La singolarità del vivente
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La singolarità del vivente

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Dal mondo del digitale e della biologia molecolare ci viene annunciato che tutti i meccanismi biologici potranno essere finalmente svelati, modellizzati, superati. Sarebbe cioè giunto il tempo di passare dal mondo reale e dal vivente stesso, ormai riducibile alle proprie componenti, a uno meccanico. Dietro queste promesse di vita aumentata si cela in realtà un vecchio progetto reazionario: quello di sbarazzarsi dei corpi per giungere finalmente alla «vera vita», che sarebbe quella dei dati e degli algoritmi. Ma affermando che «tutto è informazione», il mondo digitale non soltanto ignora, ma annienta le singolarità proprie del mondo del vivente e della cultura, mettendo a repentaglio la nostra stessa possibilità di agire, pensare, desiderare e amare... Contro questa minaccia, Miguel Benasayag ci invita a elaborare una modalità di ibridazione tra la tecnica e gli organismi che non si riduca a una brutale assimilazione. Ciò implica la creazione di un nuovo immaginario, di un nuovo paradigma in grado di aiutarci a studiare ciò che nell'ambito della complessità propria del vivente e della cultura non può essere ricondotto al modello informatico dominante.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2021
ISBN
9788816803022

Capitolo 1

OLTRE IL MECCANICISMO E IL VITALISMO. LA RADICALE DIFFERENZA TRA ORGANISMO E ARTEFATTO

All’origine di questo lavoro vi è una questione centrale dal punto di vista storico: ciò che caratterizza il nostro tempo è la decostruzione, cioè la rottura di ogni vincolo. L’intera storia del Novecento, infatti, è stata fortemente segnata dalla decostruzione delle forme e degli archetipi che avevano strutturato la modernità occidentale.
Tra Cinque e Seicento, Giovanni Keplero aveva posto con chiarezza le basi del progetto di tale modernità: la sola differenza tra Dio e l’Uomo risiede nel fatto che quest’ultimo non conosce ancora tutti i teoremi. «Non ancora» – ecco la dimensione temporale in cui doveva completarsi la conoscenza della mathesis universalis. Poiché il mondo è strutturato da leggi matematiche, la scoperta di queste ultime avrebbe consegnato all’uomo il dominio universale sul reale; era soltanto una questione di tempo. Ma a partire dal primo decennio del Novecento assistiamo proprio al crollo di questa mathesis universalis e, parallelamente, allo schiudersi di un’epoca posta sotto il segno della disarticolazione e della scomposizione di tutte le strutture: non esiste più alcuna armonia recondita da scoprire. Questa disarticolazione prende il via, sia simbolicamente sia oggettivamente, nell’ambito delle scienze matematiche.

«Nessuno è padrone in casa propria»

In occasione del II Congresso Internazionale dei Matematici organizzato a Parigi nel 1900, David Hilbert, matematico tedesco, annuncia la rottura dei fondamenti dell’aritmetica. La crisi è aperta. Per il momento essa investe soltanto il nocciolo duro della logica. Ma sebbene all’epoca il dibattito non si estenda oltre l’ambiente ristretto dell’élite scientifica europea, la decostruzione del paradigma della modernità, secondo il quale tutto può essere conosciuto dall’uomo, è destinata a produrre un vero e proprio effetto domino. La crisi investirà la fisica, che, abolendo i confini tra materia ed energia, porterà a dubitare dell’esistenza stessa della materia. Il fisico tedesco Werner Heisenberg dimostrerà infatti con estrema chiarezza che da quel momento si dovrà fare i conti con una non-conoscenza strutturale al centro di qualunque conoscenza. Questo «principio di indeterminazione», assai discusso, produrrà un retaggio destinato a estendersi ben al di là delle sue origini.
Una ventina d’anni dopo, i due teoremi di incompletezza di Gödel confermano nuovamente l’impossibilità di un sapere completo e totalizzante. Questa seconda decostruzione, ancora una volta, si estenderà ben oltre il nucleo della logica aritmetica e della fisica. In brevissimo tempo, l’onda d’urto si propaga in tutte le dimensioni dell’attività artistica, scientifica, storiografica e, naturalmente, psicoanalitica. Negli anni Venti il professor Freud confermerà che la coscienza, con la sua tentazione di orientare la vita in modo razionale («pensare bene per fare il bene»), è quanto mai limitata. Tutto sembra smentire le promesse kantiane, che avevano fatto presagire all’umanità l’avvento di un’età della ragione, di un’età «adulta». A questa idea di una coscienza onnipotente, di un Io forte che guida il nostro percorso, Freud ribatte che «nessuno è padrone in casa propria»: l’Io è un altro. Questa alterità, che scava un baratro insuperabile tra il conscio e l’inconscio, fa risuonare la campana a morto per il progetto teleologico della modernità. Da questo momento, tutte le dimensioni dell’attività umana saranno guidate da un’unica preoccupazione centrale: sbarazzarsi di tutte le strutture tradizionali. La scomposizione costituirà così un tratto centrale destinato ad attraversare tutto il Novecento. Si tratta indubbiamente della conclusione di un ciclo che, iniziato intorno al 1000, tocca il suo apogeo nel Rinascimento e si esaurisce nel 1900. Termina così il primato nominalista della figura dell’uomo – colui il quale, attraverso la sua Ragione, era destinato a sostituire ogni autorità divina.
Il Novecento, parimenti caratterizzato da un’immensa produzione di saperi e di pratiche artistiche che aspiravano a una convergenza finale, è stato dunque a un tempo terribile e magnifico. Ma si tratta di un’epoca ormai alle nostre spalle: ci troviamo già nel domani. La decostruzione e la rottura di ogni legame ci hanno lasciato in eredità un «mondo di Lego». Il tutto, vale a dire l’inerte e il vivente, non sarebbe in fondo che un insieme di particelle prive di una connessione organica tra loro. È il mondo bottom-up, quello della biologia molecolare, dell’urbanistica utilitarista e dell’individualismo sfrenato.
Pur trovandosi al centro di questa dislocazione, di questo sgretolamento del reale che comprende sia gli oggetti sia i soggetti, i contemporanei sembrano ritenere che essa non li tocchi, che si tratti di un fenomeno a loro esterno, estraneo a quel soggetto che essi credono di essere. La miseria del pensiero attuale, nel momento stesso in cui prende coscienza di questa mancanza di unità del mondo, ama sognare individui che sarebbero a un tempo soggetti trascendenti, esistenti al di là di qualunque situazione, e attori capaci di dotare il mondo di unità soggettive. «A ciascuno la sua verità», ci viene detto. Verità che risiederebbe dunque in ogni individuo, insieme etereo e sostanziale. Di fronte agli immensi cambiamenti già oggi in atto, tra cui l’ibridazione tra organismo e artefatto assume certamente un ruolo centrale, alcune correnti di pensiero quanto mai deboli preconizzano metamorfosi radicali in cui l’individuo dovrebbe – contro e nonostante tutto – sopravvivere. Ne conosciamo già la versione più grossolana, il transumanesimo di matrice americana, e la sua declinazione francese, timida ed esitante: secondo i suoi fautori, l’unità trascendente sarebbe l’Io individuale1. Quest’ultimo sopravviverebbe – come una sorta di anima degradata in versione di plastica – in un corpo post-organico fatto di lamiera e silicone. Costoro definiscono questa evoluzione «l’emergere di una nuova singolarità». Un’altra versione è il realismo speculativo, destinato a un’élite intellettuale francese in cerca di emozioni forti che immagina che, poiché le leggi della fisica non rispondono ad alcuna necessità divina, esse potrebbero cambiare completamente – in una miscela di fisica quantistica fittizia e narcisismo sin troppo reale2. Anche i promotori di questa corrente di pensiero immaginano una «nuova singolarità»: una legge fisica del tutto nuova potrebbe emergere in qualunque momento, per esempio tra due appuntamenti. L’aspetto più curioso – o forse più pietoso – è che, come i loro confratelli americani, costoro ritengono che di fronte a questa nuova singolarità loro resteranno immutabili, e un bel giorno avranno modo di ammirare le mele librarsi verso il cielo.
Il presente lavoro, con spirito più umile e sommesso, aspira a pensare la possibilità di un modello cognitivo teorico e pratico di ciò che conferisce unità al mondo e ai soggetti. Per giungere a questo risultato, è certamente necessario abbandonare innanzitutto questo delirio post-organico e incorporeo, e pensare l’unità come processo in costante divenire, che dipende dai corpi e dal rapporto tra il campo biologico e la cultura. È questo che tenteremo di dimostrare di seguito con il nostro modello organico: ogni unità, ogni ordine, ogni ripartizione è inscindibile da questo «sforzo finalizzato a» che è proprio del fenomeno del vivente – quello che Spinoza, nella sua Etica, definisce conatus («ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere»)3.

Un pensiero possibile dell’unità

Se la storia dell’ultimo secolo è quella della dislocazione, della decostruzione di tutte le forme sino ad allora dominanti, e in tutte le dimensioni della vita e della cultura, va altresì riconosciuto che il Novecento è stato anche il secolo della ricerca di nuove forme di unità, di un nuovo paradigma in grado di consentirci di pensare e di agire nel mondo all’indomani della crisi del 1900.
Fu nel campo della biologia e dell’epistemologia che Francisco Varela compì un passo fondamentale. Il biologo cileno spiegò che il mondo non era un insieme disordinato di «oggetti», ordinati da soggetti «ultraterreni» in funzione della loro mirabile soggettività o narrazione. In altre parole, l’assioma postmoderno «a ciascuno la sua verità» era non soltanto insulso, ma falso. Al contrario, negli esseri viventi sono il cervello e il corpo a strutturare la percezione e il rapporto con il mondo. Un’immagine percepita, spiega Varela, ci dice di più sull’unità del corpo che percepisce e sulla sua struttura cerebrale che su un mondo omologo esterno. In altre parole, tra la percezione e la costruzione delle immagini cerebrali esiste un rapporto che non equivale a una ricezione da parte dell’organismo di una forma esteriore che si imprimerebbe su di esso come su una pagina bianca. È invece la struttura stessa del sistema nervoso centrale che, a partire da uno stimolo esterno x, produce, in funzione della propria organizzazione, un’immagine cerebrale. Varela definì questo meccanismo «enazione».
Collaborando con Varela, ho così avuto modo di indagare ulteriormente su un punto sino ad allora arduo da dimostrare, e cioè che l’origine di ogni senso non risiede in un punto di vista puramente soggettivo, ma piuttosto in un insieme di ancoraggi corporei del tutto reali e verificabili. Si esce così dalla «svolta linguistica», la teoria debole secondo cui tutto è linguaggio. Ma Francisco Varela ci ha lasciati troppo presto, senza avere il tempo di chiudere del tutto la porta alle interpretazioni aggregative del vivente.
Se dunque, grazie ai lavori di Varela, eravamo in grado di comprendere ciò che dava senso al mondo e alla vita degli organismi, mancava ancora una teoria in grado di spiegarci, dal punto di vista scientifico, il livello fisico-chimico al centro dell’unità dell’organismo. Se infatti, in quanto essi stessi «ritagliati» (cioè non continui), gli organismi sono in grado di ritagliare e strutturare il loro ambiente, e in quanto essi stessi unificati sono in grado di strutturare questo ambiente in unità, dando così un senso al loro mondo, rimaneva un interrogativo: a che cosa è dovuta, dal punto di vista materiale, l’unità degli organismi?
Fu Ilya Prigogine, nel 1969, a fornire uno spunto essenziale di risposta: l’ordine nasce dal disordine. Le «strutture dissipative» corrispondono così a «stati critici di transizione di fase», vale a dire a processi temporanei di strutturazione e di organizzazione nell’ambito dell’entropia (che misura il grado di disordine di un sistema a livello microscopico). Operano quindi per «neghentropia» o entropia negativa. Certo, l’entropia globale del sistema continua ad aumentare costantemente, ma a livello localizzato e puntuale è possibile una produzione di ordine. Ciò consente di spiegare come gli organismi possano essere organizzati, gerarchizzati e soprattutto «ritagliati» – cioè capaci di stabilire, in rapporto al loro ambiente, un confine tra sé e non-sé. Tuttavia, questi stati critici non erano ancora sufficienti a spiegare del tutto l’esistenza di organismi che durano nel tempo e nello spazio. Nel mondo della chimica fisica, ogni stato critico – cioè ogni stato della materia in cui le parti di un insieme entrano in un rapporto singolare, iniziando a operare come unità in rapporto all’ambiente – rimane infatti puntuale.
Successivamente, alcune opere – in particolare quelle del matematico Giuseppe Longo e quelle del fisico Francis Bailly – avrebbero aperto nuovi percorsi utili a dare risposta a questo interrogativo centrale. Longo e Bailly formularono l’ipotesi che gli organismi esistano come «stati critici estesi», cioè che la loro unità, il loro ordine e la loro gerarchia si presentino come momenti «estesi» nel tempo e nello spazio. Momenti nei quali la vita si sviluppa come sforzo permanente ed effimero negli individui delle diverse specie. Si manifesta così un ordine che non è semplicemente frutto di una denominazione soggettiva, ma possiede un’autonomia propria, nel tempo e nello spazio, che risponde a una dinamica interna all’organismo.

Crisi di senso: quando le ipotesi divengono dogmi

Sotto alcuni aspetti, la crisi che attraversiamo assomiglia a qualunque altra crisi verificatasi nella storia dell’umanità. Ogni grande sconvolgimento di carattere antropologico o sociale implica una perdita di senso. Più che al venir meno di una griglia di lettura, sembra di assistere al disfacimento del tessuto stesso del mondo. Un momento che Bertolt Brecht ha rappresentato perfettamente in un brano della Vita di Galileo. Un fraticello si reca segretamente a conversare con il sapiente e gli spiega che il suo «sistema» priva di senso la vita dei suoi genitori – contadini che faticavano e soffrivano, ma si sentivano al centro dell’universo e sotto lo sguardo di Dio. Facendo della terra un sassolino sperduto nell’universo, Galileo ha eliminato la cornice in cui questa sofferenza aveva un senso.
È opportuno comprendere che la questione del senso non è una questione secondaria. Il senso non dipende dall’informazione cosciente o meccanica. Costituisce una strutturazione esistenziale del vissuto: ordina, struttura il nostro rapporto con il mondo, compreso quello corporeo – anzi, soprattutto quello corporeo.
Nella Ricerca del tempo perduto, Proust scrive: «I fatti non penetrano nel mondo in cui vivono le nostre convinzioni». Fatti e convinzioni sono due dimensioni che senz’altro interagiscono, ma mantengono una certa impermeabilità. Il senso non è dato dai fatti, ma da una strutturazione, da un rapporto con il mondo mediato da un insieme di miti, credenze, paradigmi che ciononostante rimangono fortemente legati a corpi localizzati, sempre già impegnati in un movimento.
Contrariamente a quanto sentiamo sovente affermare, la crisi del nostro tempo non si riduce affatto alla sola questione della caduta delle ideologie, delle grandi narrazioni, della storia – a un problema di cartografia obsoleta, insomma. Ad apparire disordinato, caotico, è il territorio stesso. In ogni crisi, la perdita di senso coincide in primo luogo con una destrutturazione, una dispersione, e quindi, in un secondo tempo, con una riorganizzazione dei territori, cioè con un riallacciarsi dei rapporti tra i corpi e il mondo, nell’ambito di una co-costruzione vivente/ambiente di ciò che definiamo la «realtà».
Nella transizione dall’era di Dio all’era dell’uomo, è proprio il «teatro del mondo» del fraticello a crollare. In Occidente, il lungo periodo che va dalla fine del Medioevo al Rinascimento coincide così con una lenta ristrutturazione dei paesaggi, dei saperi, delle tecniche, dei rapporti sociali e familiari – tutti processi che conducono a nuove modalità di territorializzazione. Con l’età moderna si passa così da una corporeità a un’altra. Ed è proprio qui che si colloca la specificità della crisi attuale. La società postmoderna vorrebbe oggi superare la crisi di senso sbarazzandosi del corpo. Essa si proietta ormai verso una prospettiva di deterritorializzazione4 radicale e verso l’elaborazione di un modo di vita «post-organico».
Ogni società in crisi è percorsa da una tendenza all’autoreferenzialità. Ciò in cui essa trova la propria coerenza – i miti, le credenze, i paradigmi – non riesce più a metabolizzare la massa di non-senso che sino a quel momento si accontentava di mettere in discussione i limiti di un’epoca. La visuale si chiude. E la chiusura è, come sempre, autoreferenziale. Qualunque organismo o macro-organismo – una società, una famiglia, un individuo, una cultura – si comporta così: si tratta di una dinamica generale, in cui una serie di interpretazioni ipotetiche, mutevoli, conflittuali (o, come le definiremo più oltre, «x-tolleranti», cioè in sintonia con il reale) si avviano a trasformarsi in dogmi.
L’epoca in cui viviamo si po...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione, Jean-Michel Besnier
  6. Un inizio
  7. Introduzione: I corpi esistono
  8. Capitolo 1: Oltre il meccanicismo e il vitalismo. la radicale differenza tra organismo e artefatto
  9. Capitolo 2: Tre modalità di esistenza
  10. Capitolo 3: Le dinamiche del mamotreto i per un nuovo modello organico
  11. Capitolo 4: Le dinamiche del mamotreto ii ritaglio e discretizzazione
  12. Capitolo 5: La doppia costrizione, un principio di organicità
  13. Conclusione: Il problema non sta nella tecnica
  14. Postfazione: Elogio della linea: verso nuovi contorni dell’umano, Giuseppe Longo
  15. Ringraziamenti
  16. Dello stesso autore
  17. Dal catalogo