Pandemia Capitale
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Pandemia Capitale

Postapocalittici&Disintegrati

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Pandemia Capitale

Postapocalittici&Disintegrati

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La pandemia del Covid-19 è uno specchio improvvisamente puntato sulla società dell'Antropocene: individui uniti dalla competizione e barricati nei bunker immateriali della virtualità. Una dis-società di post-apocalittici e disintegrati, per parafrasare Umberto Eco. In una permanente emergenza socio-sanitaria, il restyling del «capitalismo delle piattaforme» nella sua vertiginosa crescita, non basta più. Gli autori ricompongono il frammentato quadro di un presente dove il capitale e il valore assestano il colpo di grazia alle risorse umane ed energetiche, tra «lavoro zombie», collasso ambientale e mercificazione delle identità digitali: ultimo stadio di un processo regressivo che necessita di un nuovo inizio. Con la sola certezza che, come appare in una scritta su un muro di Barcellona, «non possiamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema».

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9791280124289
Categoria
Sociologia

Parte prima: il virus e il corpo

Sinfonietta micrologica

“È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” – scriveva non molto tempo fa il compianto Mark Fisher. La frase – mutuata da due titani del post-marxismo contemporaneo come Fredric Jameson e Slavoj Žižek – sarebbe poi diventata la sineddoche del suo piccolo saggio dal titolo Realismo capitalista. Un intervento che – proponendosi lodevolmente di disincagliare il pensiero critico contemporaneo dalle secche di un massimalismo sterile come dal narcisismo delle cause perse con cui si era ormai soliti da anni liquidare qualunque tentativo di fuggire dal bunker nel quale l’umanità è andata alacremente inumandosi dalla Seconda guerra Mondiale in poi, pur sotto una patina di progresso e sviluppo per una sua frazione – rischiava di sancire involontariamente il trionfo dell’avversario per cercare di combattere il quale lo si era scritto. Insomma un intervento, quello di Fisher, che secondo il nostro punto di vista – nonché alla luce della pretesa malcelata di levarsi Hegelianamente al tramonto dell’utopia anticapitalistica, come la ben nota nottola – e nonostante le intenzioni chiaramente opposte dell’autore, non è riuscito a togliere al pensiero critico la sordina di uno sgonfio e tremebondo riformismo, finendo per sancire suo malgrado l’ineluttabilità della “società di supermercato”, lo stesso di fronte al quale, mentre scriviamo, bisogna fare la fila a debita distanza ed entrare uno alla volta.
Si sa che del capitalismo non si parla mai. Le pubblicazioni, gli economisti, i giornalisti liberal – un tempo si chiamavano più semplicemente borghesi – lo danno per scontato: è il soggetto sottinteso di ogni asserto ed evento, qualcosa di dato e naturale. Che l’abbia davvero detto Brecht o sia un’attribuzione spuria, importa poco: il capitalismo, di fatto, è un gentiluomo cui non piace sentirsi nominare. Ebbene, ci voleva la paura di massa della morte fisica a trascinarlo non sul banco degli imputati – figuriamoci –, ma almeno in piena luce. Nel frattempo, l’impatto biomedico della Pandemia ha provocato una risposta in tre fasi. La prima è stata quella dell’“andrà tutto bene” – la frasetta augurale misteriosamente comparsa su alcuni citofoni lombardi all’inizio di marzo. Subito diventata (oltre che un hashtag, un marchio di fabbrica e il titolo di almeno due canzoni pop) il segno vulnerabile di un homo deus che, sbronzo, cade dal trono della singolarità direttamente in bocca a un pericolo ancestrale, ci ha aiutato ben poco a uscire dalle spire di questa paura, semmai l’ha rafforzata come fa ogni scongiuro. Tanto che della paura è prontamente scattata l’operazione di contenimento e soppressione, retrodatata come un assegno, attraverso la “fase 2”, che definiremmo l’“andava tutto bene”. Un ripetersi che questo disastro non ha nulla a che vedere con l’innominabile modello che ci siamo dati: che quello che ha generato la Pandemia era comunque il migliore dei mondi possibili, anche se sono così belle l’aria pulita e le città senza traffico. Per poi gettarsi a corpo morto nella terza fase, quella della piena “ripartenza:” dove tutta la poderosa macchina ideologica dell’occidente si è rimessa in moto per diffondere la falsa notizia.
Perché con la Pandemia del Covid-19, qualcosa è irrimediabilmente cambiato. È la fine di un’era in cui l’entropia semiotica della Rete era il fertilizzante per l’azione inoppugnabile di un capitalismo mutante come un OGM, capace di un poderoso restyling permanente nell’Infosfera per darsi, per l’ennesima volta, come modello unico dell’umana convivenza. La frase di Jameson da cui partiva Fisher ha perso improvvisamente parte della sua ineluttabilità, della sua verità paradossale, riguadagnando il campo del possibile. Sia dell’una che dell’altra fine purtroppo: mai come in quest’ultimo secolo e mezzo i due termini non potevano darsi uno senza l’altro. Anzi, il paradosso di Jameson mirava proprio a sottolineare la loro interdipendenza: lo sviluppo storico dalla modernità fino ad oggi ci ha ripetuto fino alla nausea che il mondo ha bisogno del capitalismo quanto, se non addirittura di più, del suo contrario. Tanto da far diventare il secondo quasi sinonimo del primo, l’attributo fattosi nome. Ma proprio mentre il mondo reale andava esaurendosi nella sua fisicità (tutto – territori, beni, materie prime, risorse – era stato scoperto, delimitato, appropriato, privatizzato, estratto, sfruttato e reinvestito attraverso due rivoluzioni e due restaurazioni, due guerre calde e una fredda) passando attraverso l’antico, il premoderno, il moderno e il postmoderno, l’incorporeo, non in senso spirituale ma digitale, è entrato in gioco per permetterci di ricominciare tutto da capo. L’avvento della Rete ha aperto la terza stagione della serie Netflix Economia Politica: dopo Reale e finanziaria, Virtuale.
Oltre vent’anni fa Jay David Bolter e Richard Grusin parlarono per la prima volta di “rimediazione” (remediation) per descrivere il processo di rappresentazione di un mass-medium in un altro di cui il primo diventa, a tutti gli effetti, il contenuto. Un processo realizzato attraverso l’utilizzo di alcune caratteristiche tipiche del primo media in un secondo, appartenente a un diverso ambiente percettivo. Il modello di riferimento dei due studiosi era naturalmente la rimediazione digitale dei media analogici: la pagina di un portale Web che ri-media quella di un quotidiano stampato trasformandolo in ipertesto, un video embedded che ri-media la proiezione di una pellicola cinematografica, e così via. Anche il capitale classico, che come Guy Debord notava nella Société du Spectacle era divenuto ormai da decenni un enorme accumulo di immagini, come tutta la cultura umana è stato “ri-mediato” dal capitalismo delle piattaforme, diventandone in apparenza il contenuto, in pratica il paziente tenuto in vita dal polmone artificiale dell’Infosfera e delle sue privatizzazioni del pubblico e pubblicazioni del privato. Un brillante rimedio, ci si passi la sciocca freddura, a un problema di doppia sovrapproduzione: nei campi del creabile prima, e del riproducibile poi. La disruptive innovation del personal computer prima e in seguito dello smartphone, trasformatasi nella “rivoluzione digitale” del Web, era riuscita infatti ad archiviare il più grande anatema del tardo Novecento, quello che il filosofo Jeanfrançois Lyotard sintetizzò nel 1979 nel saggio La condition postmoderne. Rapport sur le savoir. Un testo diventato (proprio malgrado) per decenni lo stigma di un presente senza fine, in cui si annunciava la fine della Storia come la avevamo conosciuta per millenni, e cioè come frutto dei “grand récits”, le “grandi narrazioni” illuministiche su cui si fondavano i valori umani dell’occidente, l’emancipazione dallo sfruttamento, il progresso come miglioramento delle condizioni di vita, la dialettica come fondamento del sapere: grandi narrazioni attraversate dallo sforzo di costruzione di sistemi di pensiero capaci di afferrare la totalità e la complessità dell’umano, nello sforzo di imprimere alle sue fenomenologie sociali dei cambiamenti virtuosi. E che erano il dénouement continuo della lotta di classe. Insomma, per usare un’espressione che va forte nel lessico post-femminista anglofono, si era sbattuto contro il glass ceiling, il soffitto trasparente della redditività, nella perenne ricerca della quale si era quasi involontariamente inventato il concetto di Storia. Il soffitto trasparente, oltre il quale si vedeva qualcosa di irraggiungibile ma irrinunciabile, coincideva con la trasformazione del mondo intero in merce e con la necessità, inesorabile e conseguente, di inventarne di sana pianta un altro che la comprasse. Una débâcle definitiva dello Spirito del Mondo Hegeliano, dunque, che spianava il campo a un fatalismo millenarista che pareva irreversibile.
A chiudere il circolo della riflessione sulla condizione postmoderna fu un decennio più tardi Fredric Jameson in Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, dove il teorico Americano della New Left metteva a fuoco in maniera ancor più nitida, di fronte ai primi barlumi del capitalismo digitale, le conseguenze del crollo della soggettività umana nel riflusso pragmatico di un individualismo radicale, imbevuto di se stesso nella contingenza e nell’estetizzazione della merce. Intervento epocale questo, in cui la teoria critica cercava di fare un bilancio delle immense perdite teoriche sul campo all’indomani della caduta del Muro di Berlino, dell’implosione dell’unione Sovietica e dei relativi socialismo reale/realismo socialista di cui quasi trent’anni dopo Fisher avrebbe teorizzato il rovesciamento. Se erano finite le narrazioni doveva esser per forza finito anche il loro presunto oggetto, quella perenne ricerca della felicità ipostatizzata nella redditività che abbiamo preso l’abitudine di chiamare romanticamente Storia: ed ecco che, più o meno negli stessi anni, francis fukuyama ne forniva la teorizzazione, per così dire, socioeconomica con il tropo fine della storia, una fortunata frasetta a effetto dalla semplicità disarmante anch’essa immediatamente schizzata in vetta alla classifica delle citazioni più petulanti e meno significanti negli editoriali dei quotidiani liberal occidentali, consegnando il divenire a un tapis roulant dove correre sul posto. Proprio così, cessando, la storia e la sua narrazione venivano ri-mediate.
Jameson ha stigmatizzato questa trasformazione del pensiero come “evoluzione culturale del tardo-capitalismo”: un’implosione radicata in un passaggio storico-tecnologico che ha comportato la progressiva scomparsa delle macchine produttive del passato, e l’estensione indefinitamente grande del dominio delle nuove macchine riproduttive cibernetiche a tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Macchine riproduttive clonanti realtà che hanno conquistato rapidamente anche le forme elementari della percezione individuale, determinando un’antropologia adattiva a un sistema economico caratterizzato dal declino della soggettività espressiva, l’implosione del tempo e l’equivalenza dello spazio: un contesto di superficialità relazionale ingabbiata in un presente senza sviluppo, e nella rinnovata assenza di una progettualità nel futuro camuffata da (inter)azione quotidiana. Jameson aveva mirabilmente colto l’epifania di quest’assenza già nella sua discussione del postmodernismo in musica, discutendo Adorno, e in architettura. Nella musica, la grande narrazione moderna finisce con la dodecafonia: nel solipsismo estetico di Schönberg si trova l’ultimo rivoluzionario, avanguardista, titanico tentativo di dire l’autodissoluzione del Novecento culminata nei campi di concentramento tedeschi, mentre il vero precursore del post-modernismo sarà il pur immenso Stravinskij, non a caso assai più sensibile di Schönberg alla fascinazione di fama e denaro; magistrale re-interprete di stili del passato come le sue composizioni “barocchesche” perfettamente illustrano. Ma fu in architettura, politica dello spazio prima ancora che “musica congelata” di goethiana memoria, che l’urto con il soffitto di vetro si era reso più che mai evidente nel cosiddetto “storicismo:” la cannibalizzazione del passato, il gioco della rapsodica allusione stilistica, e quello che Henri Lefebvre aveva definito la “crescente preminenza del neo”. Il limite ultimo della creatività portava alla reinterpretazione del passato in quello che spesso non era altro che un suo “simulacro” nel senso suo platonico più forte: la copia identica di un originale inesistente, che è poi lo stesso bagliore che si coglie nel culto del vintage dell’estetica hipster, subentrata alle vecchie subculture musicali negli ultimi vent’anni, e che oseremmo definire “vintagonismo” dei consumi: dall’arte per l’arte delle avanguardie, al vintage per il vintage delle retroguardie.
Lo sgretolamento della narrazione storica e prospettica dei mutamenti umani ha trovato così un habitat naturale nell’iper-frammentazione “inclusiva” del Web 2.0, il cui “rizoma” ipertestuale ha fornito per quindici anni di onlife agli individui l’illusione di partecipazione a un’intelligenza collettiva, libero terreno di sviluppo identitario della nuova soggettività: quella dello user “spettatore attivo”, co-regista dello spettacolo autorappresentativo dell’umanità. Un enhancement del cittadino-utente capace di generare una rinnovata fiducia nel progresso come sicuro dominio della tecnologia, dove il proseguimento indiscriminato della parabola di sfruttamento capitalistico delle risorse naturali e umane, rafforzato e sistematizzato dal mercato del data mining dei nuovi “player” dell’Impero Digitale, ha fondato la sua azione indiscriminata sullo scorrere alla velocità dello streaming di miliardi di immagini sempre nuove ogni giorno. La sola crisi di sovrapproduzione in cui è incorso il capitalismo globale nell’era della “democrazia digitale”, infatti, prima di restare vittima della prima crisi da sottoproduzione del millennio, è stata la sovrapproduzione esegetica, incarnata nella trasformazione di ogni “user” della rete in uno storyteller, non solo artefice della messa in scena pubblica della propria vita, ma anche analista fai-da-te e interprete del reale nel carrozzone pubblico-privato dei Social Network.
In questo grande Dopo, nel silenzio che segue all’impatto improvviso tra il meteorite del Covid-19 e il mondo, il fantasma di Lyotard è tornato a sancire la fine di un altro tipo di récit. A essere rese impotenti dall’evento pandemico sono infatti le micro-narrazioni quotidiane che hanno funzionato fin qui come rito apotropaico di una catastrofe, benché annunciata, sempre imminente ma procrastinabile, che di fronte alla secca smentita dell’“andava tutto bene” si sono ritrovate, nella solitudine materiale del lockdown, a contemplare il coronavirus come fosse il ritratto di Dorian gray del capitalismo. E cioè, qualcosa che restituisce la visione scioccante dei suoi lineamenti deturpati, il segno indelebile e oggettivo della sua macabra, mascherata e colpevole dissolutezza. Ed è solo di fronte al rischio improvvisamente concreto di estinzione della specie, che del capitalismo come sistema emerge il carattere ineluttabile, finora così efficacemente mistificato: disvelando che di quel rischio letale è certamente tra le cause, e non, come ci siamo bonariamente raccontati finora, tra le sue soluzioni.
A rileggere certi passaggi di Realismo capitalista nel silenzio immobile e cimiteriale delle capitali europee in cui si vergano queste note, il rimpianto della prematura scomparsa di Fisher ne esce, se possibile, raddoppiato. Sarebbe illuminante conoscere la sua reazione e riflessione davanti a quest’improvviso, solo ora faticosamente revocato, fermo-immagine di una webcam che si credeva puntata su un flusso eterno. Di fronte a questo freeze-frame che ci costringe a constatare in tutta la loro crudezza i dettagli dell’immagine congelata e ferma di un mondo letteralmente vuoto, c’è un’altra temibile rivoluzione in atto: la rivincita della sostanza sull’apparenza, il riemergere del sentimento di un fondamento ontologico, di qualcosa che ci condiziona senza appello al di là della rassicurante dittatura della contingenza. Il lockdown è la pillola rossa di The Matrix (1999), il seminale film delle sorelle Wachowsky, un supremo varco attraverso il quale sfuggire alla binaria insensatezza di zero e uno di cui è fatta la più gran parte della nostra vita e vederne illuminata l’ideologia. A volte se ne colgono sprazzi momentanei e brevissimi, come la falena superstite che si aggrappa fatidica alle immagini del monitor luminoso proprio nel momento in cui scriviamo queste note, unica cosa viva in un universo di simulazione vitale. Oppure è il paio di occhiali da sole “magici” di Essi vivono di John Carpenter (1988), di cui peraltro lo stesso The Matrix può esser visto come l’aggiornamento: indossandoli – a forza, come nella scena della scazzottata che si trascina per sei strazianti quanto ridicoli minuti, in cui il protagonista cerca farli mettere al suo migliore amico –, l’ordine invisibile che governa la nostra libertà apparente viene dolorosamente scoperto. Quei sei minuti condensano la sonora sberla che l’umanità ha ricevuto dal Virus. Il rapporto tra immagine e sguardo nella temperie pandemica ha rotto l’illusione di una realtà di per sé inesistente, come quella che il “computational imaging”, l’occhio del computer, crea interpretando le onde di luce amorfe con i suoi algoritmi che ne colgono solo i valori per cui vengono programmati, fornendo una “immagine intenzionale”, corretta già all’atto della visione. La vecchia lente oculare, “rimediata” dalla digitale, che bissava l’occhio nella percezione analogica di una realtà 1:1, strumento materiale che metteva in contatto l’umano con un mondo concreto e non generato da valori algoritmici programmabili, a poco a poco espunta dal mondo cognitivo completamente manipolato della digitalità, torna a imporre ora la separazione reale tra il soggetto produttore di immagini virtuali potenzialmente infinite, e un mondo esterno fatto di realtà concrete, indomabili, assolutamente finite, deperibili e ridotte a ruderi dallo sfruttamento indiscriminato del sistema umano da parte del capitalismo. Il mondo extra-elettronico: nudo, immediato, imperativo. La dittatura della Soggettività tipica dell’esistenza in Rete, resta ora terrorizzata dalla scoperta di una realtà oggettiva che la precede e la sopravanza, su cui nessun algoritmo ha alcun potere di controllo: quella di una Natura biologica soggiogata, straziata, che torna con un colpo di coda a far tremare la fragile giostra virtuale dell’umanità, dove tutti vortichiamo senza cintura intorno al motore disumano e sempre acceso del Capitale.
A partire da questo terremoto della coscienza collettiva, per la nostra analisi ci proponiamo di utilizzare uno strumento duttile, una forma aggiornata alle retoriche dell’era digitale di quella che Walter Benjamin definiva micrologia, un metodo materialista di attraversamento critico del proprio tempo capace di risalire dai frammenti apparentemente sparsi dei fatti al ...

Indice dei contenuti

  1. esplorazioni
  2. Premessa
  3. Introduzione Non con uno schianto, ma un colpo di tosse
  4. Parte prima: il virus e il corpo
  5. Parte seconda: il virus e l’anima
  6. Parte terza capitalismo pandemico
  7. Bibliografia