella presente congiuntura caratterizzata da massicci spostamenti demografici, causati da guerre e repressioni politiche non meno che dal desiderio di emancipazione, il rifugiato rappresenti il «paradigma di una nuova coscienza storica», in particolare perché in quella figura intravediamo un futuro al di là dello stato-nazione e del suo fatale escluderne i non cittadini10.
Teniamo dunque presente che la mobilità è indice di una frattura psicogeografica intrinsecamente ambivalente, che chiama in causa il desiderio di casa e l’abbraccio dell’altrove e che, in ultima analisi, la migrazione è antitetica a qualunque significato unitario e quindi viene qui definita in base alle singole circostanze artistiche in cui si manifesta. In quest’ottica, si considerino alcune delle recenti intersezioni tra le circostanze politiche e la mediazione estetica della mobilità geografica. In anni recenti queste intersezioni hanno svolto molteplici funzioni nell’arte contemporanea, oscillando tra il catastrofico e il creativo: trovare forme adatte a esprimere gli effetti devastanti (spaziali ed esperienziali) dello sradicamento; inventare archivi in grado di sprigionare le potenzialità latenti nella coscienza storica; scoprire nuovi mezzi per stringere legami sociali in contesti transnazionali, senza sprofondare in un passatismo retrogrado o nell’ostilità xenofoba; proporre forme di vita che rifiutino categorie asfittiche di identità e appartenenze convenzionali; convogliare le forze della mobilità contro le insidie della mercificazione; e rifiutare l’opposizione fondamentalista alla globalizzazione senza cedere però alla sua spinta omologante: questi sono alcuni degli imperativi e dei discorsi che hanno generato un’estetica della migrazione negli ultimi decenni.
Nella trattazione ...

Indice dei contenuti

  1. EsplorazioniMediterranea
  2. Introduzione Rosa Jijón, Francesco Martone
  3. Mappare una rotta Esilio, diaspora, nomadi, rifugiati Per una genealogia di arte e migrazione T.J. Demos
  4. Opere
  5. Gemütlichkeit
  6. Forensic Oceanography Uno sguardo disobbediente
  7. 1Xunknown 1942-2017 to Fortress Europe with Love
  8. Et il vont dans l’espace qu’embrasse ton regard
  9. Performing the self The Interview