Religione e potere
eBook - ePub

Religione e potere

L'opportunità che diviene tentazione

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Religione e potere

L'opportunità che diviene tentazione

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Il volume raccoglie i contributi relativi all'ottavo Seminario internazionale organizzato nel novembre 2017 dall'Archivio «Julien Ries» per l'antropologia simbolica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, dedicato al tema Religione e Potere. L'opportunità che diviene tentazione. La religione può essere definita come un sistema di pratiche identificabili con narrazioni e celebrazioni, cioè miti e riti. In quanto sistema, essa si configura necessariamente come prescrittiva: la sua normatività dovrebbe essere al servizio dell'uomo, favorendolo nel coltivare la dimensione del rapporto con Dio. È accaduto e accade, tuttavia, che l'aspetto prescrittivo tenda a prendere il sopravvento, con l'esito di trasformare la religione, che è al servizio di Dío e degli uomini, in uno strumento che sí serve di Dio per dominare gli uomini.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Religione e potere di Silvano Petrosino in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teologia e religione e Teologia cristiana. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800724

«UBBIDITE A DIO E AL SUO MESSAGGERO». AUTORITÀ E POTERE NELL’ISLAM

di Michele Brignone e Martino Diez*
Lā hawla wa lā quwwata illā bi-’llāh («Non c’è potenza né forza se non in Dio»). Tradizionalmente utilizzata dai musulmani arabofoni come giaculatoria, la formula sintetizza un aspetto distintivo della fede islamica: la divinità come fonte talmente esclusiva del potere da escludere l’umanità dal suo esercizio.
Di fronte a una concezione tanto radicale del monoteismo, non sorprende che i grandi dibattiti teologici dei primi secoli dell’Islam siano ruotati intorno al problema del rapporto tra l’onnipotenza divina e il potere finito dell’uomo. Paradigmatico è il caso del libero arbitrio, uno dei temi più presenti nella riflessione islamica delle origini. Su questa domanda si confrontarono due grandi orientamenti: secondo il primo, la libertà che l’uomo sperimenta è di fatto un’illusione, perché sia gli atti che egli compie che il suo destino sono predeterminati. Per il secondo, l’uomo è invece libero in forza di un potere autonomo assegnatogli da Dio. Alla fine prevalse una soluzione di compromesso, che mirava a tenere in equilibrio libertà umana e onnipotenza divina, ma che finì per decretare il primato della seconda sulla prima1.

La grande sedizione

Ma è sulla rappresentazione terrena della potestà divina, e quindi sulla questione dell’autorità politica e della guida della comunità islamica, che i musulmani si divisero in maniera più drammatica, fino alla grande spaccatura tra sunniti e sciiti. Finché era in vita Muhammad, considerato «sigillo della profezia», le modalità di esercizio dell’autorità all’interno della comunità islamica erano piuttosto chiare. In quanto depositario della rivelazione, il profeta rappresentava l’unico tramite infallibile tra Dio e l’uomo, e in virtù di questo legame gli era riconosciuta una funzione di guida sia negli affari che riguardavano la fede e il culto, sia, dopo il trasferimento dei musulmani a Medina nel 622, nelle questioni politiche. Un versetto del Corano vi associa peraltro un gruppo non ulteriormente precisato di personalità autorevoli: «O voi che credete! Obbedite a Dio, al Suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità» (4,59). In realtà, il potere di cui Muhammad era investito non proveniva solamente dall’alto, ma originava anche dagli accordi che le tribù avevano concluso con lui su base volontaria. Tuttavia, anche in questo caso era il suo particolare carisma ad assegnargli un primato nella gestione degli affari terreni.
La situazione cambiò radicalmente con la morte di Muhammad nel 632, quando si pose il problema di sostituirlo alla guida della comunità. La questione era complicata dal fatto che la rivelazione non era particolarmente esplicita né sui criteri di scelta del successore di Muhammad, né sull’esercizio del potere in sua assenza, limitandosi ad enucleare alcuni principi molto generali: una funzione vicariale dell’uomo rispetto a Dio (Cor. 2,30 e 38,2), l’obbligo, come abbiamo visto, di obbedire «a Dio, al suo profeta e a coloro che detengono l’autorità», e infine il dovere per questi ultimi di consultarsi prima di prendere una decisione (per esempio Cor. 3,159)2.
Benché già con l’elezione di Abū Bakr affiorassero le prime divergenze, fu la figura del terzo successore di Muhammad, ‘Uthmān, assassinato nel 656, a spaccare in due la comunità islamica (umma). Una parte giustificò l’uccisione di ‘Uthmān, sovrano ingiusto e colpevole di aver governato secondo una logica troppo fedele ai vecchi principi dell’appartenenza tribale. Un’altra porzione della comunità ritenne invece che ‘Uthmān fosse stato vittima di un’ingiustizia e che la sua uccisione fosse perciò un crimine. Sulla scia dell’omicidio di ‘Uthmān venne eletto ‘Alī, il quale, sin dalla morte di Muhammad, si riteneva chiamato a succedere al profeta in quanto suo cugino e genero oltreché convertito della prima ora. L’elezione di ‘Alī non sanò la frattura verificatasi nella umma e anzi contribuì a trasformarla in una vera e propria guerra civile. Fra gli oppositori di ‘Alī figurava Mu‘āwiya, cugino di ‘Uthmān, che rifiutò di prestare atto di sottomissione al nuovo califfo. I partigiani di ‘Alī e quelli di ‘Uthmān si scontrarono sul campo di battaglia di Siffīn in Siria (657), dove decisero di ricorrere a un arbitrato. L’arbitrato non solo non servì a ricomporre la spaccatura, ma determinò la formazione di un’ulteriore fazione, quella dei kharijiti, i quali, inizialmente schierati con ‘Alī, videro nell’accettazione dell’arbitrato da parte di quest’ultimo il tradimento del principio per cui il giudizio spetta solo a Dio (lā hukma illā li-’llāh).
Quando ad ‘Alī, assassinato nel 661, successe Mu‘āwiya, la divisione della umma divenne irreversibile. Nel 680 riesplose la guerra civile, che culminò nel massacro del figlio di ‘Alī, Husayn, a Kerbala. Questo travagliato periodo è noto nella tradizione islamica con il nome di alfitna al kubrā («la grande sedizione, la grande prova»), in seguito alla quale la comunità islamica non sarebbe più riuscita a recuperare la propria unità.

LA DIARCHIA SUNNITA E QUEL CHE NE È SEGUITO

1. Dal potere del califfo all’autorità degli ulema

La fase che si conclude con la morte di ‘Alī non segna soltanto l’inizio di quella che sarebbe diventata la frattura tra sunniti e sciiti. Per i sunniti questo periodo rappresenta anche l’epoca dei «califfi ben guidati», i successori di Muhammad che esercitarono il proprio potere in conformità con la legge divina. Dopo di loro inizierebbe invece una fase di decadenza, incarnata dalla dinastia omayyade fondata da Mu‘āwiya. Secondo questa prospettiva, i califfi omayyadi, con poche eccezioni, non governarono come guide legittime (imām), ma come re (mulūk), una qualificazione che può essere legittimamente attribuita soltanto a Dio3 e che, se applicata agli uomini, rimanda all’empietà della monarchia preislamica. La tracotanza degli omayyadi è simboleggiata, secondo giuristi e storiografi sunniti, dalla loro scelta di dichiararsi «vicari di Dio» (khalīfat Allāh) – un titolo che suggerisce una comprensione divina della regalità – e non semplicemente «vicari dell’inviato di Dio» (khalīfat Rasūl Allāh), come con più modestia avevano fatto i primi successori di Muhammad. In realtà, è probabile che si tratti qui di un anacronismo: verosimilmente già i califfi «ben guidati» si fregiarono del titolo di «vicari di Dio», dal momento che, come afferma Patricia Crone, per le prime generazioni di musulmani l’imam non era soltanto un leader politico, ma una fonte imprescindibile di legittimità della umma e, come vedremo trattando dello Sciismo, una figura dai tratti salvifici4.
L’insistenza degli ulema (‘ulamā’) sunniti sul califfo come vicario di Muhammad, e dunque sul ridimensionamento del suo potere a una funzione di mera custodia dei contenuti della rivelazione, è conseguenza di un’evoluzione nella concezione dell’autorità. Essa si andò progressivamente trasferendo dalla persona dell’imam al corpus delle scritture rivelate. La dottrina dell’imamato fu infatti elaborata tra il X e l’XI secolo, quando, oltre al Corano, era stata fissata anche la tradizione profetica (la Sunna), e con essa i capisaldi della metodologia giuridica.
L’elaborazione teologico-giuridica sulla figura del califfo rispondeva in particolare a due necessità: da un lato produrre una visione sunnita in un momento in cui i movimenti sciiti erano in forte ascesa e sembravano sul punto di imporsi in ampie parti dell’ecumene islamica; dall’altro riaffermare le prerogative e i requisiti necessari all’assunzione dell’imamato in una fase in cui la dinastia abbaside, che nel 750 aveva preso il posto degli omayyadi, si trovava in uno stato di crisi ed era stata di fatto esautorata dal potere.
Una definizione classica dell’imamato si trova nell’opera di Abū al-Hasan al-Māwardī (m. 1058), il primo a trattare sistematicamente questa istituzione dal punto di vista giuridico: «L’imamato – scrive Māwardī – è istituito per supplire (khilāfa) alla profezia nella salvaguardia della religione (hirāsat al-dīn) e nella gestione degli affari terreni (siyāsat al-dunyā5. Essa non è solo un’esigenza della ragione, ma una necessità imposta dalla sharī‘a6. Proprio perché l’imamato è regolato dalla legge religiosa, l’imam è legittimo se soddisfa una serie di condizioni ed è in grado di assolvere a un certo numero di compiti7. In realtà, nello stato di decadenza in cui si trovava il califfato all’epoca di Māwardī, nessun califfo era in grado di soddisfare tutti i requisiti imposti da un quadro giuridico tanto impegnativo. Ma soprattutto, anche se i califfi continuavano a occupare nominalmente il loro incarico, essi non esercitavano più alcun potere effettivo. Questo, almeno nella sua dimensione politico-amministrativa, era stato infatti assunto da numerose dinastie di emiri. Māwardī risolve questo problema considerando tutti i poteri locali come potenziali governatori del califfo e, per legittimarne la funzione, elabora l’istituto dell’emirato per usurpazione (imārat al-istīlā’)8. I governatori potrebbero cioè ottenere il potere in due modi: per nomina o per usurpazione. Nel secondo caso, per salvaguardare l’unità della umma, è bene, secondo Māwardī, regolarizzare la posizione degli usurpatori procedendo a una legalizzazione a posteriori dei governatori che assumono il potere con la forza.
Un problema simile emerse pochi decenni più tardi con l’avanzata della dinastia turca dei selgiuchidi, tanto più che questi non si limitarono a inserirsi nelle strutture del califfato abbaside come governatori, ma assunsero la guida politica della umma, spingendosi a rovesciare il rapporto di dipendenza dal califfo, visto non più come origine effettiva del potere, ma come figura simbolica nominata dal sultano. È su questo particolare contesto che riflette al-Ghazālī (m. 1111). Al pari di al-Māwardī e del suo maestro al-Juwaynī, al-Ghazālī ritiene che i musulmani non possano vivere senza un imam, perché questo li condannerebbe alla disunità e al conflitto. Ma per salvaguardare, con l’istituzione califfale, l’unità della umma, il grande teologo è costretto a ridimensionare ulteriormente il potere e i criteri di legittimità dell’imam supremo.
In particolare, al-Ghazālī afferma che lo stato di necessità consente di sospendere temporaneamente la soddisfazione di tutti i requisiti di legittimità dell’imam. Inoltre, non è necessario che il califfo disponga personalmente della capacità coercitiva (shawka), perché questa può essere delegata ad altri. Tuttavia la sua presenza rimane indispensabile per garantire la validità della umma e delle sue istituzioni. In questo modo al-Ghazālī ratifica la separazione tra il potere-autorità del califfo e il potere-forza del sultano o dell’emiro, riconoscendo allo stesso tempo la «scomposizione» della comunità islamica universale in due diversi tipi di comunità: quella religiosa (umma) e quella politica (il regno, il sultanato, l’emirato), la cui estensione non coincide più con l’estensione della comunità dei credenti. A questo proposito Brague ha scritto che, «contrariamente a una leggenda tenace in Occidente, l’Islam ha dunque conosciuto una separazione del politico e del religioso. Ma tale separazione fu un prodotto raggiunto gradualmente sotto il peso delle circostanze storiche. È una separazione iscritta nei fatti e non nelle idee, dal momento che nell’Islam niente corrisponde alla separazione tra spirituale e temporale»9.
In realtà, «il peso delle circostanze storiche» costrinse gli ulema a confrontarsi anche dal punto di vista teorico con la realtà di una progressiva differenziazione tra il potere politico e l’autorità religiosa. È quanto fece per esempio Ibn Taymiyya (m. 1358), il quale non dovette misurarsi soltanto con la crisi del califfato abbaside, ma con la sua estinzi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Introduzione
  6. Religione e potere. Ragioni e rischi di una contaminazione necessaria
  7. La forza del sacro sulla mente. L’apriori religioso di R. Otto come modulo mentale
  8. Cristianesimo e poteri. La prospettiva teologica
  9. Tra Cesare e Dio: il potere nel Regno di Cristo
  10. Religioni e radicalismi violenti. Stereotipi e antidoti
  11. La magia come tecnica del potere e il magic turn della politica globale
  12. Chiesa e Impero in Russia: la tentazione del potere
  13. La nuova sinfonia: il trono e l’altare nella Russia post-comunista
  14. La religione come strumento del potere politico nell’India medievale e moderna
  15. Religione e potere in Asia. I casi di India e Cina
  16. «Ubbidite a Dio e al Suo Messaggero». Autorità e potere nell’Islam
  17. Gli Autori