Capitolo primo
LE VIE VERGINI
Dante scrive intorno al 1300 i suoi capolavori in volgare ed è consapevole di compiere in tal modo un passo di importanza storica universale1. Egli è senza dubbio l’erede della scolastica latina, ma essa esiste ormai alle sue spalle. Dopo Tommaso di Aquino – lui stesso più filosofo che teologo – nessun teologo di lingua latina, a parte le sperimentazioni speculative del Cusano, ha potuto diventare un vero avvenimento di rilievo nella storia dello spirito. Anche Suarez ha influito come filosofo, i commentatori di san Tommaso che si susseguono fino all’illuminismo portano già il segno degli epigoni. Dante ha studiato la scolastica come ha studiato Aristotele, Averroè e Sigieri, ma quando egli si incontra precisamente con la scolastica nell’alto del paradiso, sfera del sole, nel punto più basso del «cielo superiore», il girotondo dei due volte dodici dottori della sapienza – i due gruppi guidati da Tommaso e da Bonaventura – ha su di lui l’effetto di una sonagliera di orologio e di un concerto di campane con sottili tintinnii intrecciati, «come orologio… che l’una parte l’altra tira ed urge,/tin tin sonando…»2, o anche come una santa macina da mulino, «santa mola»3; perciò avviene pure che il domenicano canta l’encomio di Francesco e il francescano quello di Domenico, e alla fine Dante scorge tutto affascinato staccarsi dai due girotondi un terzo – come nel crepuscolo brillano nel cielo stelle nuove, «sì che la vista pare e non par vera»4 – che a lui appare come il «vero sfavillar del Santo Spiro». I suoi occhi, sopraffatti, non reggono a quella vista, e Beatrice lo attira ridendo oltre in un’altra sfera. Non è affatto impossibile che Dante si sia lui stesso sentito iniziatore di questa nuova terza teologia, forse in relazione a Gioacchino da Fiore, scorto da lui nel dodicesimo (e ultimo) dottore del gruppo secondo, allo stesso modo che Sigieri era stato visto come ultimo del primo. Ma la sola intuizione di questo terzo gruppo lo abbaglia, non riesce a dir nulla di significativo a suo riguardo. Non ci resta che interrogare al riguardo la sua opera.
Questa sua opera, indivisibile dalla sua singolare divina missione e dalla sua esistenza scalpellata a effigie ammonitrice, egli l’ha sentita come una cavalcata avventurosa verso il nuovo e l’inesplorato. «Verità voglio mostrare che nessuno ha ancora tentato: intemptatas ab aliis ostendere veritates. Giacché che utile mai recherebbe colui che volesse un’altra volta dimostrare una proposizione di Euclide? che si desse pena di evidenziare la felicità già messa in evidenza da Aristotele?5». E questo all’inizio della sua Monarchia! E in apertura al trattato sulla sua lingua madre: «Dal momento che nessuno prima di noi ha mai minimamente trattato della lingua volgare e noi reputiamo come estremamente necessaria a tutti quest’arte…»6. Come se Dante già vivesse nell’età delle esplorazioni d’oltre mare, i suoi libri brulicano d’immagini tratte da avventurose navigazioni. La leggenda degli Argonauti lo incanta a ripetizione, e fino in vetta al paradiso7: Giasone che incontra nell’inferno suscita la sua ammirazione8 e di più ancora la suscita Ulisse, che gli appare come lo scopritore temerario in assoluto, quasi anticipando quello che sarà Colombo per Bloy e Claudel. Nulla poté vincere «dentro a me l’ardore/ch’io ebbi a divenir del mondo esperto…/ma misi me per l’alto mare aperto/sol con un legno e con quella compagna/picciola da la qual non fui diserto»9, e oltre le ammonitrici colonne d’Ercole in «folle volo diretro al sol» non volli negarmi «l’esperienza del mondo senza gente»10. Anche Dante avanza nell’inferno per una «folle strada»11; s’inoltra per un «cammino alto e silvestro»12; con tono ammonitore invita i molti che hanno tentato di seguirlo nel suo viaggio su «piccioletta barca» a ritornare indietro, solo «voi altri pochi» potete venire con me sull’alto mare «servando mio solco dinanzi all’acqua che ritorna eguale»13, giacché «non è pileggio da piccola barca/quel che fendendo va l’ardita prora,/né da nocchier ch’a se medesmo parca»14. Vengono poi le realistiche, vertiginose descrizioni delle arrampicate, delle discese lungo l’inferno aggrappati ai massi selvaggi di monti precipitati15, delle salite da capogiro lungo le pareti verticali del purgatorio16. Dante conosce e sa ben rendere lo stato d’animo di chi, esaurita ormai ogni energia fisica, attinge alle sole riserve della sua volontà: «Leva’mi allot mostrandomi fornito/meglio di lena ch’io non mi sentiate dissi: va’, ch’io son forte e ardito!»17. Infine le immagini del volo: il volo in groppa a Gerione, mostruosa incarnazione della frode, allorché Dante prova «maggior paura» di Fetonte quando «abbandonò li freni», e di Icaro quando sentì le ali che fondevano18: due simboli di tragica hybris. Davvero pochi sono quelli che aderiscono alla voce dello spazio infinito che li chiama:
A questo invito vengon molto radi:
o gente umana, per volar su nata,
perché a poco vento così cadi19?
Dante è il primo a tentare l’impresa del volo attraverso il paradiso20, mentre quanto all’inferno egli cammina sulle orme di Virgilio e di Paolo. E se altri hanno già potuto essere innalzati mediante raptus fino a Dio, nessuno ha ancora intrapreso una investigazione così metodica del paradiso, una «esperienza» dell’aldilà come la sua. Il termine «esperienza» ritorna frequente oscillando fra il significato antico dell’esperienza mistica di Dio21, l’ancora più antico senso irenaico dell’esperienza della grazia mediante esperienza corporea del suo contrario22 e un senso tutto moderno di sperimentale indagine della realtà23. Vero è che esiste tutta una tradizione di viaggi sia pagani che cristiani nell’aldilà, di romanzi d’avventure in realtà trascendenti e di relazioni di rapimenti in Dio24; tuttavia Dante emerge netto su tutta questa letteratura con la coscienza di poter presentare sia teologicamente che esteticamente qualcosa di inaudito e in qualche modo di inimitabile, un’opera che lo colloca molto in alto sopra il suo tempo e lo insedia nel tempo futuro («s’infutura la mia vita»)25, anzi nell’eternità («s’eterna»)26. La coscienza della sua missione è senza esempio nella storia del cristianesimo in quanto non viene soltanto vissuta davanti a tutti (come è il caso di molti santi), ma viene nella maniera più incisiva impressa negli altri e confermata dai massimi poeti dell’età classica e dai massimi rappresentanti della cristianità. Come avrebbe potuto Dante vivere questa coscienza d’essere una costellazioneguida, se non avesse sperimentato la sintesi del medioevo che egli rappresenta insieme come qual...