La Giungla
eBook - ePub

La Giungla

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La Giungla

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Volume numero 8 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola.

A seguito di disordini scoppiati nel quartiere dei macelli di Chicago, Upton Sinclair ricevette da un settimanale socialista l'incarico di documentare le condizioni di vita degli operai impiegati nel trust della carne.

Le testimonianze raccolte, l'osservazione antropologica e l'acuta analisi ambientale deflagrarono ne " La Giungla", in cui la storia dell'emigrante lituano Jurgis Rudkus e la discesa agli inferi della sua famiglia, l'infrangersi del sogno americano e il crudo realismo della narrazione incentrato sulle pratiche insalubri di lavorazione e confezionamento della carne messe in atto dalle industrie conserviere si abbatterono sui lettori, andando a stravolgere il mondo della narrativa stelle e strisce.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a La Giungla di Upton Sinclair in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Social History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788869345852
Argomento
History

1

Più o meno alle quattro del pomeriggio, dopo che la cerimonia si era conclusa, cominciarono a giungere le vetture. Per tutto il tragitto erano state scortate da una folla enorme, pungolata dall’esuberante effervescenza di Marija Berczynskas. Il buon esito della festa, infatti, la responsabilità che ogni cosa filasse per il verso giusto – secondo le antiche tradizioni – cadeva totalmente sulle sue larghe spalle, anche se, a furia di correre come una dannata di qua e di là per tirare da parte chi si metteva in mezzo, e a forza di impartire ordini e moniti a questo e a quello con la sua voce roboante, Marija aveva finito per essere troppo occupata a badare che tutti si comportassero come si doveva per curarsi di se stessa. E così aveva lasciato la chiesa per ultima, e aveva dovuto intimare al vetturino di filare più alla svelta che potesse per permetterle di arrivare alla sala del ricevimento prima degli altri. Il vetturino aveva mostrato idee tutte sue al riguardo, e quindi Marija si era vista costretta a sporgersi fuori dall’abitacolo e urlargli cosa ne pensava sul suo conto, dapprima in lituano – lingua che il poveraccio ignorava del tutto – e poi in polacco. L’uomo a quel punto aveva capito bene il messaggio, ciononostante, potendo contare su una posizione elevata rispetto a Marija, non si era scomposto più di tanto e aveva persino osato risponderle a tono, con il risultato di appiccare una specie di furioso battibecco che si era protratto fino alla fine di Ashland Avenue, mentre la carrozza si tirava dietro uno sciame di monelli sbucati da tutti i vicoli nel raggio di mezzo chilometro.
Quel ritardo, in ogni caso, era abbastanza imbarazzante. All’ingresso della sala si era già ammassata una piccola folla. I musicisti avevano attaccato a suonare da un po’ e, per mezzo isolato, echeggiava il monotono brum brum del violoncello a cui facevano da controcanto due gementi violini che sgomitavano e si accavallavano in complicati e pretenziosi ghirighori sonori.
Nell’avvistare tutta quella gente in attesa, Marija interruppe precipitosamente il dibattito che aveva ormai scomodato persino gli antenati del vetturino, e saltò giù dalla carrozza quando ancora era in movimento, gettandosi tra la folla per raggiungere la sala; una volta all’interno, si voltò e cominciò a spingere nel senso opposto, mentre tuonava «Eik! Eik! Uzdaryk-duris!», con un timbro di voce che in confronto il frastuono dell’orchestra appariva una melodia flautata.
‘‘Z. Graiczunas, Pasilinksminimams darzas. Vinas. Sznapsas. Vini e Liquori. Sede sindacale’’ diceva l’insegna della sala. Il lettore che non ha molta pratica con la lingua della lontana Lituania sarà senz’altro felice di sapere che non si trattava d’altro che d’una saletta sul retro di una taverna ubicata in quella parte di Chicago che è conosciuta come il ‘‘quartiere dei macelli’’. Un’informazione precisa come questa, senza dubbio, corrisponde a pura realtà, anche se sarebbe potuta sembrare penosamente stridente a colui che avesse appreso che si trattava anche della scenografia in cui stavano per svolgersi gli attimi incomparabili della più grande gioia e della massima felicità nella vita di una fra le più dolci creature di Dio: ovvero la celebrazione del ricevimento nuziale e il compimento della più grande realizzazione della piccola Ona Lukoszaite.
La piccola Ona era ferma sulla soglia in quel momento. Sotto lo sguardo amorevole di sua cugina Marija, dopo essere penetrata a fatica tra la folla, cercò di recuperare il fiato persa in una felicità dolorosa da guardare. C’era una luce di stupore nei suoi occhi e le palpebre le tremavano. Il suo viso, che di solito era pallido, appariva di un rosso purpureo. Indossava un niveo vestito di mussola sul quale, dalle spalle, ricadeva un morbido velo. C’erano cinque roselline di carta rosa intrecciata ad adornare quel velo, con undici petali di verde brillante per ciascuna di esse. La ragazza calzava immacolati guanti bianchi di cotone e, mentre se ne stava a fissare davanti a sé, sull’uscio della sala, le sue mani si muovevano in maniera febbrile. Era quasi troppo per lei tutto quello. Le si poteva leggere sul volto tutto il dolore dell’immensa emozione che la pervadeva, altrettanto evidente come il tremito che la scuoteva in tutto il corpo.
Era così giovane! on ancora sedicenne; tanto piccola e fragile per la sua stessa età – praticamente una bambina – eppure s’era appena sposata e lo aveva fatto proprio con Jurgis, fra tutti gli uomini possibili! Jurgis Rudkus, con le sue spalle forti e le mani da gigante, il fiore bianco all’occhiello dell’abito nero mai messo prima.
Mentre Ona aveva occhi azzurri e leali, quelli di Jurgis erano grandi e neri, sormontati da folte sopracciglia. I tanti capelli anch’essi neri, riccioli, gli ricadevano come onde fin sopra le orecchie. Formavano insieme una di quelle coppie di sposi alquanto incongrue e sorprendenti con cui tanto spesso Madre Natura si diletta a confondere i profeti. Jurgis, pur essendo capace di imporsi sulle spalle un quarto di bue di oltre un quintale e caricarlo su un carro senza neppure barcollare, se ne stava seduto in un angolo terrorizzato come una povera bestiola braccata, ed era costretto ad inumidirsi le labbra secche ogni qualvolta doveva rispondere alle parole di augurio e di felicitazioni degli amici.
Nella sala, frattanto, si era andata realizzando una netta separazione tra ospiti e spettatori, o perlomeno una distinzione bastevole a che la festa potesse decollare. Infatti, non ci fu un solo momento per tutta la serata nel quale, fermi sulla soglia o pressati in un angolo, curiosi venuti da fuori non s’affollassero e, appena uno di questi prendeva coraggio e s’avvicinava un po’ di più, o mostrava di gradire qualcosa da mangiare, subito gli veniva allungata una sedia e veniva spinto a partecipare alla festa. Una delle regole della veselja esigeva, d’altro canto, che nessuno se ne tornasse a casa a pancia vuota, e quindi, nonostante non fosse tanto facile nel quartiere dei macelli di Chicago (con il suo quarto di milione di abitanti) rispettare e conservare intatte tutte quelle consuetudini nate nelle foreste della Lituania, i festeggiati fecero del loro meglio affinché tutti coloro che arrivavano dalla strada, compresi perfino i cani, finissero per non rimanere delusi dell’accoglienza che gli veniva riservata.
In più, era un’incantevole informalità che guidava quel genere di celebrazioni. Gli uomini mantenevano il cappello in testa o se lo toglievano solo se ne avevano voglia. Lo stesso valeva per la giacca; si mangiava quando e dove si voleva, ci si muoveva dove e quanto si desiderava. Ci sarebbero stati canti e discorsi ma nessuno sarebbe stato costretto a starli a sentire, e, se a qualcuno veniva l’idea di mettersi a cantare o di tenere un discorso, be’, era libero di farlo.
La gazzarra di suoni che ne scaturiva non infastidiva nessuno, salvo forse i bambini che in gran numero gli invitati s’erano portati appresso al gran completo; il fatto era che non c’era proprio altro luogo dove avrebbero potuto lasciare i più piccoli, e così una gran parte dei preparativi per la serata consisteva nel radunare culle e carrozzine in un angolo della sala e, lì, in gruppi di tre o quattro, far dormire i piccolini che spesso però si svegliavano e urlavano a squarciagola. I più grandicelli, invece, che arrivavano all’altezza dei tavoli, se ne andavano a zonzo con aria soddisfatta, sgranocchiando qualche osso e riempiendosi la bocca di carne e salumi di Bologna.
La sala era grande circa quattro metri. Aveva pareti imbiancate a calce e tutte senza alcuna decorazione, ad eccezione di un calendario, una fotografia di un cavallo da corsa e un albero genealogico dentro una cornice dorata. A destra c’era una porta che collegava la sala al saloon, con un paio di pappamolle che stavano di guardia sulla soglia, e in un angolo, al di là del bancone del bar, una sorta di genio vestito con un camice d’un bianco sporco, baffetti neri impomatati, il ciuffo oliato accuratamente e gettato di lato sulla fronte. All’angolo opposto, due tavoli che occupavano buona parte dello spazio disponibile erano letteralmente ricoperti di vassoi colmi di cibi freddi che già erano stati degustati dagli ospiti più affamati. Alla testa della tavola dove sedeva la sposa c’era una torta bianca come la neve, decorata con una Torre Eiffel costruita con lo zucchero, con in cima due angioletti, delle roselline e una generosa spruzzata di canditi di colore rosa, verde e giallo. Al di là si apriva un’altra porta che s’affacciava sulla cucina, dove, in mezzo al vapore che saliva, si vedevano diverse donne, giovani e anziane, che correvano di qua e di là. Nell’angolo a sinistra stavano i tre musicisti, su una piccola piattaforma, i quali lavoravano eroicamente per fare una qualche impressione al di sopra di tutta quella confusione. Anche i bambini, allo stesso modo, erano occupati a farsi sentire e, in più, c’era una finestra aperta da cui la folla rimasta fuori si godeva la musica, spiava quel che avveniva nella sala e annusava gli odori.
Il vapore cominciò ad avanzare nella sala ed ecco d’un tratto che, scrutando in mezzo ad esso, si intravide la figura di zia Elisabetta, la matrigna di Ona – Teta Elzbieta, come la chiamavano. Teneva sollevato un grande piatto di anatra in umido. Dietro di lei Kotrina si faceva strada pian piano, barcollando sotto un simile fardello. Anche la vecchia nonna Majauszkiene, mezzo minuto più tardi, apparve. Portava una grande ciotola gialla ricolma di patate fumanti, grande quasi quanto lei. A poco a poco quindi la festa prese forma, c’era il prosciutto, un piatto di crauti, del riso bollito, maccheroni, salsicce di Bologna, grandi cumuli di funghi porcini, ciotole di latte e schiumosi boccali di birra. Non lontano si poteva anche ordinare quel che si voleva senza pagare, al bar.
«Eiksz! Graicziau!» urlava Marija Berczynskas, e subito ritornava in cucina perché sulla stufa c’era tanta di quella roba che doveva essere mangiata. Tra risa e schiamazzi, in una confusione indescrivibile piena di allegria, gli ospiti presero posto. I giovani, che per la maggior parte si erano ammassati vicino alla porta, si risolsero una buona volta ad avanzare. I vecchi, intanto, pungolavano e rimproveravano Jurgis a sedersi alla destra della sposa, perché appariva più rigido e imbarazzato che mai. Alla fine il giovane cedette rassegnato. Le due damigelle d’onore, i cui abiti erano adornati da graziose ghirlande di carta, seguirono e, a ruota, vennero tutti gli altri, vecchi e giovani, ragazzi e ragazze. Lo spirito della festa si impadronì finalmente anche del maestoso barista, il quale finì per accettare un piatto di anatra in umido, e persino il grasso poliziotto – il cui compito sarebbe stato, più tardi, di tenere a bada le risse – prese da parte una sedia e l’avvicinò al tavolo. I bambini si misero a gridare e quelli più grandi si sgolarono. Tutti ridevano e cantavano e chiacchieravano in un clamore assordante, al di sopra del quale la cugina Marija impartiva come poteva i suoi ordini ai musicisti. I musicisti... be’... come cominciare a descriverli? Fino a quel momento se n’erano rimasti lì sulla piattaforma suonando in una folle frenesia. Ed è per questo che tutto lo scenario dovrebbe essere letto, o detto, o cantato attraverso la musica. Era la musica a renderlo ciò che era; la musica che trasfigurava il retro di una bettola nel quartiere dei macelli di Chicago in un luogo fatato, una specie di paese delle meraviglie, un po’ come un palazzo paradisiaco.
Il piccolo uomo alla guida di quel trio era un uomo ispirato. Il suo violino era scordato, non c’era colofonia sul suo archetto, eppure, senza dubbio, non esisteva alcun’altro uomo ispirato come lui nelle cui mani le Muse avevano imposto le proprie. Suonava come un posseduto da un demone – da un’orda di demoni! Si potevano udire tutto attorno a lui che saltellavano freneticamente, dettavano il ritmo con i loro zoccoli e rizzavano in capo i capelli del capo orchestra. I suoi occhi fuoriuscivano dalle orbite e lui faticava a tenere il passo. Tamoszius Kuszleika era il suo nome. Aveva imparato a suonare il violino da autodidatta, esercitandosi per tutta la notte dopo aver lavorato tutto il giorno ai ‘‘banchi di macellazione’’. Se ne stava in maniche di camicia, un panciotto decorato con figure color oro sbiadito che riproducevano ferri di cavallo e una camicia rosa, a righe, che sembrava un bastoncino di caramello alla menta. Indossava un paio di pantaloni militari blu chiaro, con una banda gialla che serviva a dargli un certo contegno che ben si addiceva a un direttore d’orchestra. Sebbene fosse alto a malapena un metro e cinquanta, anche così quei pantaloni gli lasciavano scoperte le caviglie. Potevi chiederti dove mai li avesse rimediati quei calzoni, o, meglio, forse ti saresti potuto stupire di simili bazzeccole se l’emozione di trovarti in sua presenza te ne avesse dato il tempo – perché lui era davvero un uomo ispirato. Ogni cellula del suo spirito era ispirata, si potrebbe quasi dire che ogni parte del suo corpo, separatamente, lo era. Batteva il ritmo con i piedi, scuoteva la testa e ondeggiava e oscillava in avanti e indietro. Il suo viso era un po’ rugoso ma irresistibilmente comico. Quando eseguiva un giro di note o un virtuosismo, le sopracciglia gli si aggrottavano e le sue labbra e le sue palpebre si chiudevano al di sopra della cravatta che quasi sembrava volersi ribellare e fuggire via. Ogni tanto si volgeva ai suoi compagni e annuiva, ammiccava, ricamava cenni convulsi e frenetici, e, con ogni centimetro del suo essere, invocava e implorava in nome delle Muse, obbediente al loro richiamo. In tutta verità, gli altri due che lo accompagnavano non erano affatto degni di lui. Il secondo violino – uno slovacco – era un tipo alto, magro, con gli occhiali cerchiati di nero e lo sguardo muto e paziente da mulo affaticato. Be’, si limitava a rispondere alla frusta, ma debolmente. Finiva sempre col cadere nella sua consueta meccanica esecuzione. L’altro musicista, invece, era molto grasso, con un naso rotondo, rosso e sentimentale, e suonava con gli occhi rivolti al cielo e lo sguardo di infinita nostalgia. Stava suonando in quel momento una parte di basso con il suo violoncello, e davvero l’emozione che c’era tutt’intorno a lui nella sala, tra gli ospiti, non lo toccava minimamente, non aveva per lui alcuna importanza perché il suo compito era esclusivamente quello di segare via dallo strumento prolungate lugubri note una dopo l’altra, dalle quattro del pomeriggio fino a quasi la stessa ora del mattino seguente, per un terzo di ciò che percepiva complessivamente di solito, ovvero un dollaro all’ora.
Ma non trascorsero neanche cinque minuti dall’inizio della festa che Tamoszius Kuszleika saltò in piedi, avvinto dall’eccitazione, e nel giro di tre minuti lo si vide aggirarsi tra i tavoli con le narici dilatate, il respiro mozzo, trascinato dai demoni mentre rivolgeva cenni ai due colleghi, faceva segni ipnotici col violino affinché anche la lunga sagoma magra del secondo violino si levasse in piedi e tutti e tre potessero avanzare insieme in mezzo ai commensali seduti a tavola, con Valentinavyczia, la violoncellista, che fra una nota e l’altra boccheggiava sospingendo il suo strumento. Alla fine si ritrovarono in fondo alla tavolata e qui Tamoszius montò su uno sgabello e in tutto il suo splendore si mise a dominare la scena. Alcuni stavano mangiando, alcuni ridevano e parlavano, ma si commetterebbe un grosso errore se si pensasse che ci fosse uno solo di loro che lo ignorasse. Le note di Tamoszius non erano mai complete, il suo violino ronzava in stridii sommessi in basso e squittiva e graffiava lassù in alto, ma erano dettagli a cui nessuno prestava attenzione, così come non si badava alla sporcizia, al rumore e allo squallore tutt’intorno; anche perché, in fondo, era prorio da questo materiale che quegli ospiti dovevano costruire la loro vita ogni giorno, attraverso quegli elementi dovevano dar sfogo alla propria anima. Era anche il loro modo di esprimersi quello: allegro, chiassoso, oppure triste e lamentoso, o passionale e ribelle; quella musica era la loro musica, la musica di casa. La melodia stendeva le sue braccia attorno a loro e tutti insieme non avevano che da arrendersi e abbandonarsi ad essa. Chicago, i suoi saloons, le sue baraccopoli d’un tratto svanivano, sostituiti da prati verdi e fiumi illuminati dal sole, foreste e possenti colline innevate. Essi rivedevano i paesaggi di casa, ritornavano alle scene dell’infanzia; rivivevano i vecchi amori e le amicizie, dentro di essi destavano vecchie gioie e antichi dolori, verso cui sorridere o versar lacrime. Alcuni si abbandonavano a tutto questo e chiudevano gli occhi, altri battevano i pugni sul tavolo. Di tanto in tanto uno saltava su con un grido e chiedeva che venisse eseguita la tale canzone o quell’altra; e così il fuoco negli occhi di Tamoszius si attizzava ancora di più, diventava più luminoso, e lui afferrava il suo violino e urlava ai suoi compagni dando così l’abbrivio a una folle melodia a cui il pubblico rispondeva con cori, grida di uomini e donne che sembravano tutti indemoniati. Qualcuno balzava su all’improvviso e pestava i piedi sul pavimento, levando i bicchieri al cielo e scambiando brindisi con chi gli stava accanto. In breve accadeva che qualcun altro richiedeva una vecchia nenia di nozze, che magari celebrava la bellezza della sposa e le gioie dell’amore, e così nell’emozione di quel capolavoro Tamoszius iniziava a bordeggiare tra i tavoli e a farsi strada verso il centro della sala dove sedeva la sposa. Non vi era che un centimetro tra le sedie accostate degli ospiti, e Tamoszius, che pure era così minuto, non poteva evitare di urtare con il suo archetto chi gli stava attorno ogni volta che raggiungeva una nota bassa, ma neppure quello era importante, neppure di inezie come quelle gli importava, pensando solo e soltanto ad insistere senza sosta e a ordinare ai suoi compagni di seguirlo. Durante quella loro marcia in mezzo ai tavoli, manco a dirlo, i suoni del violoncello finivano per oscurarsi del tutto. Alla fine tutti e tre si ritrovavano alla testa della tavolata e Tamoszius prendeva il suo posto alla destra della sposa e cominciava a riversare la sua anima in delle specie di fusa musicali. La piccola Ona, dal canto suo, era davvero troppo eccitata per mangiare. Di tanto in tanto spiluzzicava un po’ di qualcosa, proprio quando sua cugina Marija le pizzicava il gomito e glielo ricordava, ma, per la maggior parte del tempo, rimaneva seduta a guardare con gli stessi occhi timorosi di meraviglia.
Teta Elzbieta, al contrario, era tutto un frullo d’ali, un c...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Colophon
  3. L’autore
  4. Dedica
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 21
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31