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La prima versione di Chora apparve in Francia nel 1987, seguita nel '93 da una seconda che comprendeva anche altri due saggi. In un foglio volante Derrida scriveva che «si è giudicato opportuno pubblicare simultaneamente Passions, Sauf le nom e Chora perché li attraversa il filo di una identica tematica». «Essi formano - continuava - una sorta di Saggio sul nome, in tre capitoli o tre tempi. Anche in tre fiction. Sulla scia dei segni che in silenzio i personaggi di tali fiction si indirizzano l'un l'altro, si può sentir risuonare la questione del nome, là dove essa esita sul bordo di un appello, di una domanda o di una promessa, prima o dopo di una risposta». Il nome: che cosa si chiama così? Che cosa si comprende sotto il nome del nome? E che cosa succede quando si dà il nome? Tale questione si articola con le questioni del segreto, del conferimento del senso e dell'eredità.
Jaca Book pubblica singolarmente i tre volumi di questa Trilogia, momento centrale del pensiero derridiano, corredandoli del testo originale a fronte e di una Prefazione all'intera tematica.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816801028

CHŌRA

Il mito mette dunque in gioco un tipo di logica che si può chiamare, per contrasto con la logica di non contraddizione dei filosofi, una logica dell’ambiguo, dell’equivoco, della polarità. Come formulare o formalizzare queste operazioni di senso alterno che rovesciano un termine nel suo contrario pur tenendoli per altri aspetti a distanza? Tocca al mitologo prendere atto, in conclusione, di questa carenza, rivolgendosi ai linguisti, ai logici, ai matematici perché gli forniscano lo strumento che gli manca: il modello strutturale di una logica che non sia quella binaria del sì o no, di una logica diversa dalla logica del logos.
J.-P. Vernant, Ragioni del mito,
in Mito e società nell’antica Grecia,
tr. it. di P. Pasquinio e L. Berrini Pajetta,
Einaudi, Torino 1981, p. 250.
Chōra ci giunge, come il nome. Quando un nome viene, esso dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro come tale, di cui annuncia per l’appunto l’irruzione. Tale annuncio non promette ancora, e per di più non minaccia. Esso non promette, né minaccia alcuno. Resta ancora straniero alla persona, nominando soltanto l’imminenza e ancora un’imminenza straniera al mito, al tempo e alla storia di tutte le promesse e minacce possibili.
Si sa bene: quanto Platone designa sotto il nome di chōra sembra sfidare, nel Timeo, questa «logica di non contraddizione dei filosofi» di cui parla Vernant, questa logica «che non [è]1 quella binaria del sì o no». Essa2 dipenderebbe forse da questa «logica diversa dalla logica del logos». La chōra-non è né «sensibile» né «intelligibile», ma appartiene a un «terzo genere» (triton ghenos, 48e, 52a). Non si può neppure dire di essa che non è questo quello o che è parimenti al tempo stesso questo e quello. Non è sufficiente ricordare che essa non nomina né questo, né quello o che dice questo e quello. L’imbarazzo dichiarato da Timeo si manifesta diversamente. Talora la chōra sembra non essere né questo né quello; talora al tempo stesso questo e quello. Ma questa alternativa fra la logica dell’esclusione e quella della partecipazione, su cui ritorneremo a lungo, dipende forse da un’apparenza provvisoria e dalle costrizioni della retorica, persino da qualche inattitudine a nominare. La chōra sembra straniera all’ordine del «paradigma», questo modello intelligibile e immutabile. E tuttavia, «invisibile» e senza forma sensibile, essa «partecipa» all’intelligibile in modo molto imbarazzante, in verità aporetico (aporōtata, 51b). Per lo meno non mentiremo, aggiunge Timeo, per lo meno non diremo il falso (ou pseusometha) nel dichiarare ciò. La prudenza di tale formula negativa dà a riflettere. Non mentire, non dire il falso, è necessariamente dire il vero? E che ne è a questo riguardo della testimonianza?
Ricordiamo ancora questo, a titolo di approccio preliminare: il discorso sulla chōra, come esso si presenta, non procede dal logos naturale o legittimo, ma piuttosto da un ragionamento ibrido, bastardo (logismō nothō), anzi corrotto. Si annuncia «come in un sogno» (52b)3, che può tanto privarlo di lucidità che conferirgli un potere di divinazione.
Tale discorso dipende per questo dal mito? Accederà al pensiero della chōra affidandosi ancora all’alternativa logos/mythos? E se questo pensiero reclamasse anche un terzo genere di discorso? E se, forse come nel caso della chōra, quest’appello al terzo genere non fosse che il tempo di una svolta per fare segno verso un genere al di là del genere? Al di là delle categorie, soprattutto delle opposizioni categoriali, che permettono in primo luogo di avvicinarlo o dirlo?
In segno di gratitudine e d’ammirazione, ecco dunque l’omaggio di una questione a Jean-Pierre Vernant. Essa si indirizza a colui che tanto ci ha fatto apprendere e tanto ci ha dato a pensare intorno all’opposizione mythos/logos, certo, ma anche intorno all’incessante inversione dei poli, all’autore di Ragioni del mito4 e di Ambiguità e rovesciamento5, come pensare ciò che, eccedendo la regolarità del logos, la sua legge, la sua naturale o legittima genealogia, non appartiene pertanto, stricto sensu, al mythos? Al di là dell’opposizione bloccata o giunta in ritardo del logos e del mythos, come pensare la necessità di ciò che, dando luogo a questa opposizione come a tante altre, sembra talvolta non più sottomettersi alla legge di ciò che essa situa? Che ne è di questo luogo? E nominabile? Non avrebbe qualche rapporto impossibile circa la possibilità di nominare? C’è qualche cosa da pensare, come affermavamo così rapidamente, da pensare secondo necessità?
I
L’oscillazione di cui abbiamo appena parlato non è un’oscillazione fra le altre, un’oscillazione tra due poli. Essa oscilla tra due generi d’oscillazione: la doppia esclusione (né/né) e la partecipazione (in una volta e questo e quello). Ma, abbiamo il diritto di trasportare la logica, la paralogica o la metalogica di questa sovraoscillazione da un insieme all’altro? Essa concerneva prima i generi d’essente (sensibile/intelligibile, visibile/invisibile, forma/senza forma, icona o mimema/paradigma), ma noi l’abbiamo spostata verso i generi di discorso (mythos/logos) o di rapporto a ciò che è o non è in generale. Senz’altro, un tale spostamento non va da sé. Dipende da una sorta di metonimia: questa si sposterebbe, spostando i nomi, dai generi d’essere ai generi di discorso. Ma, per un verso, è sempre difficile, in particolare in Platone, separare le due problematiche: la qualità del discorso dipende prima di tutto dalla qualità dell’essere di cui esso parla. Un po’ come se un nome non dovesse darsi se non a (questo) chi sulle prime lo merita e lo invoca. Il discorso, come il rapporto a ciò che è in generale, si trova qualificato o squalificato da ciò a cui si rapporta. D’altra parte, la metonimia s’autorizza in virtù di un passaggio attraverso il genere, da un genere all’altro, dalla questione dei generi d’essere alla questione dei generi di discorso. Ora il discorso sulla chōra è anche un discorso sul genere (ghenos) e sui differenti generi di genere. Ci occuperemo più tardi del genere come gens o popolo (ghenos, ethnos) il tema del quale appare all’inizio del Timeo. Nello stretto contesto che ci limita sull’istante, quello della sequenza sulla chōra, incontriamo ancora due generi di genere. La chōra è un triton ghenos riguardo ai due generi d’essere (immutabile e intelligibile/corruttibile, in divenire e sensibile), ma essa sembra così determinata riguardo al genere sessuale: Timeo parla a tale riguardo di «madre» e «nutrice». Lo fa a partire da un modo che non ci affretteremo a nominare. Quasi tutti gli interpreti del Timeo attingono in quel punto alle risorse della retorica senza mai interrogarsi riguardo al loro soggetto. Essi parlano tranquillamente di metafore, d’immagini, di comparazioni6. Non pongono alcuna questione su questa tradizione della retorica, che mette a loro disposizione una riserva di concetti molto utili, sebbene costruiti tutti su questa distinzione tra il sensibile e l’intelligibile cui precisamente il pensiero della chōra non può più accordarsi – Platone lascia intendere senza ambiguità ch’essa7 ha la massima difficoltà ad adattarsi. Questo problema della retorica – singolarmente della possibilità di nominare – non è qui, lo si vede, un problema accessorio. Per di più, la sua importanza non si limita a qualche dimensione pedagogica (coloro che parlano di metafora riguardo alla chōra precisano sovente: metafora didattica), illustrativa o strumentale. Per il momento ci accontenteremo di segnalarla e situarla, ma è già chiaro che, proprio come la chōra e proprio anche necessariamente, essa non si lascia facilmente situare, assegnare a una residenza: essa è più situante che situata, opposizione che a sua volta bisognerà sottrarre a qualsiasi alternativa grammaticale o ontologica dell’attivo e del passivo. Non parleremo di metafora, ma non per intendere, per esempio, che la chōra è propriamente una madre, una nutrice, un ricettacolo, un porta-impronta oppure oro. È forse perché essa conduce al di là o al di qua della polarità senso metaforico/senso proprio che il pensiero della chōra eccede la polarità, senza dubbio analoga, del mythos e del logos. Tale sarebbe almeno la questione che noi vorremmo mettere qui alla prova di una lettura. La conseguenza considerata sarebbe la seguente: con queste due polarità, il pensiero della chōra renderebbe problematico l’ordine stesso della polarità, della polarità in generale, che sia o meno dialettica. Dando luogo alle opposizioni, non si sottometterebbe essa stessa ad alcun rovesciamento. Ciò, altra conseguenza, non perché sarebbe inalterabilmente essa stessa al di là del suo nome, ma perché, portando al di là della polarità del senso (metaforico o proprio), essa non apparterrebbe più all’orizzonte del senso, né del senso come senso dell’essere.
Dopo queste precauzioni e queste ipotesi negative, si comprenderà che noi lasciamo il nome di chōra al riparo da qualsiasi traduzione. Una traduzione sembra certamente sempre all’opera, e nella lingua greca e dalla lingua greca alla tal’altra. Non consideriamone sicura alcuna. Pensare e tradurre attraversano qui la stessa esperienza. Se deve essere tentata, una tale esperienza non è soltanto perché si è in pensiero per un vocabolo o un atomo di senso e per tutta una tessitura tropica, non diciamo ancora di un sistema, e per le maniere di approcciare, per nominare, gli elementi di questa «tropica». Che riguardino il nome stesso di chōra («luogo», «posto», «area», «regione», «contrada») o ciò che la tradizione chiama le figure – comparazioni, immagini, metafore – proposte da Timeo stesso («madre», «nutrice», «ricettacolo», «porta-impronta»), le traduzioni restano prese nei reticolati dell’interpretazione. Esse sono indotte da proiezioni retrospettive, l’anacronismo delle quali può sempre essere sospetto. Questo anacronismo non è necessariamente, né sempre o solamente una debolezza alla quale un’interpretazione vigilante e rigorosa potrebbe sfuggire da parte a parte. Cercheremo di dimostrare che nessuno vi sfugge. Lo stesso Heidegger, che è uno dei pochi a non parlare mai di «metafora», sembra cedere a questa retrospezione teleologica8, contro la quale, altrove, ci mette giustamente in guardia. E tale gesto sembra altamente significativo per l’insieme della sua interrogazione e del suo rapportarsi alla «storia-della-filosofia».
Ciò che è stato or ora detto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Nota di edizione
  6. Prière d’insérer
  7. Con preghiera di inserire
  8. Prefazione. Dare il nome
  9. KHÔRA
  10. CHŌRA