Fede, ermeneutica, parola
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Mentre il primo tomo del volume "Mistero ed ermeneutica" trattava di mito, simbolo e culto, tre forme attraverso le quali l'uomo si apre al mistero della Realtà, il secondo tomo è dedicato alla fede, all'ermeneutica e alla parola come espressione di questa apertura. La prima sezione si articola intorno alla fede, alla sua natura, e cerca di rompere la monopolizzazione della fede ad opera di una certa sua interpretazione ristretta. Solo il carattere simbolico delle parole e il loro uso in senso mitico può vincere la tendenza della nostra ragione ad arrogarsi il monopolio sul significato delle parole. La seconda sezione cerca di applicare l'ermeneutica ad alcuni dei problemi presenti nell'odierno incontro tra religioni e nel confronto tra le varie visioni del mondo. Lo sforzo qui è di integrare le interpretazioni, dettate dalla situazione contemporanea, della cosiddetta teologia fondamentale. Da questa prospettiva ermeneutica viene esaminato un esempio fornito principalmente dalla religione cristiana. L'ultimo capitolo analizza un aspetto importante di ogni religione, che sembra essere stato spesso indebitamente trascurato. La secolarizzazione e la religione trovano certamente un punto di incontro nel sottolineare l'importanza non solo della liberazione, ma della libertà. La terza sezione è composta da quattro testi che affrontano il tema del rapporto tra Uomo, Realtà e Parola, ciascuno da una particolare prospettiva.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800458

Sezione seconda
ERMENEUTICA

Is qui invenerit interpretationem (ἑρμενεία, hermēneia) horum verborum non gustabit mortem.
Colui che scopre l’interpretazione di queste parole non sperimenterà la morte
Evangelium Thomae, 11
1 Cfr.: «Ma chiunque ascolti gli insegnamenti sarà in grado di fermare il flusso della nascita e della morte e non sarà mai separato dalla Grande e Suprema Benedizione». Long-ch’en Rab-jam-pa (1308-1363), Dharma-catur-ratna-mālā, 1.

Capitolo quarto
METATEOLOGIA COME TEOLOGIA FONDAMENTALE
*

ἀλλὰ ὁ λόγος τοῦ Θεοὐ οὐ δώδέται
Sed verbum Dei non est alligatum.
La teo-logia (parola di Dio) non è incatenata.
2 Tm 2,91

1. Una parabola

Un insegnante, nato in Occidente o educato secondo criteri occidentali, era quasi disperato: dopo una spiegazione scientifica accuratamente preparata della malaria, del suo decorso, delle cause, ecc., sembrava che i ragazzi di una scuola elementare ugandese non avessero capito nulla. «Perché un uomo prende la malaria?», chiese timidamente un ragazzo. «Perché una zanzara, portatrice del parassita, lo punge», rispose l’insegnante, che riprese da capo l’intera spiegazione. A questo punto la classe, ancora poco convinta e fermamente decisa a spalleggiare l’intrepido compagno, gridò: «Ma chi ha mandato la zanzara a pungere questo uomo?».
Per quei ragazzi ugandesi il maestro non aveva capito né spiegato niente. A loro non interessavano i fatti, i «come» scientifici o le cause efficienti, ma il mondo vivente (e forse la causa finale), ciò che è importante sul piano esistenziale – perché qui il vero problema (immagina che tu o uno della tua famiglia contragga la malaria) è come mai quel particolare individuo è stato punto da quella particolare zanzara. La teologia fondamentale assomiglia all’insegnante, mentre i due terzi – o forse perfino i tre quarti – della nostra presente generazione sono come gli alunni. Le spiegazioni teoriche sulla malaria o la religione vanno benissimo, ma se non riesco a spiegare perché la zanzara mi ha punto…

2. I due significati della teologia fondamentale

Così com’è comunemente intesa, la teologia fondamentale è una riflessione preteologica o filosofica sulle fondamenta della teologia. Le sue considerazioni sono dirette o a giustificare le asserzioni della dottrina cristiana – disciplina, questa, tradizionalmente chiamata apologetica – o a rintracciare le fonti e i fondamenti della teologia. Nel primo caso, essa vuol essere una giustificazione razionale o per lo meno ragionevole degli elementi elaborati dalla teologia; nel secondo aspira a svelare la base stessa dell’autocomprensione teologica. Mi soffermerò solo sul secondo significato.

3. Premesse e presupposti

Alla base della teologia fondamentale ci sono due gruppi distinti: le premesse e i presupposti. Tra le premesse abbiamo anzitutto il concetto che la teologia ha bisogno di un fondamento che sia in qualche modo esterno a essa e, in secondo luogo, quello che tale base possa essere conosciuta.
Entrambe queste premesse si possono trovare agli inizi stessi della teologia fondamentale; erano presenti anche prima che la disciplina ricevesse il suo nome attuale. Non appena però la disciplina acquistò una certa consistenza, non appena cioè i teologi cristiani avvertirono la necessità di trovare un fondamento alla teologia che fosse esterno alla teologia stessa, essi ammisero in linea di massima l’ipotesi che questo fosse il modo giusto di procedere. Uno degli esempi più eclatanti di questo modo di pensare ci viene dal Concilio Vaticano I, molti pronunciamenti del quale tendono proprio nella direzione di questa teologia fondamentale.
Tipica di questo modo di pensare è una concezione dualistica della realtà: Dio e il mondo, l’increato e il creato, l’Essere e gli esseri, la base e la struttura edificata sopra di essa. In questa costruzione a due piani di natura e soprannatura, la grazia è posta sopra la natura, la fede sulla ragione, la teologia sulla filosofia e avanti di questo passo. Il loro rapporto di dipendenza non è né un’esigenza dal basso né una mancanza di libertà dall’alto. Piuttosto, il secondo livello presuppone il primo e il primo di fatto non è completo senza il secondo. A dire il vero i livelli inferiori sono chiamati preambula, non fundamenta, così da affermare la libertà e la «gratuità» del piano superiore. Ma in fondo è la stessa cosa. Se, per esempio, uno non ammette che ci siano un Dio e un’anima, che senso può avere per lui l’insegnamento cristiano?
Tra i presupposti, uno è quello che queste basi su cui si fonda la teologia siano universalmente valide. Dal momento che esse dovrebbero appartenere a tutti gli esseri umani senza distinzione, se qualcuno non riesce ad afferrarle significa presumibilmente che costui non ha ancora raggiunto il livello di sviluppo mentale che gli consentirebbe di cogliere queste «verità» fondamentali. Di conseguenza si riteneva necessario un certo grado di «civiltà» prima che uno potesse comprendere e quindi accettare il messaggio della Chiesa: metodi come la cosiddetta istruzione precatechetica o évangélisation de base – un certo indottrinamento filosofico sui concetti di «persona», «natura», «sostanza», «individuo», «proprietà privata»; la predicazione della monogamia, o lo sforzo di persuadere la gente a preferire altri modi di mangiare e vestire, ecc. – erano considerati tutti strumenti del kērygma cristiano, precondizioni necessarie alla proclamazione del Vangelo.

4. La crisi dei presupposti

La distinzione tra presupposti e premesse mi sembra di capitale importanza. Una premessa è qualcosa che io posso anteporre per motivi molteplici: tradizionale, euristico, assiomatico, pragmatico, ipotetico e via dicendo. È un principio che io pongo alla base del mio processo raziocinante in modo più o meno esplicito. Un presupposto, invece, è qualcosa che io dò per scontato in modo acritico e irriflessivo. Fa parte del mito in cui vivo e da cui traggo la materia prima per alimentare il mio pensiero. Nel momento in cui si scopre che un certo presupposto sta alla base del pensiero o è il punto di partenza di un processo intellettuale, esso cessa di essere un pre-supposto. Ora solo un’altra persona – o io stesso in un secondo momento riflessivo – può rendermi consapevole dei miei presupposti; quando ciò accade non posso più mantenerli come facevo prima. O li abbandono, o li tengo come «supposizioni», premesse. Ecco anche perché nel momento in cui la teologia diviene consapevole dei suoi presupposti – o per critiche dall’esterno o per una visione critica dall’interno – i teologi incominciano a mettere in discussione la base fin qui indiscussa della loro scienza. La crisi che così si produce è il destino attraverso il quale deve passare ogni coscienza viva per poter crescere.
Sia la teologia che la teologia fondamentale, dunque, erano a proprio agio in una particolare cultura e visione del mondo; esse davano per scontati i presupposti del mondo occidentale. Le due scienze si fondavano sullo stesso mito e condividevano molti presupposti, alcuni dei quali sono stati svelati di recente e provocano ora confusione teologica in un’epoca di incontro tra le religioni.
A dire il vero questi presupposti venuti alla luce sono stati perfino contestati come premesse. La generazione attuale trova insufficiente lo schema tradizionale. In effetti, la base su cui si fonda la teologia è divenuta più problematica dello stesso contenuto cristiano.

5. La sfida dell’universalità

Oggi la vera sfida nei confronti della fede cristiana viene dall’interno, ossia da una dinamica interna verso l’universalità, dalla sua stessa rivendicazione alla «cattolicità». E ora che l’orizzonte dell’universalità ha varcato i confini della civiltà occidentale e delle sue colonie, quello che un tempo era considerato «cattolico» diventa «provinciale». Oggi ogni messaggio diretto a tutta l’umanità che scambi una parte per l’intero o ignori la varietà dei popoli, delle culture e delle religioni è destinato a essere visto con sospetto fin dall’inizio. La fede cristiana deve accettare questa sfida o dichiarare la sua fedeltà a una singola cultura e rinunciare quindi alla sua pretesa di possedere un messaggio universalmente accettabile.
Questo problema con cui è alle prese la teologia fondamentale non può essere risolto semplicemente estrapolando, senza aver prima giustificato, una serie di proposizioni che possono essere significative entro un certo contesto religioso o culturale, ma che sono irrilevanti, prive di significato o addirittura inaccettabili al di fuori di esso. Se la teologia fondamentale vuole avere una certa rilevanza nel nostro tempo improntato alla comunicazione universale, deve rivolgersi a una problematica radicalmente interculturale. Deve sforzarsi di formulare proposizioni che siano intelligibili a coloro che sono estranei alla cultura occidentale (come pure per coloro che in Occidente non pensano, immaginano o agiscono più secondo gli schemi che ancora guidano la teologia fondamentale tradizionale). Un semplice sguardo alla storia ci convincerà che le differenze tra le culture non sono minori. Un principio che consideriamo incontrovertibile può far sorgere dubbi in un’altra cultura. Oggi non si ha diritto di supporre che tutti pensino e sentano allo stesso modo solo perché esternamente hanno comportamenti simili. L’incontro dei popoli, delle culture e delle religioni è un problema assai importante per la teologia fondamentale, una sfida al suo stesso fondamento antropologico e filosofico. A questo riguardo vorrei fare alcune considerazioni di ordine generale.

6. Fondamenti, a priori e a posteriori

La necessità fondamentale che la teologia cristiana acquisti basi più universali non può essere ignorata o liquidata supponendo che l’«altro» prima o poi comprenda o si converta al «nostro» punto di vista. Quei giorni sono finiti. Il problema è quello di ricercare dei fondamenti per la teologia cristiana che almeno abbiano senso per coloro che non rientrano nell’ambito tradizionale della teologia fondamentale.
Il solo metodo possibile per trovare i fondamenti della teologia dev’essere a posteriori. Mi spiego. La teologia fondamentale non si colloca agli inizi della riflessione teologica, ma alla fine. La fede cristiana non si basa su certi principi che la teologia fondamentale svela (dischiude). Lo sforzo di comprendere il fatto cristiano ci porta piuttosto a scoprire alcune condizioni della sua intelligibilità in determinate circostanze. Ricordiamo qui che il significato primordiale di «cattolicità» non è l’universalità geografica, ma la compiutezza interna.
Anche qui la storia è una buona maestra. Molte delle idee che fino a non molto tempo fa erano considerate essenziali per la teologia cristiana oggi sono state scartate come accidentali o non essenziali, perché altre interpretazioni – forse più plausibili – sono emerse. Queste interpretazioni aspirano a preservare il messaggio reale proprio purificandolo da visioni del mondo obsolete.
La vera difficoltà sta nel trovare il criterio per tale operazione. Come faccio a sapere se qualcosa è essenziale alla mia fede o no? Dove andrà a finire il processo una volta che inizio a demitizzare?

7. L’unità fra teologia e teologia fondamentale

La tesi che intendo proporre cerca di ristabilire l’armonia fra la teologia e la teologia fondamentale. Essa sostiene che la teologia fondamentale non è né una condizione epistemologica necessaria né la base ontologica della teologia. Se la teologia per essere accettabile dovesse dipendere da una base extrateologica, perderebbe non solo il suo carattere sapienziale ma anche la sua forza di persuasione intellettuale. La teologia sarebbe completamente alla mercè di qualunque filosofia in grado di offrire il miglior supporto; dipenderebbe interamente da una vendita all’asta sul mercato filosofico (o addirittura pubblico).
Ciò che propongo è il recupero della teologia fondamentale come sforzo eminentemente teologico, ossia nel suo essere fondamentalmente una teologia. Il reinserimento della teologia fondamentale nella teologia così che formino un tutto armonico farà esplodere mediante questo stesso processo la gabbia fin troppo stretta in cui la teologia è stata talvolta confinata. Libererà la teologia dalla tutela della filosofia, così che la teologia non dipenderà più da un solo fondamento (un’unica filosofia, un’unica visione del mondo o altro) esterno a sé.
Di conseguenza, la teologia fondamentale sarebbe quell’attività teologica (per cui tanto spesso non c’è spazio in certe teologie) che esamina criticamente le sue premesse ed è sempre pronta a mettere in discussione i suoi presupposti. Ma lo fa non da una tribuna separata e indipendente dalla fede, sulla quale la «teologia» dovrà in seguito costruire il «proprio» sistema. La teologia fondamentale è piuttosto lo sforzo di comprendere la situazione teologica attuale in ogni determinato contesto. Esiste in realtà una differenza tra il contenuto della fede cristiana e le condizioni della sua intelligibilità; ma non c’è una separazione, poiché il contenuto della fede non è altro che una concretizzazione intelligibile della fede stessa. Contenuto significa contenuto intelligibile, e non può essere intelligibile se si fonda su premesse che non siano chiaramente comprese.
Sto dicendo che le condizioni antropologiche necessarie per capire e accettare il messaggio cristiano non possono e quindi non devono essere scisse dall’interpretazione del suo contenuto. Vorrei sviluppare questo punto servendomi di un esempio.

8. Un esempio: il buddhista, l’hindū e il laico

L’esistenza di Dio è stata tradizionalmente considerata una verità filosofica indipendente da ogni teologia; perciò è stata ritenuta uno dei fondamenti della dottrina cristiana. La resurrezione di Cristo, d’altro canto, è di ordine puramente teologico. Di solito si dice che se uno non accetta l’esistenza di Dio non può capire di che cosa tratti la fede cristiana; si afferma anche comunemente che se uno non accetta la resurrezione di Cristo non può essere chiamato cristiano. La differenza tra queste affermazioni è che, mentre non è necessaria una fede sp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Abbreviazioni
  6. Introduzione
  7. Sezione prima: FEDE
  8. Sezione seconda: ERMENEUTICA
  9. Sezione terza: PAROLA
  10. Glossario
  11. Indice dei testi originali del presente volume