Non tacciano le donne in assemblea
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Non tacciano le donne in assemblea

Agire da protagoniste nella Chiesa

  1. 80 pagine
  2. Italian
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Non tacciano le donne in assemblea

Agire da protagoniste nella Chiesa

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Informazioni sul libro

Esiste un percorso possibile per ogni donna cattolica, a partire dal giorno in cui si accorge di aver dato per scontato che quelle come lei sono sempre periferiche nella Chiesa, idealizzate e messe su un piedistallo, ma tenute lontane dagli altari e fuori dai processi decisionali?
Attraverso un racconto che è personale e collettivo, perché in dialogo con tante altre donne, l'autrice di queste pagine ha provato a rileggere la propria esperienza ecclesiale: le sofferenze e le frustrazioni, ma anche le sfide. E l'attuale impegno, insieme a tante donne di tutti i continenti, per promuovere la piena dignità e parità del genere femminile nella Chiesa cattolica, dalla fondazione dell'associazione Donne per la Chiesa alla costituzione della rete globale Catholic women's council.

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Informazioni

1
Storia di una vocazione...
piuttosto complicata!

Crescere in parrocchia, tra campi estivi e veglie di preghiera, è una immensa fortuna. È meraviglioso affacciarsi al mondo sapendo di poter contare su un contesto pulito, bello, denso di valori positivi. Le relazioni che si allacciano nei gruppi giovanili sono forse uniche al mondo, perché basate sulla condivisione di qualcosa di più di una passione sportiva o musicale, ma dell’esperienza di un incontro personale con la Parola di Dio.
So di essere una persona fortunata: ho avuto l’opportunità di crescere in una famiglia di credenti, molto presto negli scout, poi in un gruppo parrocchiale e, dai diciassette anni in avanti, anche nelle CVX (Comunità di Vita Cristiana, gruppi laici di spiritualità ignaziana).
Ho sempre avuto animatori e animatrici, giovani poco più grandi di me, in grado di mediare i messaggi e accompagnarci nel cammino con amicizia e saggezza, ma non mi è mai capitato di avere una suora come assistente spirituale. So che ad altri accade, a me non è successo e — forse anche per questo — ho maturato l’idea che fosse assolutamente normale avere come unico punto di riferimento spirituale un uomo, il prete. Inoltre fino almeno ai 18/20 anni non mi era chiara la distinzione tra accompagnamento spirituale e sacramento della confessione e quindi ero naturalmente portata a sovrapporre le due cose, restringendo ancor di più la mia possibilità di considerare le donne mediatrici del messaggio del Signore o maestre di preghiera.
Non ho mai idealizzato particolarmente la figura del prete, ma l’ho sempre visto come il punto di riferimento che mi era dato e del quale ero grata, questo almeno fino a verso la fine dell’università, quando mi si è presentata davanti una situazione per certi versi peculiare, ma forse indicativa.
Da qualche anno uscivo con un ragazzo con il quale condividevo il percorso CVX e l’impegno in un centro universitario dei gesuiti, eravamo entrambi molto legati alla spiritualità ignaziana e in ricerca della nostra strada. A un certo punto, durante l’estate, lui ha partecipato a un campo‐scuola vocazionale dei gesuiti riservato ai maschi ed è tornato dicendomi che aveva deciso di chiedere l’ammissione in Compagnia. Non è stato facile per me, ero giovane, ero innamorata, soffrivo e volevo capire. Per farlo la mia prima reazione è stata andare a cercare i gesuiti, che sentivo come padri, perché mi aiutassero a elaborare quel che stavo vivendo, ma ho trovato davanti a me un muro. All’improvviso la loro priorità era che io non mi «mettessi in mezzo» in una fase tanto delicata per quel ragazzo. Così, tra un invito a mettermi il cuore in pace e un rifiuto a «ricevermi», ho sperimentato per la prima volta in vita mia cosa significa essere considerata di serie B: favorire il suo passaggio a quella vita era più importante, per i nostri comuni accompagnatori spirituali, che sostenere me in quel momento doloroso e disorientante.
Lui era più importante di me ai loro occhi e — in quel momento per un attimo temetti — forse anche per Dio.
Fu un momento di grande crisi e, forse per la prima volta in vita mia, di scoperta della figura di Maria che sentivo vicina e alleata, proprio quando Gesù mi appariva lontano, ostaggio di altri, ostaggio dei maschi. Non ho avuto la forza, allora, di scendere in profondità, arrivando a comprendere che non si trattava solo di una mia esperienza, ma di una condizione comune a tutte le mie sorelle donne, l’ho vissuta nella solitudine, con l’unica urgenza di riuscire a ricostruire il rapporto con il Signore, che era sempre stato l’Amico del mio cuore.
Dopo un paio di anni, ormai «guarita» e riconciliata, ho iniziato a chiedermi cosa fare della mia vita, era l’anno del grande Giubileo e ancora una volta l’impegno con la rete giovanile dei gesuiti mi aveva coinvolta: dovevo accompagnare un gruppo di giovani provenienti da vari paesi in un pellegrinaggio a piedi in Umbria, che ci avrebbe poi fatti convergere tutti a Roma per la GMG con Papa Giovanni Paolo II. Quell’esperienza, unita a un percorso che aveva al suo centro gli Esercizi spirituali ignaziani, mi ha portata a decidermi per la vita religiosa, mi sembrava la cosa più giusta, l’esatto, preciso compimento di quello che ero e del cammino che avevo compiuto.
Come se con quella tessera tutto il mosaico si componesse.
Avrei scoperto solo diversi anni più tardi che la vita non è un mosaico, bellissimo ma statico, bensì una tela caotica nella quale rinvenire pian piano dei disegni da cui generarne altri, abbandonandone alcuni e dando vita a percorsi inediti.
A ventiquattro anni non la vedevo così e la scelta della vita religiosa mi pareva perfetta per me, con un solo problema: frequentavo ormai da quasi dieci anni solo i gesuiti, che non hanno un corrispettivo femminile. Se fossi stata un maschio la scelta sarebbe stata semplice, conoscevo la Compagnia e la amavo, avendo superato anche la brutta esperienza vissuta, ma niente, il mio sesso mi impediva l’accesso. Ancora una volta eccomi sbattuta in faccia la mia esclusione.
Con l’aiuto del padre che mi accompagnava ho iniziato a cercare un Istituto femminile di vita religiosa di spiritualità ignaziana, ben sapendo che si trattava (per me) di un ripiego. L’ho trovato nelle Suore Ausiliatrici delle anime del purgatorio, un istituto religioso nato in Francia, con grande attenzione al sociale, di suore che avevano smesso l’abito religioso dopo il Concilio e che vivevano (vivono) in piccole comunità all’interno di appartamenti nei quartieri periferici delle città.
Gli anni della vita religiosa sono stati impegnativi, faticosi, ma anche belli.
Ricordo che quando ho iniziato a frequentare una scuola intercongregazionale per novizie, alla prima lezione il sacerdote che doveva introdurci alla teologia fondamentale ci salutò con un «buongiorno sorelline» e iniziò a parlare come se avesse a che fare con un gruppo di bambini in età pre‐scolare. Peccato che fossimo tutte oltre i venticinque anni, in gran parte laureate e con precedenti esperienze di lavoro. L’avrebbe certo saputo se ci avesse chiesto di presentarci, ma d’altronde eravamo solo «suorine», cosa potevamo mai aver fatto di interessante nella vita?
Negli anni successivi ho sperimentato sulla mia pelle il senso di superiorità dei seminaristi che incontravo, di gran parte dei preti con cui collaboravo, ma anche il disagio che provavano nel vedere che io non ero impressionata dalla loro condizione o dai loro studi teologici.
Non mi sono mai pensata inferiore, anche se hanno cercato in molti di farmelo credere, ma questo non è bastato a farmi restare in quello stato di vita.
Quando sono entrata nella vita religiosa la immaginavo come la via che mi avrebbe permesso di vivere un rapporto più immediato con Cristo, al contrario della vita matrimoniale che lo vuole mediato dall’altro, dallo sposo; ero un po’ ebbra di quell’immaginario della suora sposa di Cristo che tanto male ha fatto... Ma poi, appena iniziato il percorso di prima formazione, ho scoperto la mediazione della congregazione, dell’istituzione totale che è una congregazione, una mediazione ingombrante e in certi modi — per me — anche ostruttiva. Ho imparato tanto e sono cresciuta in molti sensi, ma ho anche sofferto, soprattutto il Noviziato. Poi, una volta fatti i primi voti, sono stata inviata a Matera.
A Matera ho lavorato per due anni in Caritas e in una parrocchia, con un inserimento gioioso a tutti i livelli (apostolico, comunitario, di rapporto col contesto), ma che non mi ha permesso di superare un costante senso di malessere che si manifestava nella notte e nella solitudine... un sentirmi senza speranza, schiacciata, compressa, che diventava lacrime serali, costanti e solitarie. Ho iniziato a provare rabbia verso Dio: era dunque un’istituzione quella che mi aveva promesso? Non era piuttosto un rapporto? E perché tra i due sentivo contrapposizione?
Quando mi sono «data il permesso» di lasciar emergere fatiche e dubbi ho constatato immediatamente di poter vivere nuovamente un rapporto vero, una preghiera più incarnata. Senza che quasi me ne rendessi conto è avvenuto il passaggio da questo al mettere in dubbio concretamente la scelta della vita religiosa.
Si è aperta una falla nella mia sicurezza, sulla quale si sono innestate diverse letture, che mi hanno consentito di dare un nome alle paure e alle errate rappresentazioni che mi ero fatta della vita religiosa quando l’avevo scelta. Durante alcuni mesi dilanianti, ho scoperto che donna volevo essere, che individuo volevo essere e questo è andato a confliggere inevitabilmente con il modo in cui la vita religiosa femminile è tutt’ora, anche nelle congregazioni più aperte, concepita. La spinta ad omologare che avviene nella formazione, la tendenza a schiacciare gli affetti personali, per alimentare un distacco in realtà impossibile e inumano, mi stavano spegnendo e ho dovuto così rinunciare alle tante belle opportunità di amore e di servizio che — comunque — quel tipo di vita può o almeno dovrebbe offrire. Non provo risentimento di alcun tipo, soprattutto data la felicità della mia attuale condizione di moglie e mamma, solo la convinzione profonda che se fossi stata un uomo e avessi quindi sperimentato la vita in un ordine maschile, alcuni o forse anche molti di questi ostacoli non ci sarebbero stati e questo l’ho potuto constatare anche nel confronto con amici e coetanei che hanno fatto quel tipo di scelta.
La scelta di lasciare uno stile di vita in fondo anche protetto, codificato, riconoscibile, mi ha riportata nel «paese del compromesso», con le sue straordinarie opportunità e altrettanti rischi e ho avuto tanta paura inizialmente. Come un piccolo salmone mi pareva di dover nuotare controcorrente con una forza che temevo di non avere, infatti non credo di aver mai sperimentato la grazia di Dio come in quei mesi. Non avevo nulla ad attendermi fuori, né un lavoro, né un amore, nulla se non una promessa di vita, ma era più che sufficiente.
Essere fedele a me stessa e ai doni che avevo ricevuto mi pareva l’unica obbedienza davvero imprescindibile e per questo l’ho seguita, chiedendo lo scioglimento dai voti che avevo pronunciato due anni prima.
Ho avuto la fortuna di essere entrata nella vita religiosa già laureata e di una famiglia che mi ha riaccolta, così ho potuto (faticosamente) ricominciare a lavorare, anche mettendo a frutto le esperienze professionali fatte in quegli anni. Mi è andata molto meglio che ad altre, per le quali l’uscita dalle congregazioni è una salita senza appigli e alcune le ho conosciute. Ho conosciuto giovani suore indiane che avrebbero voluto poter lasciare il convento, nel quale vivevano come cameriere delle consorelle europee, ma non ne avevano la possibilità perché senza alcun titolo di studio e opportunità lavorativa. Ho conosciuto ex religiose che hanno dovuto, per il primo periodo, nascondersi per evitare le ritorsioni della loro scelta e recentemente ho conosciuto anche ex suore abusate psicologicamente e sessualmente dai loro confessori.
Le vite e le voci di tutte queste sorelle risuonano continuamente nel mio cuore.
Quando ho lasciato la mia congregazione, per un po’ di tempo ho sperato e provato a dare dei rimandi su ciò che ritenevo sbagliato, in particolare del percorso di formazione, mi sono anche illusa di poter essere coinvolta in un processo di autoriflessione dell’Istituto, invece la mia uscita è stata considerata un fatto puramente mio, privato. Ero io ad aver «sbagliato strada» e la congregazione non aveva nulla su cui interrogarsi. Ma non era così, non era così per me e non lo era molte volte per tante altre.
Ogni volta che una suora lascia il convento senza che questo inneschi un processo riflessivo — ne sono convinta — è un’occasione mancata per la vita e il futuro di quella congregazione, perché il suo sguardo interno/esterno è unico. Ridurre tutto alla responsabilità dell’individuo è un comodo espediente per evitare di cambiare qualcosa.
Quando ho lasciato la congregazione e sono tornata a casa ero convinta che l’esperienza di «minorità» dovuta al fatto di essere donna fosse finita, sepolta nella dinamica ecclesiale, invece l’ho sperimentata anche sul lavoro (per caso, o forse no, svolto in una realtà sociale d’ispirazione cristiana) e nelle varie fasi della mia vita: quando mi sono fidanzata e ho fatto il corso di preparazione al matrimonio, quando mi sono sposata e ho frequentato delle associazioni cattoliche che fanno formazione alle coppie, quando ho avuto la bambina e sono stata coinvolta in gruppi di mamme.
Non solo come donna valevo meno, ma dovevo anche subire l’imposizione di un modello di brava moglie e mamma cristiana, ora che mi ci trovavo dentro.
Era insopportabile. Così — come ho sempre tentato di fare — ho cercato la mia strada alternativa e mi sono rimessa a studiare il femminismo che avevo amato in adolescenza e gioventù e a riflettere su come tenerlo insieme alla mia fede. Inizialmente mi sentivo molto sola, poi ho trovato tante altre che condividevano la mia fatica e gli studi delle teologhe. Qui è iniziata la mia avventura.

2
Modelli di donna, realtà di donne

A far scattare in me il desiderio di dire qualcosa fu un post su Facebook all’interno di un gruppo formato da donne credenti, anzi da mogli e madri cattoliche, che frequentavo nelle primissime fasi della mia esperienza di madre, uno di quei periodi nei quali l’insicurezza è massima e si cercano sostegni un po’ ovunque.
Una giovane moglie e mamma stava raccontando con angoscia di essersi trovata in una situazione difficile con il marito che era uscito con gli amici lasciandola a casa con il bimbo piccolo malato ed era rincasato tardissimo senza mai rispondere alle sue telefonate.
Una situazione tutt’altro che drammatica, ma che comunque a me ha fatto immediatamente ribollire il sangue, identificandomi nella sua ansia per il piccolo e nel suo bisogno di essere sostenuta dal marito. Mentr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Menù
  3. Non tacciano le donne in assemblea
  4. Introduzione
  5. 1 – Storia di una vocazione... piuttosto complicata!
  6. 2 – Modelli di donna, realtà di donne
  7. 3 – Le donne sono un’urgenza? Uno sguardo sociologico
  8. 4 – Il rapporto con i preti
  9. 5 – La vocazione delle donne
  10. 6 – La rimozione del corpo femminile: desiderio sessuale, parto e allattamento
  11. 7 – Ciò di cui fatichiamo a parlare: lo stupro coniugale, l’aborto, l’abuso
  12. 8 – L’autorità negata
  13. 9 – L’azione delle donne, oggi, in Italia e nel mondo
  14. 10 – Cosa ci lascia questa pandemia?
  15. 11 – Dichiarazioni dell’associazione Donne per la Chiesa
  16. Bibliografia
  17. Condividi
  18. Informazioni sull’autrice
  19. Indice
  20. Colophon
  21. Informazioni Effatà Editrice