Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia
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Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia

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Pronunciato nel 1980, durante la prima decade di studi di Cerisy-la-Salle dedicata al suo lavoro, questo testo di Jacques Derrida è, a un tempo, una riflessione su quanto compiuto e un'anticipazione di quanto, all'epoca, era ancora a venire, a partire dalla questione del tono in filosofia: tono che è da subito appello, ingiunzione, indirizzo verso quell' altro irriducibile e inappropriabile ma, per questo, necessario: «Sarete forse tentati di chiamare questo il disastro, la catastrofe, l'apocalisse. Ora in realtà si annuncia qui, promessa o minaccia, un'apocalisse senza apocalisse, un'apocalisse senza visione, senza verità, senza rivelazione, degli invii (perché il "vieni" è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senza altra escatologia che il tono del "Vieni", la sua stessa differænza, un'apocalisse al di là del bene e del male. "Vieni" non annuncia tale o talaltra apocalisse: risuona già con un certo tono, è in se stesso l'apocalisse dell'apocalisse, Vieni è apocalittico».

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816802476

DI UN TONO APOCALITTICO
adottato di recente in filosofia
*

Parlerò dunque di un tono apocalittico in filosofia.
I Settanta ci hanno trasmesso una traduzione di galah. La si chiama l’Apocalisse.
In greco, apokalypsis tradurrebbe delle parole derivate dal verbo ebraico galah. Mi riferisco qui, senza autorizzarmene, a delle indicazioni di André Chouraqui sulle quali ritornerò. Ma devo anticiparle fin d’ora: le vicende o gli enigmi di traduzione di cui intendo parlare e nei quali resterei impacciato per ragioni più serie che la mia incompetenza, li ritengo senza via d’uscita.
Questo sarà il mio tema, più che un tema, un compito (Aufgabe des Übersetzers, giusto richiamo a Benjamin) da cui non mi dispenserò.
Jean Ricardou mi ha chiesto l’altro giorno, stavamo parlando di traduzione, di dire qualcosa di più su ciò che avevo abbozzato su una grazia al di là del dovere, grazia del lavoro ma senza di esso. Parlavo in quel momento di un dono che «c’è» (es gibt), ma che soprattutto non va meritato, in fin dei conti, nella responsabilità. Bisogna tradurre e non tradurre. Penso al double-bind di YHWH, quando, con il nome che si sceglie, si potrebbe dire con il suo nome, Babele, dà da tradurre e da non tradurre. E nessuno per sempre, da allora, si sottrarrà alla doppia postulazione.
Ebbene, a Jean Ricardou risponderò così, e lo farò sotto forma di ringraziamento ellittico per ciò che qui mi è dato, dato da pensare e semplicemente dato al di là del pensabile, cioè – si direbbe in tedesco – al di là di ogni memoria e di qualche ringraziamento dato dai nostri ospiti di Cerisy, da Philippe Lacoue-Labarthe e da Jean-Luc Nancy, da voi tutti con tanto lavoro e tanta grazia, tanta grazia nel lavoro: alla prova della traduzione la grazia sarebbe forse quando la scrittura dell’altro vi assolve, a momenti, dal double bind infinito e innanzitutto, tale è la condizione di dono, se ne assolve, se ne libera, se ne alleggerisce o si dichiara innocente, essa, la lingua di scrittura, e questa traccia data che viene sempre dall’altro, anche se non c’è. Dichiararsi innocente del dono, del dono donato, del donare stesso, è la grazia che io vi riconosco ora e che in ogni caso vi auguro. Essa è sempre improbabile, non se ne fa mai la prova. Ma non bisogna credere che accada? Forse era questo, ieri, la credenza stessa. Altro modo di dire: per quanto mi avete dato in questi dieci giorni io non vi ringrazio soltanto, io vi perdono. Ma chi può darsi il diritto di perdonare? Diciamo che per voi io chiedo il perdono, a voi stessi per voi stessi.
Apokalyptō fu probabilmente un termine appropriato per galah. Apokalyptō, io scopro, io svelo, io rivelo la cosa che può essere una parte del corpo, la testa o gli occhi, una parte segreta, il sesso o qualunque cosa sia nascosta, un segreto, la cosa da dissimulare, una cosa che non si mostra né si dice, forse si esprime ma non può o non deve essere esposta di primo acchito all’evidenza. Apokekalymmenoi logoi, sono discorsi indecenti. Ne va dunque del segreto e delle pudenda.
La lingua greca si mostra qui ospitale verso il galah ebraico. Come rammenta André Chouraqui nel suo breve Liminaire pour l’Apocalypse giovannea di cui ha proposto di recente una nuova traduzione1, la parola galah ricorre più di cento volte nella Bibbia ebraica. E sembra esprimere in effetti l’apokalypsis, lo scoprimento, lo svelamento, il velo sollevato sulla cosa: innanzitutto, se così si può dire, il sesso dell’uomo o della donna, ma anche gli occhi o le orecchie. Chouraqui precisa che «si scopre l’orecchio di qualcuno sollevando i capelli o il velo che lo copre per sussurrarvi un segreto, una parola così nascosta come il sesso di una persona. YHWH può essere l’agente di questo scoprimento. Il braccio o la gloria di YHWH possono scoprirsi allo sguardo o all’orecchio dell’uomo. In nessun caso la parola apocalisse, conclude il traduttore riferendosi qui tanto al greco che all’ebraico, ha dunque il senso che ha finito per assumere in francese e in altre lingue: temibile catastrofe. Così l’Apocalisse è essenzialmente una contemplazione (hazōn) [e infatti Chouraqui traduce ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare l’Apocalisse di Giovanni con Contemplazione di Yohanan] o una ispirazione (nebua) alla vista, allo scoprimento di YHWH e, qui, di Yeshua il Messia».
Sarebbe stato forse necessario, e per un istante ci ho pensato, levare o anche rilevare tutti i sensi che si assiepano intorno al galah ebraico, di fronte alle colonne o ai colossi della Grecia, di fronte alla galattica sotto tutte le vie lattee, i milky ways la cui costellazione mi aveva di recente affascinato. Curiosamente sarebbero stati riscontrati significati come quelli di pietra, di rulli di pietra, di cilindro, di rotoli di pergamene e di libri, di rotoli che avvolgono o rivestono, ma soprattutto, ed è qui che mi soffermo per il momento, l’idea di messa a nudo, di svelamento precisamente apocalittico, di scoprimento che lascia vedere ciò che fino a quel momento restava avvolto, ritirato, riservato, per esempio il corpo quando si leva il vestito o il glande quando nella circoncisione si leva il prepuzio. E ciò che sembra più degno di nota in tutti gli esempi biblici che ho potuto ritrovare e che devo rinunciare a esporre qui, è che il gesto di denudare o di dare a vedere, il movimento apocalittico è qui più grave, a volte più colpevole e più pericoloso di ciò che ne segue e di ciò a cui può dar luogo, per esempio l’accoppiamento. Così quando, in Genesi (9, 21), Noè si ubriaca e si scopre nella sua tenda, Cam vede il sesso di suo padre e i suoi due fratelli, a cui lo dice, vengono a rivestire Noè voltandosi per non vedere il suo sesso. Qui lo svelamento non è ancora il momento più colpevole di un accoppiamento. Ma quando YHWH parlando a Mosè proclama un certo numero di divieti sessuali, sembra proprio che la colpa consista essenzialmente nello svelamento che dà a vedere. Così, nel Levitico (20, 11; 17): «L’uomo che si corica con la donna di suo padre / ha scoperto il sesso di suo padre. / I due sono messi a morte […]. / L’uomo che prende sua sorella, / figlia di suo padre o figlia di sua madre, / egli vede il suo sesso, / ella vede il suo sesso: / è un incesto». Ma la gravità terrificante e sacra di questo scoprimento apocalittico non è minore, beninteso, quando si tratta del braccio di YHWH, della sua gloria o delle orecchie che si aprono alla sua rivelazione. E lo scoprimento non apre solamente alla visione o alla contemplazione, non dà solamente a vedere, ma anche a intendere.
Rinuncio per il momento a interpretare tutti i riscontri fra il galah e l’apocalittico, l’ebraico e il greco. Questi riscontri sono numerosi e potenti, sostengono un grande concerto di traduzioni anche se non escludono dissonanze, scarti o tradimenti.
Per lasciarli risuonare da soli, ho scelto di parlarvi piuttosto di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia. Senza dubbio ho voluto così mimare secondo la citazione ma anche trasformare in genere, e poi parodiare, spostare, deformare il titolo ben conosciuto di un opuscolo forse meno ben conosciuto di Kant, Von einem neuerdings erhobenen Vornehmen Ton in der Philosophie (1796). Traduzione adottata: D’un ton grand seigneur adopté naguère en philosophie (L. Guillermit, Vrin, Paris 1975). Che cosa succede a un titolo quando gli si fa subire questo trattamento? Quando esso comincia così ad assomigliare alla categoria di un genere, in tal caso di un genere che arriva a beffare quelli che si danno un genere?
Facendo questa scelta ho desiderato venire incontro a coloro che, in uno dei seminari di questa decade, hanno giustamente organizzato il loro lavoro privilegiando il riferimento a tale cesura kantiana nel tempo della filosofia.
Ma mi sono anche lasciato sedurre da un’altra cosa. L’attenzione al tono, che non è soltanto lo stile, mi sembra abbastanza rara. Si è studiato poco il tono per sé stesso, ammettendo che ciò sia possibile e che sia mai stato fatto. I segni distintivi di un tono sono difficili da isolare, se pure esistono in tutta purezza, cosa di cui dubito, soprattutto in un discorso scritto. Come si definisce un tono, un cambiamento o una rottura di tono? Come riconoscere una differenza tonale all’interno di uno stesso corpus? A quali tratti affidarsi per analizzarlo, a quale riferimento che non sia né stilistico, né retorico, né evidentemente tematico o semantico? L’estrema difficoltà di tale questione, anzi di tale compito, si accusa ancora quando si tratta di filosofia. Il sogno o l’ideale del discorso filosofico, dell’allocuzione filosofica e dello scritto che è ritenuto rappresentarla, non è rendere la differenza tonale inudibile, e con essa tutto un desiderio, un affetto o una scena che lavorano il concetto di contrabbando? La neutralità o almeno la serenità imperturbabile che deve accompagnare il rapporto col vero e l’universale, il discorso filosofico deve garantirli anche attraverso ciò che si chiama la neutralità del tono. Allora, ascoltare o scoprire il tono di un filosofo o piuttosto, questa precisazione è importante, del sedicente o del preteso filosofo, sarà possibile?
E se ce lo si promettesse, non ci si impegnerebbe a mettere in rilievo tutti i tratti che in un corpus non sono ancora o non sono più filosofici, tutti gli scarti sgradevoli rispetto alla norma atonale dell’allocuzione filosofica?
Di fatto, se Kant ha avuto l’audacia, molto singolare nella storia, di occuparsi sistematicamente di un certo tono in filosofia, è necessario sfumare subito l’elogio che si vorrebbe farne. Innanzitutto, non è certo che egli tenga o pervenga ad analizzare il fenomeno puro di una tonalità, lo verificheremo. Poi egli analizza meno un tono in filosofia di quanto non denunci una maniera di darsi delle arie; ora è una maniera o un manierismo che precisamente non gli sembra un gran bon ton in filosofia, e che segna dunque già uno scarto rispetto alla norma del discorso filosofico. Più gravemente, è interessato a un tono che annuncia qualcosa come la morte della filosofia.
Il termine è di Kant e compare due volte in questo pamphlet di venti pagine; ogni volta questa morte è associata all’idea di una rivelazione soprannaturale, di una visione che provoca un’esaltazione mistica o per lo meno un atteggiamento da visionario. La prima volta si tratta di una «comunicazione soprannaturale» o di una «illuminazione mistica» (übernatürliche Mitteilung, mystische Erleuchtung) che promette un sostituto o un supplemento, un surrogato di oggetto conoscibile, «cosa che è allora la morte di ogni filosofia (der Tod aller Philosophie)». E verso la fine, Kant mette in guardia contro il pericolo di una «visione esaltata» (schwärmerische Vision) «che è la morte di ogni filosofia» (ancora una volta «der Tod aller Philosophie»).
Il discorso di Kant è dunque contrassegnato dal tono che si dà, dagli effetti che cerca, dalla sua verve polemica o satirica. È una critica sociale e le sue premesse hanno un carattere propriamente politico. Ma se egli deride un tono che annuncia la morte di ogni filosofia, non è il tono in sé stesso a ritrovarsi schernito. D’altronde, che cos’è il tono stesso? È qualcos’altro che una distinzione, una differenza tonale che rinvia ormai solo in modo figurato a un codice sociale, a dei costumi di gruppo o di casta, a delle condotte di classe, attraverso un gran numero di collegamenti che non hanno più nulla a che fare con l’altezza della voce o del timbro? Benché, come suggerivo proprio ora, la differenza tonale non risulti come essenzialmente filosofica, per Kant non è il fatto che vi sia del tono, una marca tonale, che annuncia da solo la morte della filosofia. È un certo tono, una certa inflessione socialmente codificata per dire tale o talaltra cosa determinata. L’altezza di tono che egli sotterra con i suoi sarcasmi resta un’altezza metaforica. Queste persone parlano con tono elevato, questi altoparlanti alzano la voce ma non lo si dice che per figura e in riferimento a dei segni sociali. Kant non fa mai astrazione dal contenuto. Tuttavia, il fatto è lungi dall’essere insignificante, la prima volta che un filosofo prende la parola sul tono di altri sedicenti filosofi, allorché inaugura questo tema e lo nomina nel suo stesso titolo, è per spaventarsi o indignarsi davanti alla morte della filosofia. Egli mette sotto accusa coloro che, per il tono che assumono e l’aria che si danno al momento di dire certe cose, mettono la filosofia in pericolo di morte e dicono alla filosofia o ai filosofi l’imminenza della loro fine. L’imminenza qui non importa meno della fine. La fine è prossima, sembrano dire, il che non esclude che essa abbia già avuto luogo, un po’ come nell’Apocalisse di Giovanni l’imminenza della fine o del giudizio finale non esclude un certo «sei morto», «vigila!» la cui ingiunzione segue da vicino l’allusione a una «seconda morte» che non aspetterà il vincitore.
Kant è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono qualche beneficio, ed ecco quanto mi interesserà innanzitutto.
Quale beneficio? Quale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono fare paura? Vogliono far piacere? A chi e come? Vogliono terrorizzare? Far cantare? Attirare in nuove promesse di godimento? È contraddittorio? In vista di quali interessi, a quali fini vogliono arrivare con queste proclamazioni accese sulla fine imminente o sulla fine già avvenuta? È un po’ di questo che volevo parlarvi oggi: di un certo tono e di ciò che accade alla filosofia come sua morte, del rapporto tra questo tono, questa morte e il beneficio apparentemente calcolato di questa mistagogia escatologica. L’escatologico dice l’eschaton, la fine, o piuttosto l’estremo, il limite, il termine, l’ultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia, una genealogia o semplicemente una serie numerabile.
Dei mistagoghi, ecco il termine e il capo d’accusa di Kant. Prima di arrivare al mio discorso, estrarrò alcuni tratti paradigmatici nella requisitoria di Kant, paradigmatici e contro-paradigmatici perché forse, ripetendo ciò che eg...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Effrazioni
  6. D’UN TON APOCALYPTIQUE ADOPTÉ NAGUÈRE EN PHILOSOPHIE
  7. DI UN TONO APOCALITTICO ADOTTATO DI RECENTE IN FILOSOFIA