Io e mia sorella
Io e mia sorella arrivava in un momento importante. Avevo deciso di essere me stesso e di raccontare una storia reale. Una coppia di Spoleto, due musicisti e un evento traumatico che sconvolge la serenità della loro casa
È il 1987, siamo a ridosso degli anni ‘90, è un periodo di grande cambiamento. La tecnologia ha preso il sopravvento e la frenesia ha invaso la quotidianità delle persone. Il computer inizia a spopolare, mentre la macchina da scrivere si incammina verso un lento e inesorabile declino. Nel frattempo, dall’altra parte dell’universo, in Argentina, nasce una Pulce dai piedi d’oro. Tutti lo chiamano Leo, ha un mancino discreto, ne sentiremo parlare. In televisione va in scena il debutto dei Simpson: marito, moglie e tre figli dalla pelle gialla, una vita sregolata e un linguaggio politicamente scorretto. Negli Stati Uniti, sulla rete CBS, si fa spazio la prima puntata di Beautiful. A giugno, in serie A, il Napoli di Maradona si laurea campione d’Italia con tre punti di vantaggio sulla Juventus. A pochi giorni da Natale invece, il 19 dicembre, esce al cinema Io e mia sorella, la settima perla di Carlo Verdone.
Arriva ed è subito campione d’incassi al botteghino dopo Un sacco bello, Bianco rosso e Verdone, Borotalco, Acqua e sapone, I due carabinieri e Troppo forte.
Questa volta si tratta di un taglio netto con il passato, adesso è il protagonista a recitare se stesso. È quello che viene definito il grande balzo verso una carriera di successo. Il film incassa circa 8.993.924.000 lire, cifra che lo posiziona all’8° posto nella classifica del box office nostrano. Al David di Donatello la sceneggiatura se la portano a casa Carlo Verdone, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. La migliore attrice non protagonista è Elena Sofia Ricci. A Ornella Muti il Nastro d’argento.
“Ero molto soddisfatto - racconta Verdone - del salto di qualità che avevo ottenuto, Io e mia sorella arrivava in un momento importante. Avevo deciso di essere me stesso e di raccontare una storia reale. Una coppia di Spoleto, due musicisti e un evento traumatico che sconvolge la serenità della loro casa”.
Una famiglia normale e abitudinaria stravolta dall’arrivo di una sorella un po’ troppo ingombrante. È il tema principale su cui si sviluppa il film, ambientato anche all’estero. La trama non è complessa, ma ricca di risate e colpi di scena: “Feci capire a tutti che ero un bravo regista. Diressi al meglio delle possibilità Ornella Muti. La portai ad essere la ragazza della porta accanto e non più quell’immagine irraggiungibile che lavorava con Adriano Celentano. Diventò una persona normale, con i suoi problemi e le sue ansie. La frequentai per un po’ e scrissi su di lei il personaggio di Silvia, la chiamai come mia sorella. Durante le riprese era incinta di cinque mesi, la pancia si iniziava a vedere, riuscimmo a girare per miracolo”.
Una sterzata improvvisa, è un Verdone inedito, che ama raccontarsi e raccontare esperienze di vita vissuta. Il passaggio verso il cinema borghese lo intriga parecchio. C’è bisogno di ricercare meno il personaggio e più l’attore, serve una buona idea e soprattutto una sceneggiatura solida. Non basta più il nome di un interprete a spingere la gente al cinema, vince chi ha più qualità. Verdone ne è consapevole, sente che il suo potenziale è ancora inespresso: “Il film andò bene e mi permise di acquistare stima. Ne era un grande ammiratore Gillo Pontecorvo, lo amava in maniera incredibile. Una sera mi telefonò per dirmi che avevo fatto un capolavoro. Non lo so, di sicuro si respirava una bella malinconia. Era finalmente un qualcosa di reale, non servivano parrucche, si parlava italiano. Averlo ambientato in Umbria, ma anche le trasferte in Inghilterra e a Budapest, mi aiutarono a recitare in maniera diversa”.
A distanza di anni, attraverso la pagina Facebook ufficiale dell’attore romano, Ornella Muti ha posto una domanda: “Caro Carlo, grazie per questo bel racconto. Ma secondo te, che fine ha fatto la sorella?”. Puntuale e fantasiosa la risposta davanti a milioni di seguaci: “Secondo me ha vissuto col fratello, fino a quando lui non si è risposato con una donna bella, ma assolutamente priva di ironia, lasciandole la casa. Lei invece si è messa insieme con uno un po’ più grande: un bell’uomo, direttore di banca, ma di una noia mortale. Un bel giorno Carlo ritorna a casa da lei: si è separato dopo 6 mesi. E dopo qualche settimana anche Silvia manda a quel paese il suo uomo. Finale: i due invecchieranno insieme, e il figlio di Silvia vedrà nello zio Carlo il padre. La vedo così: una grande storia tra fratelli che sbagliano sempre le relazioni”.
Si festeggia fuori dai confini, Io e mia sorella ha convinto proprio tutti, anche se qualcosa non va come dovrebbe: “Vincemmo all’estero. Venne il distributore di Nanni Moretti al Festival di Villerupt, dove ci fu consegnato il premio del pubblico. Chiesero di comprare la pellicola, li misi subito in contatto con Cecchi Gori. La proposta iniziale fu da 100 milioni, Mario voleva il doppio. Cercai di spiegargli che avremmo dovuto cederlo anche gratis, d’altronde in Francia non ero conosciuto. Alla fine però capii che c’era tutta un’operazione che prevedeva che il film fosse venduto alla Rai, Giuseppe Rossini aveva chiuso un contratto clamoroso. Loro erano più interessati a darlo alla futura Penta, piuttosto che trasferirlo all’estero. Per me fu un colpo durissimo, mi preclusero la possibilità di diventare famoso fuori dall’Italia”.
Niente paura, nonostante la delusione è fondamentale rimboccarsi le maniche e creare un altro capolavoro da consegnare all’Italia. Si lavora a un film corale, Verdone vuole sorprendere ancora. Lo spunto è geniale e arriva quasi per gioco, d’altronde accade sempre così: “Tutte le attrici volevano recitare con me. A fine agosto 1987 il film era pronto, uscì a Natale. Decisi di alzare il tiro e iniziai a seguire un’idea che potesse affermare ancora di più le mie capacità da regista. Fino a Io e mia sorella ero l’attore che si trasformava, bravo a imitare la gente della strada. Mi stavo indirizzando però verso una commedia un po’ borghese che non mi dispiaceva. Un cambio di rotta che mi avrebbe permesso di fare sempre meglio. Volevo un film estremamente corale. Mi venne incontro un’occasione”.
Una cena drammatica
Una rimpatriata, uno strepitoso spaccato veritiero e agghiacciante dell’Italia degli anni Ottanta, che si affaccia ai Novanta con uno sguardo proiettato al futuro. Malinconia ed esperienza, ex liceali con tanta voglia di confrontarsi, di riaccendere antiche antipatie e vecchi amori. Si riacutizzano invidie, gelosie, stati d’animo con mille sfaccettature. Si contano anche i morti, ci si rende conto di quanto la vita possa cambiare le persone. E quasi mai in meglio.
È una scintilla vincente, scocca all’improvviso, ma impiega qualche giorno ad accendersi. C’è la necessità di girare una pellicola di gruppo, serve un’inversione di tendenza, tanti attori e nuove difficoltà all’orizzonte.
Il successo di Io e mia sorella ha portato una ventata di ottimismo, anche il produttore si fida ciecamente ed è disposto ad ascoltare nuove proposte. Una rimpatriata, uno strepitoso spaccato veritiero e agghiacciante dell’Italia degli anni Ottanta, che si affaccia ai Novanta con uno sguardo proiettato al futuro. Malinconia ed esperienza, ex liceali con tanta voglia di confrontarsi, di riaccendere antiche antipatie e vecchi amori. Si riacutizzano invidie, gelosie, stati d’animo con mille sfaccettature. Si contano anche i morti, ci si rende conto di quanto la vita possa cambiare le persone. E quasi mai in meglio. Ognuno torna alla propria storia, non c’è più l’altruismo di una volta: è sparito, sepolto. Regna soltanto l’egoismo e una mitomania a tratti irrefrenabile, simbolo di grande attualità: “Ci fu una telefonata di un mio compagno di scuola - svela Verdone - mi fece i complimenti per la carriera e mi disse che stavano organizzando la cena della terza A. L’appuntamento era in un ristorante sulla Cassia. Io andai, De Sica non venne, certe riunioni gli provocavano tristezza. Così almeno mi disse. Ritrovai quasi tutti i miei amici, molti si erano mantenuti, molti altri no. Alcuni feci fatica a riconoscerli, avevano perso i capelli, da lì nacque l’idea di Fabris. Qualcuno, addirittura, stava male e poi morì”.
È primavera, fine maggio 1988, parte l’appello più drammatico di sempre. Federica Polidori è una donna tradita dalla vita, sola e allo sbando. Si trucca gli occhi, maschera il viso dalla tristezza, è rinchiusa da qualche ora in camera da letto. Da un po’ di giorni ha deciso di organizzare una rimpatriata, di ritrovare dei vecchi amici, di paragonare il presente con il passato. Il ritrovo è fissato per le 18 in una vecchia Villa sull’Appia Antica. Paura, ansia, sensazione di vuoto, nostalgia e un sacco di solitudine.
“Ma che senso hanno queste riunioni? Secondo me non viene quasi nessuno”. Se lo chiede l’eterno Fabris, dimagrito e...