Quando Bernardino salì i nove scalini che portavano all’atrio del seminario maggiore, a Rivoli, aveva, dunque, 16 anni. La valigia di cartone duro, rivestito, era imbottita di indumenti. La mamma l’aveva foderata con una tela su misura, color verde militare, per farla durare più a lungo e perché non si sporcasse. Bisognava fare attenzione a non rovinare quello che si aveva: far studiare un figlio da prete non era uno scherzo, c’erano le rette da pagare... Con quella valigia, ogni mese, la mamma, avrebbe fatto avanti e indietro per prendere i vestiti sporchi e portarne di puliti, come aveva fatto negli anni in cui il «Nini» era stato a Giaveno.
Mamma Margherita aveva un suo particolare gusto estetico, un occhio particolare per il bello: che per lei significava soprattutto, pulizia e ordine. Ogni cosa — lo diceva sempre alle sue figlie — doveva essere fatta bene, al meglio: le scarpe lucide, i vestiti in ordine. Quando lavava i propri figli, la pelle doveva uscire dal bagno bella liscia. E a volte, un eccesso di spazzola, provocava persino qualche sbucciatura! Quanto al marito, se questi usciva di casa, lo guardava prima da cima a fondo.
«Ti sei pettinato?», domandava.
E siccome il marito spesso se ne dimenticava, la donna gli sollevava il cappello e lo pettinava.
Quella sera Margherita stette a lungo in cucina a sistemare le ultime cose per Bernardino che doveva ripartire. Solo quando fu soddisfatta si concesse il riposo della notte. Il «Nini» cominciava il liceo, le nozze con Cristo si avvicinavano.
Dunque, il mattino dopo, Bernardino trovò tutto pronto a puntino. Viaggiò con Stefano e Michele, una replica di quando, insieme, lasciarono per la prima volta Sommariva per recarsi al seminario di Giaveno. Il seminario maggiore di Rivoli, a una decina di chilometri da Torino, con quella posizione elevata, a fianco del castello, diede loro subito un senso di grande solennità. Il paesaggio era stupendo: percorrendo il viale alberato, in salita verso l’ingresso e col pavimento rivestito di cubetti di porfido, Bernardino poté ammirare le montagne della bassa val di Susa e, laggiù, la piana, incisa dalla strada statale.
Il gruppo dei sommarivesi fu accolto dal Rettore, monsignor Pautasso. In quella «gabbia», come i ragazzi definivano scherzosamente il seminario, avrebbero trascorso otto anni, tre per il liceo, uno per la cosiddetta «propedeutica» e altri quattro per gli studi teologici. Solo dopo questa lunga trafila sarebbero stati proposti al sacerdozio, dopo la «tonsura», il suddiaconato e il diaconato transeunte. Stavano entrando nella loro nuova casa, una casa ‘speciale’, con camerate, aule di lezione, la cappella, con quell’elegante atrio a colonne che si apriva verso lo scalone e portava al piano superiore. Lassù c’erano le stanze dei professori e del Rettore. Il palazzo, fatto costruire dalla Curia e utilizzato come seminario sin dal 1949, era destinato a diventare la «fucina» del clero torinese, e ben presto si meritò notorietà tra tutti i seminari maggiori del Nord.
A Rivoli, nella «casa sul monte», in un clima di ricercata conventualità, gli studenti trovarono un ambiente disciplinato, ma con una maggiore libertà rispetto alle condizioni in cui si viveva nel seminario minore. I ritmi erano, come sempre, spartani. La sveglia veniva data alle sei meno un quarto, allo squillo di insistenti campanelli che diffondevano il loro suono in tutto il seminario. Qua e là si accendevano le prime luci e in ciascuna camerata si alzava una voce: «Benedicamus Domino», era l’invito a elevare a Dio il primo pensiero del giorno. «Deo gratias», rispondevano tante bocche dalla lingua ancora impastata.
Già alle sei e dieci i chierici, come venivano chiamati i ragazzi del seminario maggiore, indossata la talare nera, si ritrovavano tutti in chiesa, per la meditazione e per la messa. Molti avvertivano che, un giorno non molto lontano, ci sarebbero stati loro, al posto del sacerdote che officiava, ad offrire l’eucarestia ai fedeli... Poi, dalla cappella i chierici passavano alle classi per un po’ di studio, mentre lo stomaco cominciava a pretendere la colazione. Il resto della mattina trascorreva nelle classi per le lezioni.
La «casa sul monte» era decisamente un’isola separata dal mondo, organizzata come un’esperienza formativa totalizzante in vista di un obiettivo radicale e impegnativo. Tuttavia non c’era da annoiarsi: i ragazzi avevano motivi per divertirsi; era un ambiente reso vivace dalle caratteristiche personali di ognuno.
Bernardino faceva parte del gruppo di coloro ai quali piaceva decisamente la musica classica, in particolare le opere romantiche ed appassionate. Qualcuno, per burla, sostenne che per ascoltare Beethoven, lui ed altri compagni di corso come Carlo, Franco e Gino, avrebbero rinunciato anche al pranzo di Natale! Per essere à la page, tendevano talora a intellettualizzare la loro passione, preferendo magari Wagner a Mozart, o Schönberg a Cajkovskij. Alla fine, si scopriva che apprezzavano anche Verdi, e persino la Traviata. Ma era la Chanconne per violino solo, di Bach, a mandarli in visibilio. Leo, invece, faceva sfoggio delle sue conoscenze di musica leggera «funzionando», a richiesta, come un autentico juke‐box vagante: bastava gettare lì qualche melodia o qualche suggerimento ed ecco scattare la canzoncina. Un’estate, nella casa alpina dei chierici, a Cesana, ai piedi dei «monti della luna», seduto sul muretto, afferrò un comodino da notte e, percuotendolo e tamburellando con palme e dita dedicò una canzoncina di successo a Bernardino che lo ascoltava, da dietro, divertito: «Bernardin, Bernardin...».
Quel «Bernardin» si guadagnò ben presto la palma di cultore d’arte. Era lui, tra i suoi compagni, a coltivare gli interessi in questo campo più di qualsiasi altro: Cézanne, Chagall, Matisse... erano amici suoi! E bazzicava volentieri anche con Giotto, Botticelli e Tiziano!
Una buona parte dei seminaristi eccelleva nel gioco del calcio. Si segnalavano, in particolare, Sandro, Mario, Lello, Franco, Fernando, Domenico e, naturalmente, Bernardino. Per giocare a football — incredibile! — rinunciava anche a suonare.
In seminario si costituì una vera e propria «nazionale» dei chierici e lui era uno dei punti di forza della difesa benché fossero ben note anche sue certe svirgolate di mancino, della serie: calcio da un verso, la palla dall’altra! Il 10 aprile del ’58 la «nazionale» dei chierici sconfisse per 3 a 1 i seminaristi degli ultimi anni di Giaveno. In quella squadra, composta da nove elementi, i chierici schierarono Bernardino come terzino sinistro (ed era il ruolo che prediligeva).
Ma il Rettore, alto, ieratico, sempre ordinatissimo, fu per Bernardino e per i suoi compagni l’incarnazione di una paternità buona. Il seminario maggiore di Rivoli era una sua creatura e come tale lo gestiva. I chierici potevano parlargli quando e come volevano. Trascorreva la gran parte del suo tempo ad ascoltare problemi, dubbi, incertezze. Quando un chierico gli passava accanto lo chiamava vicino a sé e, con un premuroso «come stai?», lo stringeva in un abbraccio affettuoso. Era un vero padre.
Entrare nel suo studio era facilissimo. Quella porta era sempre aperta: la stanza sapeva di ordine, di luogo rassicurante e accogliente dove ognuno poteva confidarsi, ascoltare, sentire giudizi e il piu’ delle volte uscire con il dono di un bel libro.
A voltare decisamente pagina nella storia contemporanea della Chiesa fu il primo dei conclavisti ad entrare in Vaticano, il 25 ottobre di quell’anno, dall’Arco delle Campane: il patriarca di Venezia divenuto papa Giovanni XXIII. Chi era questo Giovanni XXIII che aveva preso il nome dell’antipapa Baldassarre Cossa? Che cosa avrebbe rappresentato per la Chiesa? Una domanda, che si fecero in tanti anche nel seminario maggiore di Rivoli, soprattutto tra quei giovani futuri preti, alcuni dei quali avevano accolto l’elezione di Roncalli con una certa delusione. A settantasette anni aveva tutta l’aria di essere un papa di transizione, e sarebbe stato il pontefice della loro ordinazione sacerdotale! Ci volle il giudizio del docente di dogmatica, don Giovanni Maria Rolando, perito della Santa Sede, e iniziatore del dialogo con i valdesi in Piemonte, a togliere i dubbi a più d’uno: «Credo sia proprio una buona notizia per la Chiesa».