Le parole della politica
1. Politica I
14 novembre 1978
in studio: | Licia Conte, Rossana Rossanda |
interviste: | Lidia Campagnano, Rossana Rossanda |
intervistati:aaa | Clara Gallini, Anna Maria Romolo, Valeria Ascoli, Pietro Ingrao |
licia: Rossana è una donna che fa politica da sempre; come lei stessa riconosce, “vive di politica”. Prima di tutto voglio chiederle se la proposta di lavorare con noi l’ha messa in difficoltà, le è parsa ardua.
rossana: Mi ha preoccupato. Mi fa paura il mezzo radio. Io sono abituata a parlare con gente che vedo. Perfino in quell’atroce forma di comunicazione, propria dei politici, che è il comizio, quando tu stai in piedi su un palchetto e chi ti ascolta sotto è lontano e silenzioso, c’è una intesa: sono venuti a sentirti, è presupposto qualcosa di comune, vedi le facce, ti lanciano un segnale. Perfino quello che a un certo punto se ne va – e lo vedi e ti casca il cuore nei calcagni – ti ha detto una cosa: che non lo interessi. Qui invece non so a chi parlo, a una donna immaginaria che è a casa alle dieci del mattino; non so se mi ascolta, se spegne la radio, se quel che dico arriva e come arriva. Parlar da soli è inumano, le femministe direbbero che è “maschile”.
Poi sono una donna che appunto “fa politica da sempre”. A quante donne succede? Vado a letto rimuginandoci e mi sveglio ricominciando a pensarci: non è normale. La giornata di quelle che, in teoria, mi ascoltano è diversa, la loro strada è un’altra. Temo di non farmi capire. Speriamo che qualcuna telefoni “Ma che dici, di che parli, spiegati”.
Licia: Quando ti abbiamo chiesto di parlare sulle donne e la politica, prima ci hai pensato su, poi hai proposto di partire dalle parole della politica. Perché?
rossana: Perché le hanno pensate e usate gli uomini, e in genere solo loro. Debbono dunque avere per le donne un significato diverso, riflettere un vissuto diverso. Forse con diffidenza, forse con un velo di utopia, forse con totale scetticismo. Anzitutto vorrei sondare, attraverso queste conversazioni, se è proprio così. Poi, se è così, come le donne sentono dunque queste parole, quale senso vi aggiungono o vi sottraggono; penso a parole come libertà, uguaglianza, partito, stato, rivoluzione – ce ne sarebbero moltissime.
Fra parentesi, scorrendole avevo notato come le grandi parole della politica, specie quelle “belle” – democrazia, libertà, uguaglianza – siano al femminile; mentre le parole del potere sono maschili, stato, governo, partito. Anche potere, che è diverso da potenza. Che abbia un significato, questo diverso sesso? Un grande linguista interpellato, Tullio de Mauro, ci ha detto di no; avrà ragione lui, e lasciamo andare.
Dunque la prima parola della politica è, naturalmente, politica. Che vuol dire? Viene dal greco polis, che significa città. Politica sono le cose della città, della società organizzata. Le donne sono state per millenni escluse dal discutere e dal decidere le cose della città, e relegate nel recinto delle cose della famiglia. Oggi si usa dire che hanno fatto parte della “società civile” e non di quella “politica”.
La politica è stata di dominio degli uomini. I quali l’hanno fatta definendo regole e leggi, costruendo stati e poteri, attraverso lotte e conflitti. Gli uomini hanno fatto le nazioni, attraverso guerre giuste e ingiuste...
licia: Ci sono guerre giuste?
rossana: Forse sì. Sì. Le guerre per l’indipendenza sono giuste. Ma sta di fatto che mai, credo, le donne hanno deciso una guerra. Le guerre le decidono gli uomini e poi mandano le donne a seppellire i morti.
Da circa un secolo a questa parte le cose sono cambiate e le donne, entrate in massa nel lavoro anche non agricolo, hanno cominciato ad entrare in politica. Prima pochissime, poi un poco di più; ma sempre relativamente poche. In Italia la discussione sui loro diritti di cittadine è durata decenni e si è risolta positivamente soltanto dopo la liberazione; esse erano già entrate nel sindacato, nei partiti, poi nella lotta antifascista, la guerra e la resistenza.
Grandi rotture storiche le fanno entrare in politica; tanto da farmi chiedere se sono loro che vi entrano, o se sono gli eventi politici che, travolgendole, le coinvolgono. Ho provato a domandare com’era avvenuto il primo approccio con la politica a donne di età diverse: a me, prima di tutto, che ho cinquantaquattro anni, e poi ad altre tre donne, di dieci in dieci anni più giovani. Io sono un caso tipico di donna che è stata invasa dalla politica. Avevo diciassette anni, studiavo filosofia e storia dell’arte, ero tanto convinta della superiorità delle cose della cultura e dello spirito che guardavo perfino alla guerra con fastidio, come un ostacolo ai miei piani, un male soprattutto per gli altri. Un giorno me ne stavo alla finestra con mia madre, a Milano, c’era l’allarme, e contemplavamo gli aerei inglesi, credo, che sfrecciavano sopra di noi. Uno di essi ha sganciato un grappolo di bombe, che – le vedo ancora – si sono raddrizzate, sgranandosi nel cielo e poi, in direzione obliqua, andando a cadere poco prima della nostra casa, che prese fuoco, mezza demolita. In quel momento – ce n’è voluta – capii che se il pilota avesse sganciato pochi secondi dopo, demolite eravamo noi; che un caso, un filo reggeva la mia vita, le cose in cui credevo, i miei pomeriggi in biblioteca alla scoperta delle grandi idee... che ero una ragazzetta sciocca in balia d’una guerra sulla quale non potevo nulla e che poteva tutto su di me.
Credo che sono entrata in politica (cercando a chi agganciarmi e trovando, di risoluti e raziocinanti – mi pareva nella mia immensa presunzione – solo i comunisti) per l’impossibilità di accettare passivamente questa coazione; ci sono entrata sotto le bombe e sotto l’occupazione tedesca. Potevo guardare i tedeschi fucilare i mie...