Il capitalismo delle piattaforme
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Il capitalismo delle piattaforme

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Il capitalismo delle piattaforme

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Amazon, Google, Facebook sono imprese globali che hanno il loro business su Internet. Sono cioè piattaforme digitali preposte a una serie di attivitàproduttive che si svolgono sul Web. Ma sono piattaforme digitali anche quelle usate dalle società che organizzano le infrastrutture della logistica. Sono espressione di un modello di capitalismo che si sta affermando su scala mondiale e che ha nella finanza non solo un pol- mone monetario, ma un dispositivo di governance dei flussi di informazioni, di dati e di merci. Come ogni modello di business, prevede modalità specifiche di governo del lavoro, dove la massima precarietà convive con lo sfruttamento delle competenze più diverse che si riflette nella proliferazione delle forme contrattuali.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788872859933
Categoria
Sociology

Il capitalismo
delle piattaforme

Capitalismo delle piattaforme è una espressione generica per qualificare una realtà dai confini molto incerti. Da una parte è usata per cogliere le specificità di modelli produttivi dentro la Rete, sia che si parli di Amazon che di Netflix, Google, Facebook, Istagram, Twitter. Allo stesso tempo è stata impiegata per segnalare le ambiguità insite nella sharing economy, cioè in quell’insieme di servizi di intermediazione tra offerta e domanda di alcuni beni e servizi come Uber, Airbnb e i tanti altri siti per acquistare biglietti aerei, affittare case o macchine. Se l’economia della condivisione veniva annunciata come un possibile approdo postcapitalista alla produzione della ricchezza attraverso la diffusione virale di esperienze autogestite, mutualistiche, il platform capitalism segnala che questa possibilità è una variante di una tecnoutopia da archiviare rapidamente, un sogno di inveterati libertari affetti dalla sindrome di Peter Pan che impedisce loro di crescere. È questo, infatti, il mantra ripetuto dai cultori dell’innovazione capitalistica come l’ex consulente economico di Hillary Clinton Alec Ross che nel saggio Il nostro futuro (Feltrinelli) tesse l’elogio delle criptomonete o di imprese come Google per la loro capacità di “mettere a valore” la cooperazione sociale, elargendo sprezzanti giudizi su quanti vedono nello sviluppo “partecipato” di piattaforme digitali la concreta possibilità di sfuggire a un futuro certo di lavori sottopagati ed esposti al ricatto della precarietà. Due punti di vista speculari, giustapposti solo nel prospettare la possibile coesistenza di un settore economico non mercantile e uno vincolato, e per questo egemone, al regime del lavoro salariato. Il mutualismo, l’autogestione rimangono la prospettiva imprescindibile di ogni opzione organizzativa del lavoro vivo, ma non esauriscono la trasformazione dei rapporti di forza nella società. Ciò che emerge dalla grande crisi del 2008 è la compresenza di una economia informale e di un regime di accumulazione dove le piattaforme digitali svolgono un ruolo centrale nello sviluppo capitalistico. È questa compresenza, nella quale il primo elemento è sottoposto continuamente ai processi di cattura e di innovazione sociale del capitalismo della piattaforme che deve essere interrotta, sottoposta a critica. Non farlo, determinerebbe il rischio di una paralisi, teorica e politica, del pensiero critico.
È questa la deriva che scandisce le analisi del giornalista ed economista inglese Paul Mason1. Conosciuto per i suoi reportage dai paesi europei investiti dalla crisi economica, Mason ha seguito come inviato i convulsi mesi che hanno preceduto e seguito la vittoria della coalizione greca di Syriza. È in quel contesto che prende definitivamente forma la sua tesi su una possibile declinazione postcapitalista dell’economia della condivisione. Mason non nasconde le sue radici teoriche: il socialismo utopistico inglese dell’Ottocento, le teorie economiche dell’economista russo Nikolai Kondratiev mandato a morte da Stalin, l’André Gorz delle Metamorfosi del lavoro. Per l’economista inglese, il capitalismo è giunto alla fase terminale della sua esistenza come modo di produzione. Le esperienze di sharing economy ne stanno solo rallentando l’agonia e preparando le condizioni di una fine indolore. Già, perché le relazioni sociali che puntano a condividere risorse aprono la porta a una società postcapitalista. Inutile, dunque, attendersi l’ora della rivoluzione e della presa del potere da parte di un proletariato che non ha niente altro da perdere se non le sue catene. La società dei liberi e degli eguali si sta facendo strada nelle pulviscolari e tuttavia diffuse esperienze di mutuo soccorso, di attività economiche basate sulla reciprocità e su rapporti di produzione e di scambio non mercantili.
Ce ne sono disseminate in ogni angolo del pianeta, da Londra a Sidney, da Shangai a Mumbay, da Los Angeles a Rio De Janeiro. Possono essere cooperative di insegnanti, di medici, di facchini, di programmatori di computer, di makers o di muratori; oppure strutture di microcredito o mutuo soccorso. In ogni caso, hanno come loro elementi costitutivi le innovazioni sociale e tecnologiche, che fanno ormai fatica a farsi strada nel capitalismo contemporaneo. La sharing economy è da considerare, afferma Mason, la fase parassitaria dell’appropriazione privata di innovazione, che viene prodotta all’esterno dai rapporti sociali capitalistici. La griglia interpretativa di questa ultimi sussulti del capitalismo è quindi rintracciata nella teoria delle onde lunghe di Kondratiev, l’economista russo che ha spiegato l’evoluzione dello sviluppo economico come un alternarsi di sviluppo, crisi, nuovo sviluppo, che determina mutamenti significati nelle attività produttive. Ma quel che Mason aggiunge è che Kontratiev aveva previsto la fine del capitalismo coincidente con l’esaurirsi della spinta propulsiva che lo ho ha portato a occupare tutto lo spazio economico e sociale del pianeta. E proprio quando questo accadeva, c’erano tutte le basi di un suo superamento. Per quanto riguarda il capitalismo Mason non ha dubbi su questo esito. Difficile è però definire la dimensione temporale del suo “naturale” superamento.
Le tesi di Mason hanno l’indubbio fascino di inanellare fatti, frammenti teorici, esperienze sociali, idee al fine di restituire un affresco credibile della crisi attuale. Credibile e, tuttavia, non convincente. Il limite della sua argomentazione, così come di quelle di altri teorici critici, sta proprio nella messa a fuoco della sharing economy e delle pratiche di resistenza che ha incontrato.
L’economia della condivisione è da considerare, giustamente, come la manifestazione più “potente” della messa al lavoro della conoscenza, degli affetti e delle relazioni sociali. Fa dunque bene Paul Mason a ricordare il Frammento sulle macchine di Karl Marx, ma ciò che nel suo schema teorico non torna è che quando descrive la messa al lavoro della conoscenza, il ruolo determinante delle macchine nell’automatizzare le funzioni lavorative che possono essere formalizzate in linee di codice informatico, fa sempre riferimento alla conoscenza individuale del singolo lavoratore. La sharing economy segnala invece che ciò che viene messo al lavoro è la dimensione collettiva del sapere e delle relazioni sociali. Si condivide cioè la capacità di sviluppare cooperazione sociale. La sharing economy “cattura” questa attitudine a cooperare, estraendone contenuti da trasformare in attività economica. I casi eclatanti di Uber o di Airbnb evidenziano la “cattura” e l’“estrazione” di una cooperazione sociale già data. Da questo punto di vista l’innovazione non sta solo nello sviluppo di applicazioni – l’economia delle app –, quanto nel definire progetti attinenti allo “stare in società”. E se finora questo riguardava la possibilità di affittare stanze della propria abitazione o la propria automobile trasformandole in attività economiche laddove le imprese hanno la funzione di intermediazione tra il “pubblico” e il fornitore dell’appartamento o dell’automobile all’interno del regime di accumulazione capitalista, l’innovazione è necessariamente “esterna” allo scambio economico. Le “app” infatti sono sviluppate da piccoli gruppi di informatici e non solo in cerca del colpo gobbo che farà arricchire tutti. Ed è per questo motivo che nella sharing economy le imprese che fanno profitti devono operare quasi in una condizione di monopolio, costruita attraverso il regime della proprietà intellettuale, la capacità “politica” di imporre relazioni fortemente individualizzate nel rapporto di “lavoro”. Come questa tendenza alla condivisione possa consentire il superamento del capitalismo è la domanda che non può essere liquidata dall’invito a moltiplicare le forme di mutualismo e di piccole attività economiche non mercantili. Paul Mason declina la risposta con il suo “progetto zero”. L’economista inglese esemplifica il superamento del capitalismo a partire dalla diffusione virale di attività di autogestione e autorganizzazione che lo svuotano dall’interno. Il mutualismo, lo sviluppo di attività economiche – lo studioso americano Trebor Scholtz le definisce platform cooperativism – sono certo pratiche sociali altre rispetto alla sharing economy e al capitalismo in generale perché costituiscono uno spazio di resistenza all’ordine vigente. Ovviamente sono chiamate ad uscire dalla dimensione locale, circoscritta, del loro operato. Da questo punto di vista Scholtz prospetta federazioni settoriali, coalizioni sociali che possono dare un respiro nazionale, ma anche globale allo sviluppo no-copyright di “app”, ma anche di produzione agricola biologica, di mobilità collettiva, di produzione di manufatti che vanno dall’elettronica di consumo all’abbigliamento, nonché alla erogazione di servizi (cure mediche, formazione scolastica e universitaria). È cioè la crescita di un mondo parallelo che muove dagli interstizi del capitalismo per poi abbandonare la sua dimensione marginale e diventare, per riproduzione e imitazione, un’alternativa generale. Nulla viene detto dei possibili punti di contatto tra questo mondo parallelo e l’ordinario funzionamento del capitalismo. La tendenza, cioè, a ricondurre il mutualismo e l’autogestione all’interno dei rapporti sociali dominanti. E sicuramente non è un ordine di problemi che può essere facilmente liquidato evocando la secolare esperienza delle cooperative novecentesche, sempre più integrate nell’economia dominante. Un ordine di problemi che potrebbero essere meglio affrontati se accanto allo sviluppo di mutuo soccorso e di pratiche di autogestione venisse affrontato il perdurare di rapporti di sfruttamento del lavoro vivo. Detto più sinteticamente, il platform cooperativism è commisurato alla crescita della precarietà, alla privatizzazione del welfare state, ma non può essere disgiunto dal conflitto del lavoro contro il regime di accumulazione capitalistico. Il “progetto zero” di Mason, così come il platform cooperativism di Trebor Scholtz rinunciano a definire la cornice politica che ne possa garantire la continuità. Quel che è assente in questa proposta di superamento del capitalismo è una teoria del Politico, cioè di una organizzazione politica che entri in rotta di collisione con forme di impresa che agiscono a livello globale e dunque anche locale. Senza un’idea del Politico il postcapitalismo vagheggiato in questa tarda riedizione del socialismo utopistico ottocentesco è dunque solo un virus mutante in senso solidaristico e egualitario della sharing economy. Ciò che serve è quindi la capacità politica e sociale di agire globalmente contro i centri del potere politico ed economico, producendo forme di autorganizzazione locale, laddove cioè la sharing economy accentua la precarietà, e apre le porte, grazie proprio alla Rete, alla formazione di imprese monopolistiche.
L’emergere della Rete come infrastruttura comunicativa e scheletro di qualsiasi organizzazione produttiva rendono cioè la sharing economy, anche nella sua radicalizzazione solidaristica, il terreno dove si addensa la cro...

Indice dei contenuti

  1. INbreve
  2. Dalla rete alla Sharing Economy
  3. Il capitalismo delle piattaforme
  4. Il bacino del lavoro