Introduzione
CAPIRE IL MONDO PER TRASFORMARLO
Tutti conoscono la celebre formula con cui Karl Marx conclude le sue lapidarie Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Induce a sorridere? Appare ingenua? Velleitaria? Idealistica? Potrei riscriverla così: «Comprendere il mondo è indispensabile per chi desideri renderlo abitabile». Formulandola in questo modo, immagino – e spero – che più di una lettrice e di un lettore saranno d’accordo. Ma per comprendere il mondo nella sua incredibile complessità, dobbiamo fare sì che le conoscenze si incrocino e tenere presenti tre «suggerimenti» metodologici: ecologizzare il nostro spirito, deoccidentalizzare la nostra prospettiva e valorizzare un approccio retro-prospettivo. «Ecologizzare il nostro spirito» potrebbe essere il motto di Edgar Morin, tra i primi a collegare l’etologia, la biologia e le neuroscienze alle scienze umane e sociali. Quale che sia il tema trattato, il punto è coglierne la dimensione ecologica, e a tale scopo stabilirne la geostoria ambientale, misurarne l’impronta ecologica, rompere con il dualismo natura-cultura e via dicendo. «Deoccidentalizzare la nostra prospettiva» significa non privilegiare l’Occidente (che ha di fatto «occidentalizzato il mondo» in un dato momento della sua storia), tenendo invece conto delle altre culture, venerande e ricche quanto la nostra, e in tal modo riconoscere che – accanto all’universalismo che coltiviamo come beneficio indiscutibile per tutti – esiste anche un pluriversalismo che esalta la diversità. Quanto all’«approccio retro-prospettivo», si tratta semplicemente di osservare all’interno dello «specchio del passato», come suggerisce Ivan Illich, ciò che preannuncia il presente, e di discernere nel presente il futuro che già vi prende forma. Questi tre principi metodologici trovano la propria consacrazione nell’ecologia. Quest’ultima, infatti, si vuole processuale, trasversale e interrelazionale – il che non è così semplice da mettere in pratica, come ciascuno di noi potrà constatare provandoci di persona. Che cosa vuole significare questa espressione? Che tutto quanto (dal microbo ai mutamenti climatici, dall’agricoltura alla cibernetica, dalla ricerca della felicità all’estinzione di una determinata specie animale…) è il risultato di un processo di cui spetta a noi ricostruire la genealogia. Lo studio dei processi consente di articolare tra loro le diverse temporalità peculiari a questa o a quella realtà, e quindi di distinguerne le continuità, le fratture, i balzi temporali eccetera – tutto ciò che spiega come si sia giunti a quel punto. La trasversalità incrocia gli sguardi, gli approcci, le teorie, le valutazioni e svela elementi nascosti o sottovalutati. È proprio questo l’obiettivo dell’opera presente in cui Pierre Jouventin e Serge Latouche pongono a confronto le loro analisi, conferendo loro un carattere dialogico. Quanto alle interrelazioni, si tratta degli incroci rizomatici tra tutto ciò che produce una situazione – provvisoria, instabile, mutevole, non gerarchizzata, senza inizio e senza fine.
Ciascuno di noi può informarsi quanto più a fondo e con la massima precisione possibile riguardo a un tema, esaminandolo in tutte le sue sfaccettature, ma per fare questo deve rompere con la compartimentazione disciplinare nella quale è stato formato dalla prima infanzia. Sin dalla scuola primaria, infatti, il sapere ci viene presentato dagli adulti come un «blocco» che dobbiamo assimilare un pezzetto dopo l’altro – da cui la scansione dell’orario scolastico che separa lo studio del francese da quello dell’aritmetica, quello della musica da quello della storia, e via discorrendo. Questa ripartizione per discipline non soltanto non è neutrale, ma non è nemmeno egualitaria, di modo che lo studente che eccelle in matematica viene maggiormente apprezzato di quello che si distingue nell’apprendimento delle lingue o in un’attività tecnica (esisteranno ancora i laboratori «del legno» e «dei metalli» nella scuola secondaria, o i corsi di cucina in quella primaria, di cui ho potuto beneficiare nella mia infanzia?).
In Francia, il diploma di maturità più prestigioso è il «baccalauréat S», dove «S» sta per «scientifique» – quello che apre le porte dei corsi di preparazione e delle scuole di ingegneria. Viene così operata, nel consenso generale, un’insidiosa gerarchizzazione tra i diplomi e quindi tra le persone stesse. Risultato: non stabiliamo più dei legami tra le conoscenze, e accettiamo passivamente una specializzazione inevitabilmente riduttiva. Diversamente dal «sapere» e dal suo blocco suddiviso in pezzetti come un puzzle, la «conoscenza» si configura come cammino, come percorso iniziatico che si alimenta di tutto ciò che è utile a esplorarlo e a metterlo alla prova. I pedagogisti, che all’accumulazione di dati preferiscono l’esperienza individuale, soggettiva della scoperta, rifiutano le «discipline» privilegiandone le interrelazioni e il lavoro di gruppo. Mi riferisco qui a John Dewey, Patrick Geddes, Célestin Freinet, Maria Montessori e ad alcuni altri. Patrick Geddes1, per esempio, attribuiva un ruolo cruciale al giardinaggio e più in generale alla scoperta dell’«ambiente», convinto che l’osservazione di un luogo arricchisse conoscenze che si rivelavano complementari (botanica, geografia, architettura, silvicoltura, meteorologia eccetera) e che nella cura di un giardino si combinassero più attività, dalla semina alla preparazione di pietanze e di conserve, passando per l’irrigazione, la raccolta, la conservazione, la preparazione culinaria – che a sua volta chiamava in causa altre conoscenze e saperi, quali l’origine dei condimenti e delle spezie (geostoria delle piante e delle culture), le proporzioni (calcolo), la cottura (energia), la presentazione (design) e il consumo (dietetica)… La sua discepola Mabel Barker2 trasforma i suoi allievi in reporter che conducono inchieste nella città in cui abitano e nei suoi dintorni, interrogando artigiani e commercianti, disegnando case, informandosi sui materiali da costruzione, scattando fotografie, consultando gli archivi comunali, redigendo schede su ogni componente dell’«ambiente». Frequentando insomma la «scuola della città» e mescolando tutte le discipline, divenute permeabili e interattive.
Le sfide ambientali, il disordine climatico, l’impronta carbonica delle attività umane, l’estinzione di alcune specie animali e vegetali, la ricerca del «buon vivere», la transizione energetica, le varie forme di inquinamento – tutto ciò eccede un’analisi rigidamente disciplinare e richiede un approccio globale. Un approccio che riconcili le cosiddette scienze «dure» (le scienze «naturali», certo, ma anche la biologia, la chimica, la climatologia, la geologia, la fisica…) con le «scienze umane e sociali». Georges Gusdorf (1912-2000) intraprende uno studio impressionante e ambizioso intitolato Le scienze umane e il pensiero occidentale, pubblicato in quattordici volumi da Payot tra il 1966 e il 1988, in cui ripercorre i dibattiti che conducono alla formazione delle discipline. Sotto un certo aspetto l’opera, particolarmente ricca di documentazione, può competere con Le parole e le cose pubblicato da Michel Foucault nel 1966. Come si ricorderà, quest’opera aspira a definire le circostanze della comparsa delle varie «discipline» del sapere nel corso del Sette e Ottocento, e costituisce una sorta di archeologia della nuova episteme, quella che tratta anzitutto dell’uomo, della biopolitica. Le grammatiche si trasformano in linguistica, lo studio delle ricchezze in economia politica e le scienze naturali in biologia. Gusdorf segue le orme del dualismo «natura-cultura» superato da Buffon, rintraccia la comparsa della definizione «scienza dell’uomo» scaturita dalla penna di Cabanis e la riconciliazione tra scienze della natura e scienze dell’uomo realizzata dalla biologia di Lamarck. Studia nei particolari il passaggio dalle sette arti liberali dell’epoca medievale, così chiamate perché «liberano» lo spirito – il trivium (grammatica, retorica e dialettica) e il quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica) – alla formazione di un sapere unificato. Sapere che oscilla tra ambizione enciclopedica e unione tra scienze specialistiche. Scrive Thomas S. Kuhn ne La rivoluzione copernicana (1957): «A questo stadio, la nuova concezione non può rimanere limitata all’ambito di una specialità scientifica isolata. La natura non manifesta necessariamente, nei diversi ambiti, proprietà incompatibili […] Ogni innovazione fondamentale all’interno di una specialità scientifica trasforma le scienze affini e, più lentamente, il mondo stesso del filosofo e dell’uomo colto»3.
Georges Gusdorf auspica una solidarietà quasi organica tra i saperi che concorrono tutti insieme a rendere intelligibile il mondo, arricchendosi a vicenda nel contempo. I lavori di Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957) e La rivoluzione astronomica (1961), scrive Georges Gusdorf, «hanno reso familiare ai francesi l’idea che la storia dell’astronomia non è costituita soltanto da fatti astronomici – in essa le scienze matematiche si combinano con l’ontologia, la cosmologia e le rappresentazioni religiose»4. Cita soltanto rare opere «che esaminano la questione da ogni punto di vista» dedicando altresì grande attenzione allo spirito del tempo e alle specifiche circostanze che hanno condotto a questo o a quel contributo nuovo. Tale capacità di districare la matassa degli aspetti temporali del complesso dell’elaborazione di una conoscenza, delle sue applicazioni intellettuali e delle sue sperimentazioni sociali tarda a diffondersi. Gusdorf attribuisce particolare merito ai fondatori della rivista Annales nata nel 1929 all’università di Strasburgo, Lucien Febvre (1878-1956) e Marc Bloch (1886-1944), per il loro coraggio nel superare le frontiere tra le discipline accademiche e nell’abbinare tutti i loro studi a una geostoria delle mentalità. «Per mentalità, infatti», precisa, «si intende un insieme di rappresentazioni, o per meglio dire di atteggiamenti affettivi e intellettuali che sottendono l’applicazione di uno stile di vita in un contesto spazio-temporale specifico. Questo patrimonio comune dei contemporanei di questa o quell’epoca comprende saperi e miti, la percezione del reale e l’immaginazione dell’irreale e del surreale. Ogni società, in un dato momento della sua storia, si caratterizza per una memoria collettiva, ma anche per un’intelligenza e una sensibilità comunitarie, che forniscono un inquadramento generale all’integrazione dell’uomo nel tempo»5.
Ogni geostoria di un sapere lo supera e lo riconfigura in funzione degli interrogativi del momento. Tale aspetto non è sfuggito a François de Dainville, che scrive: «Sono presenti nelle opere geografiche dei secoli passati, così come negli esseri viventi studiati dal biologo. Per comprenderli, è necessario conoscere l’ambiente che li ha ispirati e alimentati. Perché, a un dato momento, si sono posti determinati problemi piuttosto che altri? Perché è stata scelta una determinata soluzione invece di un’altra? Quale motivazione giustifica un ampliamento dei programmi, o un mutamento apportato ai metodi tradizionali?»6. È così che il «panorama intellettuale» si trasforma e assegna un posto agli strumenti di misurazione, ai vocabolari tecnici, alle polemiche e alle controversie, ai confronti, alle «mentalità», alle conseguenze politiche delle conoscenze acquisite e/o rimesse in discussione e ai processi riesaminati… Va da sé che le parole non nascono senza motivo e in momenti qualsiasi all’interno di una lingua, e che vedono trasformarsi il loro senso nel corso del tempo e attraverso il confronto con altre lingue e altre parole. Per dirlo in termini semplici, la parola «scienza» nella cultura occidentale non ha lo stesso significato per i greci, per Leonardo da Vinci o per Alexander von Humboldt. Lo stesso vale per termini quali «attrazione», «evoluzione», «contraddizione», «natura», «meccanismo», «organismo» e via dicendo. È qui che il dialogo tra competenze diverse diviene fecondo, come conferma il volume che tenete in mano.
È nel 1866 che il medico darwinista Ernst Haeckel (1834-1919) conia in tedesco la parola «ecologia», dai termini greci oikos («famiglia», «dimora») e logos («conoscenza»), che designa le relazioni tra gli elementi costitutivi di uno stesso insieme. In tal modo aspira a rendere intelligibili le interazioni dinamiche tra gli esseri viventi e il loro ambiente. Due anni dopo, Haeckel precisa che l’ecologia studia la distribuzione geografica delle specie. Nel 1895, il botanico danese Eugenius Warming pubblica il suo Ecologia delle piante, tradotto in tedesco nel 1896 e in inglese nel 1909. È nella versione tedesca che lo legge Robert Ezra Park (1864-1944), allora dottorando in filosofia a Strasburgo. Sarà profondamente segnato da quest’opera dalla quale, una volta divenuto docente a Chicago, deriverà vari concetti: «habitat», «invasione», «acclimatamento», «individuo», «società», «territorio», «popolazione»… Riprendendo nell’opera collettiva La città7 (1925) il suo articolo programmatico del 1915 «The City: suggestions for the investigation of human behavior in the urban environment», e aggiungendovi il termine «ecologia», Robert Ezra Park rivendica un approccio ecologico alla questione urbana. È ciò che definisce «ecologia umana», e...