SECONDA SESSIONE1
La logica della vivente
Vorrei risparmiarvi la noia, la perdita di tempo e questa specie di asservimento che c’è sempre nel dover procedere ricordando le sedute precedenti, nell’auto-giustificazione di un tragitto, di un metodo, di un sistema, le transizioni più o meno abili, il ristabilimento della continuità, ecc., altrettanti imperativi della pedagogia classica con i quali è impossibile rompere totalmente ma che, ad attenervisi rigorosamente, ci avrebbero rapidamente ridotti al silenzio, alla tautologia o al rimaneggiamento. Vi propongo dunque il mio compromesso, che, come sanno tutti, nei termini della libertà accademica è da prendere o lasciare. Tenuto conto del tempo di cui dispongo, della noia che voglio risparmiare anche a me stesso, della libertà di cui sono capace e che voglio preservare, procederò in un modo che alcuni troveranno aforistico o inaccettabile in un corso, che altri accetteranno come tale, altri ancora troveranno troppo poco aforistico, ascoltandomi in un tale modo, con tali orecchie (tutto dipende dall’orecchio con il quale mi avete inteso l’ultima volta e mi intendete in generale), che la coerenza e la continuità del mio tragitto saranno apparse loro molto rapidamente e dalle prime parole, fin dal titolo della prima sessione. In ogni modo, siamo intesi che chi non vuole seguire può non seguire e chi vuole prendere la parola può farlo. Va da sé che, oggi, insegnando, non insegno la verità in sé trasformandomi in strumento trasparente della pedagogia eterna, ma regolo, come posso, un certo numero di problemi con voi e con me stesso, e attraverso di voi e me stesso, con altre istanze qui rappresentate. E che, dunque, non intendo sottrarre all’esibizione o alla scena il posto che occupo qui, né ciò che per fare presto chiamerei, proponendovi di dislocarne un po’ il senso, di ascoltarlo con un altro orecchio, la dimostrazione auto-biografica alla quale vorrei prendere un certo piacere, proponendovi di apprendere da me questo piacere: tenuto conto anche delle dimensioni della sala. Potrebbe essere che, ma non è ancora sicuro, meno saremo, più grande sarà il piacere da condividere. Ma non è sicuro.
La cosiddetta «libertà accademica», l’orecchio e l’auto-biografia, ecco di cosa mi occuperò oggi.
Un discorso su la vita la morte, lo abbiamo verificato a sufficienza la settimana scorsa, si tiene in uno spazio, ancora molto indeterminato, tra il logos e il gramma, l’analogia e il programma, i differenti sensi del programma. E poiché si tratta della vita, questo spazio tra logica e grafica deve per forza situarsi anche da qualche parte tra l’istanza bio-logica e l’istanza bio-grafica, tanato-logica e tanato-grafica.
Il biografico, l’autos dell’autobiografico, deve oggi essere sottomesso ad una completa rivalutazione. La biografia di un filosofo non può più essere considerata oggi né come un accidente empirico, lasciando il suo nome e la sua firma nel semplice fuori del sistema offerto ad una semplice lettura filosofica immanente, garantendo la possibilità di scrivere delle vite di filosofi nello stile ornamentale e tradizionale che conoscete, né <come> delle psico-biografie che rendano conto della genesi del sistema secondo dei meccanismi empirici (di tipo psicologista (anche se è tinteggiato di psicanalisi), storicista, sociologista, ecc.). Una nuova problematica del biografico in generale, della biografia dei filosofi in particolare, deve mobilizzare più di una risorsa nuova, ma almeno quella di una nuova problematica del nome proprio e della firma del filosofo. Né le letture immanentiste dei sistemi filosofici, che siano strutturali o no, né le letture empirico-genetiche (esterne) della filosofia hanno mai in quanto tali interrogato il confine dinamico tra la vita e l’opera, il sistema e il soggetto del sistema, confine dinamico che, non essendo né semplicemente attivo né semplicemente passivo, né fuori né dentro, non è più una linea sottile, quasi invisibile, tra il didentro dei filosofemi, per esempio, e la vita di un autore nominabile ma attraversa i due corpi (il corpus e il corpo) secondo delle leggi delle quali cominciamo appena a intravedere la complessità.
Quel che si chiama la vita, cosa o oggetto della bio-logia e della bio-grafia, non ha soltanto la complicazione di ciò che non si oppone soltanto, come ad un contrario, a qualcosa che sarebbe per essa un oggetto opponibile, e cioè la morte, il tanato-logico o -grafico fronteggiando così il bio-logico o il bio-grafico. Essa è anche, abbiamo iniziato a verificarlo, ciò che ha difficoltà a diventare oggetto di una scienza, per ragioni essenziali, nel senso che la filosofia e la scienza tradizionali hanno sempre dato a questa parola, allo statuto legale della scientificità. E questa difficoltà che ha, e i ritardi che ne conseguono, e di cui parlavamo la scorsa settimana, dipende non soltanto dal fatto che una filosofia della vita ha sempre il suo posto, approntato in anticipo, in una scienza della vita (cosa che non accade per le altre scienze, detto altrimenti, di tutte le scienze che sono scienze della non-vita, <detto> altrimenti, che sono scienze, in qualche modo, del morto, cosa che significherebbe che tutte le scienze che pervengono alla scientificità senza residui o ritardi sono delle scienze del morto, e che c’è tra il morto e lo statuto di oggetto scientifico, tra il morto e l’oggettività scientifica una co-implicazione che ci interessa, che interessa il desiderio dello scienziato), non soltanto dunque, dicevo, perché una filosofia della vita ha sempre il suo posto approntato in anticipo in una scienza della vita della quale limita di conseguenza la scientificità, ma, e di conseguenza, la difficoltà (e il ritardo irriducibile) dipendono dal fatto che il soggetto detto vivente del discorso bio-logico è sempre impegnato nel suo campo, parte integrante o partito preso, con il suo desiderio, con l’enorme bagaglio di acquisizioni filosofico-ideologiche, politiche, tutte le forze che lo travagliano, in una parola, con tutto ciò che, potenzializzandosi nella soggettività e nella firma di un biologo o di una comunità di biologi, costituisce l’irriducibile inscrizione del bio-grafico nel bio-logico.
Ora – il nome di Nietzsche è oggi per noi, in Occidente, il nome di colui che fu il solo, forse con Kierkegaard ma in un altro modo, a trattare, direi, della filosofia e della vita, della scienza della vita e della filosofia della vita, con il suo nome, a suo nome, mettendo in gioco il suo nome, i suoi nomi, la sua biografia, con quasi tutti i rischi che ciò comporta, per lui, per la sua vita, il suo nome e l’avvenire del suo nome, segnatamente l’avvenire politico di ciò che ha firmato.
Bisogna tenerne conto quando lo si legge e non lo si legge se non tenendone conto.
Mettere in gioco il proprio nome (con tutto ciò che vi si assume e che non si riassume in un me), mettere in scena la propria firma, fare di tutto ciò che si è detto e scritto della vita e della morte un’immensa sigla bio-grafica, ecco che cosa ha fatto e di cui dobbiamo prendere atto, non per accordargliene il beneficio – innanzitutto perché è morto, evidenza triviale che il genio del nome è sempre presente per farci dimenticare; innanzitutto perché è morto, dunque, e perché essere-morto vuol dire almeno questo, che nessun beneficio o maleficio, calcolato o meno, può più ritornare al portatore del nome, ragion per cui il nome, in quanto non è il portatore, è sempre il nome di un morto e che ciò che ritorna al nome non ritorna mai a qualcosa di vivente: niente ritorna al vivente; inoltre, non gli accorderemo il beneficio perché ciò che egli ha lasciato in eredità, in suo nome, era, come ogni lascito (intendete questa parola con l’orecchio che preferite), avvelenato, si mischiava fin dal principio, e ne avremo un ricordo anche oggi, al peggio del nostro tempo. E non vi si mischiava per caso.
Non bisogna leggere Nietzsche – e lo ricordo prima di aprire i suoi testi – né come un filosofo (dell’essere, della vita o della morte), né come uno scienziato, né come un biologo se questi tre tipi hanno in comune l’astrazione del bio-grafico, e la pretesa di non impegnare la loro vita e il loro nome nei loro scritti. Dunque, non si deve leggere Nietzsche che a partire da un gesto come quello di Ecce Homo in cui egli mette avanti il suo nome e il suo corpo, anche se ciò che mette avanti ha la forma di una maschera o di pseudonimi senza nome proprio, di maschere plurali o di nomi plurali che non possono essere messi davanti, come qualsiasi maschera e qualsiasi teoria della maschera, se non riportando sempre un beneficio di protezione in cui si riconosce l’astuzia della vita. Bisogna leggerlo a partire dal momento in cui egli dice (a partire dal momento finale in cui dice) Ecce Homo, «Wie man wird, was man ist, come si diviene ciò che si è»2 e da questa prefazione a Ecce Homo, della quale si può dire che si estende a tutta l’opera, al punto che tutta l’opera di Nietzsche è anche la prefazione di Ecce Homo e si trova ripetuta in ciò che si chiama in senso stretto la prefazione (qualche pagina) a Ecce Homo. Ne ricordo le prime parole:
Poiché prevedo che fra breve dovrò presentarmi all’umanità per metterla di fronte alla più grave esigenza che mai le sia stata posta, mi sembra indispensabile dire chi io sono [wer bin ich]. In fondo potrebbe essere già noto: perché non ho mancato di dare prove della mia esistenza. Ma la sproporzione tra la grandezza del mio compito e la piccolezza dei miei contemporanei si è dimostrata nel fatto che questi non mi ascoltano, e neppure mi vedono. Vivo a mio proprio credito [Vado vivendo a mio proprio credito, sul credito che mi accordo: Ich lebe auf meinen eignen Kredit hin], o forse è un pregiudizio (vielleicht bloss ein Vorurteil) che io viva (dass ich leben)?3
Detto altrimenti, la sua identità, quella che dichiara, che vuole dichiarare, e che non ha niente a che vedere, che è senza proporzione con ciò che i contemporanei sanno di lui, di ciò che è a suo nome, Friedrich Nietzsche, la sua identità non la detiene per un contratto con i suoi contemporanei ma per il contratto inaudito che ha sottoscritto con se stesso, con il quale si è indebitato con se stesso (auf meinen eignen Kredit), credito infinito e che è senza rapporto con ciò che i contemporanei gli hanno aperto o rifiutato sotto questo nome di Friedrich Nietzsche. Friedrich Nietzsche è dunque già un nome falso, uno pseudonimo omonimo, l’omonimo che così dissimula, come farebbe lo pseudonimo, l’altro Friedrich Nietzsche; e questa pseudonimia, legata a queste strane questioni di contratto, di debito e di credito, ci obbliga già a diffidare quando leggiamo la firma, l’autografo di Nietzsche e ogni volta che egli dice: io, sottoscritto, Friedrich Nietzsche. Il credito, il grande credito che ha aperto con se stesso, a suo nome, ma dunque necessariamente a nome di un altro, egli non sa mai, al presente, e nemmeno nel presente di Ecce Homo, se sarà mai onorato. E questo perché, se la vita che vive e che si racconta come la sua auto-biografia non è innanzitutto la sua vita se non come effetto di un contratto segreto, di un credito aperto, di un indebitamento o di un’alleanza o di un anello, allora egli può dire, fintanto che il contratto non sarà stato onorato – ma non può esserlo se non dall’altro – che la sua vita forse non è nient’altro che un pregiudizio «es ist vielleicht ein Vorurteil, dass ich ...