Capitolo terzo
IL GENIO INOPEROSO DUCHAMP E OLTRE
Aggirare i paradossi invece di affrontarli, eludere le aporie invece di percorrerle, è sempre un’operazione pacificante. Iniziamo allora con un interrogativo paradossale: di chi e di che cosa parliamo quando parliamo di Marcel Duchamp? Qual è la natura e lo statuto del quid che affrontiamo? Certo: di dada e di Duchamp hanno scritto critici e storici dell’arte; in ogni manuale vi si trova un ponderoso capitolo; se ne sono organizzate e se ne organizzeranno mostre nei musei di tutto il mondo. Ma questo, in fondo, vuol dire tutto e nulla. O ben poco. E soprattutto non significa che considerare dada solo un movimento “artistico” e Duchamp solo un “artista” in base ad una tradizione “disciplinare”-istituzionale, non si riveli alla fine non un riscontro fattuale di ciò che va da sé, ma già un giudizio. Perché appunto di questo si tratta: non è un dato di fatto come parrebbe (o quantomeno dovremmo disabituarci a ritenerlo tale) ma già una valutazione, già un’interpretazione. Non riusciremo mai a comprendere l’ètimo, lo spirito autentico della figura e del percorso di Duchamp se lo lasciamo o lo affidiamo unicamente al rilievo specialistico e disciplinare dei critici e degli storici dell’arte o all’attenzione gestionale dei curatori. Niente potremo concettualmente afferrare di dada e di Duchamp se li riduciamo agli schemi storicistico-progressivi, all’avvicendarsi delle tecniche artistiche, dei “contenuti” e via banalizzando. Dada non appartiene solo all’arte, appartiene alla storia del pensiero occidentale che, nella sua fase estrema, punta gli strali contro sé stesso. Senza questa prospettiva filosofica, vale ben poco il Duchamp dei critici e degli storici dell’arte.
Associandolo (e la cosa, com’è del tutto evidente, ci riguarda da vicino) a quello che chiama il neokinismo della modernità, Sloterdijk scrive che «nel nocciolo, dada non è un movimento artistico, né antiartistico, ma piuttosto una radicale “offensiva filosofica”»1. Ma già Theo van Doesburg, alla nascita del fenomeno, affermava icasticamente che «dada non è un movimento artistico»2. Precisiamo, però. Ciò accade non solo perché, come pure dichiara lo stesso Duchamp, «dada non aveva niente a che vedere con le arti plastiche»3. Non solo e non tanto, vogliamo dire, perché prendeva definitivo congedo − affidandosi ad una pratica sostanzialmente performativa − dalla pittura e dalla scultura (questo sì è rilievo storicamente e “tecnicamente” connotato, ma perciostesso limitato); e neanche perché non si pone più il problema di che cosa rappresentare ma mette in crisi la rappresentazione stessa, rompe con ogni attività “raffigurativa” (non è, questo, un apporto specifico di dada, e basti qui ricordare il percorso “visionario” di Malevič, ma anche di tanti esiti delle avanguardie storiche). La ragione più intima − e al contempo così evidente − sta nel fatto che dada, assumendo l’arbitrio a paradossale e impossibile norma di vita, de-lira, cioè letteralmente esce dal solco, svia o de-via da qualcosa di preventivamente circoscritto in cui ci sentiamo “a casa”: dal senso, dal ruolo, dalla funzione storicamente assegnati all’attività di una techne chiamata “artistica”, proprio perché questa è negata come fine e “riattrezzata” a mezzo di rifondazione del comportamento soggettivo e sociale. Essa deraglia dunque dai confini tradizionali che ne perimetravano il campo e le prestazioni fino ai limiti (e per certi versi varcandoli) della sua stessa riconoscibilità istituzionale e perfino designativa, nominale4. Siamo di fronte ad un’operazione meta-artistica che modifica e ritrascrive lo statuto stesso di ciò che si definisce come arte, prendendo definitivo congedo da ogni forma di mediazione estetica. Sotto questo profilo, il genio di Duchamp ha rimesso in gioco − e più o meno deliberatamente ne ha fatto una posta − la tassonomia o la classificazione delle attività umane, ha scompaginato la distribuzione storicamente determinata delle loro prestazioni e dei loro confini reciproci: mettendone a nudo il carattere convenzionale e revocabile, come fecero Diogene e Pirrone con le condizioni stesse della comunicazione filosofica. Da questa particolare prospettiva, appare lecito affermare che Duchamp delegittima la distinzione di derivazione platonica delle specie e dei generi associata alla decifrazione-distribuzione per categorie pure, “rivelando” che non esistono accordi preventivi o di principio in base ai quali si devono normativamente produrre e apprezzare le opere d’arte né separarle a priori da altre attività. Soprattutto per questo motivo, non si può affatto ridurre, confinare e quindi in certo modo neutralizzare la figura e la prestazione di Duchamp (com’è ormai invalso non solo nell’uso della communis opinio ma anche negli automatismi degli storici e dei critici) a quella di un genio proverbialmente “provocatore”, “scandaloso”, “ironico”. La grandezza e la genialità di Duchamp stanno nell’aver operato un radicale cambiamento di paradigma, nell’aver rappresentato una matrice aperta a futuri sviluppi, nell’aver inventato un orizzonte prima inesistente. Ove la cultura moderna celebra l’arte pensando l’opera come l’effetto di una creazione e l’artista come il suo creatore, Duchamp rimette in questione o addirittura nega la categoria di produzione individuale. Ove la tecnica celebra sé stessa come fattore di re-incantamento del mondo, la fondamentale a-tecnicità del suo procedere inventivo ne depotenzia la hybris laicizzandone i caratteri nella dimensione dell’inespressività propria al banale e al quotidiano. In questo senso, la de-produzione di Duchamp rappresenta un paradigma trans-storico che si sottrae alla competizione sulla cosiddetta “attualità”. Attraverso il superamento della coscienza estetica, emerge la kenosis dadaista (si potrebbe parlare anche in questo caso di una categoria teologica secolarizzata), cioè l’abbassamento-svuotamento dell’arte per ricongiungerla, fino a illocalizzarne i confini reciproci, all’immediatezza del reale e della vita oltre ogni autonoma apparenza estetica. A venir meno è l’artisticità peculiare del fare artistico (ma non della pratica artistica, anzi questo fare è messo in questione precisamente in una pratica); ed è per questa ragione che cede o si rende evanescente, labile, impercettibile la distinzione di fonte platonica tra apparenza estetica e realtà. Dopo dada e Duchamp, messo definitivamente in crisi lo stadio estetico dell’arte, quella che appunto il lessico occidentale chiama ancora “arte” è diventato un luogo che accoglie pratiche anomale, eteroclite, devianti, offrendo loro una sorta di asilo che non troverebbero altrove. Molti degli attuali indirizzi delle pratiche artistiche contemporanee non fanno altro che confermarlo con un’evidenza che va al di là di ogni possibile dubbio5.
È vero che Duchamp si è spesso dichiarato personalmente estraneo alla “specie” degli artisti, alla retorica creativa e alla ritualità sociale di cui sono più o meno involontarie vittime o involontari protagonisti. Ed è vero − come nota Octavio Paz nel più bel libro che sia stato scritto su di lui − che a ben vedere la «sua unica occupazione permanente», quella che lo ha impegnato lungo tutta la sua vita non è stata l’“arte” ma gli scacchi6. Non è neppure questo il punto, però, anche se la seconda considerazione ha palesemente più di un nesso con la prospettiva che intendiamo qui sviluppare. Certo si potrebbe anche dire che, come Jünger teorizzava la figura dell’an-arca, così per Duchamp potremmo pensare alla figura dell’an-artista, colui che in qualche modo fa epoché, si astiene con un sovrano e pirroniano no comment dal “problema” dell’arte o meglio dall’arte considerata, valutata come un “problema”7. Ma queste sono soltanto definizioni che lasciano (per definizione) molto del tempo che trovano. Come che sia, Duchamp ha preso un congedo così radicale da ogni forma di mediazione estetica, ha operato in termini così forti, evidenti e coerenti un controdiscorso rispetto all’immagine dell’arte e al perimetro del suo “a priori storico” che, se vogliamo davvero trarne le conseguenze, una sua riconsiderazione in chiave più specificamente etico-filosofica (secondo l’accezione sia di ethos sia di “filosofia” che siamo andati fin qui perseguendo nella nostra ricerca) appare quasi obbligata e comunque perfettamente congruente.
«Vincent van Gogh non appartiene alla storia dell’arte», scriveva Georges Bataille in un articolo del 19378. Qualcosa di molto simile potremmo ripetere per Marcel Duchamp. Ma come assumere radicalmente quest’affermazione? Non si tratta di “traslocare”, con una pretesa a sua volta manualistico-disciplinare, Duchamp dall’“arte” alla “filosofia”, come se fossero dominî istituzionalmente in sé conclusi, monadi indipendenti l’una dall’altra, “dottrine” precostituite. Sarebbe letteralmente insensato e ineffettuale. Si tratta invece − mantenendo viva la tensione che non deve cessare di crearsi tra i due poli, e insieme affidandosi all’“infinito intrattenimento” che da sempre li unisce − di mettersi sulla tracce della costellazione filosofica in cui si inserisce l’arte di Marcel Duchamp: per riconfigurarne i punti nodali, le intersezioni che ne disegnano il perimetro mobile. È la strada che qui intendiamo percorrere.
Facciamo un primo passo. In stretta connessione con quanto appena detto (ne rappresenta anzi un aspetto decisivo e forse anche una logica conseguenza) bisogna sottolineare che la “poetica” duchampiana si pone in perfetta e compiuta antitesi rispetto ad ogni principio ispirato all’art pour l’art comunque la si intenda. La techne, la pratica artistica (di cui, come vedremo analiticamente, anche l’apparente inversione costituita dal silenzio e dall’esonero fa parte integrante) vengono considerate come uno strumento, un mezzo-per, come qualcosa che sta al servizio-di. Ad esempio al servizio di una pulizia o una “liberazione” mentale. Completa e definitiva, disincantata, “laica” de-sublimazione e de-ontologizzazione scettica dell’arte: di essa, come di un utensile, si deve fare uso9. Erroneo o addirittura dannoso sarebbe pretendere di asseverarne un “in sé” eroico-mitologizzante teso a raffigurare sensibilmente l’intuizione dell’Idea iperurania. L’arte concettuale che origina da Duchamp è sì un’arte “di idee”, ma nient’affatto in questo senso10. Un quadro non è un oggetto da guardare, non è un obiectum privilegiato su cui si arresta e non procede, oltre cui non va lo sguardo; è piuttosto una superficie attraverso cui guardare (il Grande Vetro, certo; ma non bisognerà forse pensare anche al guardare attraverso della strategia filosofica di Wittgenstein?); ed il quadro Da guardare con un occhio solo, da vicino, per almeno un’ora è il colpo di humour (tema centrale, come noto, in Duchamp) che non fa altro se non denunciare la limitatezza e la “miseria” del pregiudizio retinico per rinviare concettualmente all’occhio mentale (ed in fondo non è forse vero che “ciò che” sappiamo-nominiamo di un quadro, di un’immagine non è “ciò che” vediamo?).
Ma in quale contesto interpretativo e storico-concettuale innestare questo motivo duchampiano? Poco o nulla comprendiamo dell’ètimo stesso delle arti moderno-contemporanee – anche e soprattutto nei loro esiti più recenti, che tanto devono a Duchamp – se continuiamo a ragionare nei termini rigidi e poco maneggevoli di oggetto e di opera. Bisogna ragionare in termini di pratica. Tale la prestazione gnoseologica propria delle arti mode...