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Teatro e conoscenza

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«Nell'antico teatro indiano una semplice tenda separava il pubblico dagli attori. Da tempo immemorabile questa magica soglia trasmette il segreto della origine dei saperi e della generale condizione umana sulla Terra. Ben oltre una valutazione meramente estetica, Antonio Attisani e Carlo Sini si interrogano sul senso e sul destino del fenomeno teatrale, nella sua poliedrica tradizione culturale originaria e nella grande rivoluzione del teatro novecentesco, tuttora in pieno svolgimento. Una rivoluzione al tempo stesso poetica, antropologica, conoscitiva e filosofica, nella quale gli specialismi moderni aspirano a ritrovare l'unità profonda delle antiche e sempre nuove arti dinamiche della sapienza umana.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2021
ISBN
9788816802735

LA TENDA
TEATRO E CONOSCENZA

Sini: Teatro e conoscenza: due universi che non molti sono disposti ad avvicinare o a confrontare seriamente. Di mezzo c’è la grande questione dell’“estetica”, a partire dal mondo antico e da Aristotele, e poi anche dal Rinascimento e in certo modo ancora sino a noi. Galileo diceva per esempio che l’ultima cosa che importa in ciò che dice un poeta è che quel che il poeta dice sia vero. In tal modo Galileo rispecchiava, agli esordi della scienza moderna, la mentalità (tuttora attuale) nata dalla decisione di ridurre l’arte nella “riserva” della “poetica” e del “verosimile”; essa veniva in tal modo affrancata dalla condanna platonica, che intendeva in larga misura espellere gli artisti e i loro “disordini” dalla città, rinnovando quella “antica inimicizia” che, in Occidente, avrebbe opposto da sempre poesia e filosofia, performance artistica e sapere.
Ho sotto gli occhi il tuo libro L’arte e il sapere dell’attore. Idee e figure, Accademia University Press, Torino 2015, un libro che, come sai, mi è molto caro e che riprende tanta parte del tuo lavoro e del tuo cammino di pensiero. Il suo terzo capitolo (“Attori del divenire. Aristotele e i nuovi profili della mimesi”) rovescia completamente le interpretazioni tradizionali della Poetica, giovandosi anche della preziosa interpretazione innovatrice di Pierluigi Donini (“Introduzione” a Aristotele, Poetica, Einaudi, Torino 2008). Tenendo ferma l’efficace immagine “attori del divenire”, su cui penso che torneremo, ricordo un tuo passaggio a p. 67: «In sostanza la tesi che qui si propone è che le avanguardie del Novecento e le esperienze cui si farà riferimento ripropongano, al di là di tutte le apparenze e della loro stessa pronuncia ideologica, una tensione neodrammatica. Nell’ambito della neodrammatica, però, mentre si riscopre l’attualità di alcuni capitoli della Poetica “rivisitata”, si prefigurano inedite direzioni di sviluppo che impongono infine di congedarsi da Aristotele per delineare una filosofia fisica (una filofisica, potemmo dire, che unifichi il movimento della praxis e del pensiero in senso non teleologico) dell’arte scenica, di cui oggi si avverte così fortemente il bisogno».
L’espressione “filosofia fisica” si pone immediatamente in conflitto, non certo con il lavoro reale degli scienziati e dei fisici, ma con la mentalità ideologica e superstiziosa con cui si è soliti raccontarlo e figurarselo, accompagnata da quella parcellizzazione dei saperi che, come sai, è un problema al centro del progetto di ricerca di Mechrí, di cui sei parte attiva tu stesso. La filosofia fisica, potremmo dire, è a suo modo un’arte dinamica, un’arte della praxis: «Con l’espressione “arti dinamiche” ci riferiamo, in generale, al complesso delle pratiche nelle quali si genera conoscenza mediante l’azione, pratiche anche molto differenti fra loro, ma accomunate da una natura eminentemente ritmico-musicale (il ritmo come struttura dell’azione) e da una intenzione formativa e sapienziale» (Florinda Cambria, in AA.VV., Vita, conoscenza, Mappe del pensiero relative al lavoro annuale della associazione Mechrí/ Laboratorio di filosofia e cultura, cap. II: “Ancora teatro?”, Jaca Book, Milano 2018, p. 143).
Generare conoscenza mediante l’azione… Questo giro di immagini e di pensieri mi rinvia infine al IV capitolo dell’Arte e il sapere dell’attore: “La singolarità francescana”. Nel suo esergo, con le parole di Ernst Curtius, ricordi a tua volta la contesa tra filosofia e poesia. In essa alla filosofia rimane sempre l’ultima parola, qui si dice, perché la poesia, forte della propria saggezza, non si cura di una replica finale. Perciò mi preparo sin d’ora alla vacuità conclusiva della mia cosiddetta eloquenza “razionale” e ricordo invece che proprio nel segno di Francesco iniziò la nostra attiva e per me molto proficua collaborazione. Essa, con altri amici, è testimoniata dallo straordinario (in tutti i sensi) libro collettaneo La vita povera. Album della Piccola Accademia (Accademia University Press, Torino 2015). Partivamo allora dal tuo libro Logiche della performance. Dalla singolarità francescana alla nuova mimesi (Accademia University Press, Torino 2012). Vi ragionavi, con Massimo Cacciari, del “tradimento” storico di Francesco e leggevi la sua predicazione come un vero e proprio “teatro” vivente, lontanissimo dal successivo teatro letterario del Rinascimento e dalla principale linea storica del teatro occidentale. Qualcosa che da un lato evocava altri teatri e tempi di altre culture non europee e che, nel contempo, di nuovo suggeriva analogie con la rivoluzione teatrale novecentesca.
Dopo questa premessa, credo necessaria per il lettore, ti chiedo anzitutto di correggere il tiro, se ciò che ho ricordato non è preciso o adeguato, e poi, se vuoi, di cominciare ad affrontare un nodo molto significativo. Lo ricordi all’inizio dell’Arte e il sapere dell’attore (“Io è un teatro: Un manifesto al passato”): «Ogni tempo avviene in un tempo e una storia precisi. Se il pan-teismo consiste nel percepire la presenza di Dio in tutte le cose, il pan-teatralismo, uno dei sentimenti caratterizzanti il nostro tempo, consiste nel vedere il teatro dappertutto, magari chiamandolo performance. E tuttavia, se è pur vero che la mimesi non si può distinguere dalla natura umana, ciò non significa che tutto sia teatro, anzi, il lavoro del professionista dovrebbe consistere nella conquista di questa consapevolezza e nella realizzazione di questo passaggio, vale a dire nel saper praticare ciò che unisce e al tempo stesso separa il teatro dalla vita. Dopo di che si può convenire che ogni creazione interpretante è una definizione del teatro» (p. 9). Il medesimo direi senz’altro della filosofia, come io la intendo; resta però da vedere il “come”.
Attisani: «Generare conoscenza mediante l’azione…». Riprendo il tema interrotto, l’adagio dal seguito imprevedibile. Mi interessa ciò che ne dirai. Annoto intanto che accostare questa idea al teatro è cosa lontanissima dal senso comune, dove esso è inteso piuttosto come illustrazione e trasmissione di idee, dibattito ideologico, fotografia di eventi verosimili e perciò attuali, didattica più o meno travestita o dimidiata e così via. Il catalogo dei riduzionismi ne conta mille e tre. D’altra parte, è ciò che ho sempre pensato, fin dall’inizio della mia vita precedente nel “teatro fatto” (1968-1992), qualcosa che andavo esponendo nella mia lingua somara. In Teatro come differenza (Feltrinelli 1978: “differenza” tra progetti ideologici e ciò che effettivamente l’attore mette in segno di sé stesso nel transito di fronte al pubblico) chiudevo opponendo Shakespeare a Brecht. Menzionavo il Bardo un po’ come tu fai con Giordano Bruno nella storia della filosofia, per certificare la frattura tra mondo magico e mondo della ragione e invocare una nuova sintesi tra i due, o meglio la necessità di intraprendere un’altra strada, quella che allora definivo dell’«attore carnale». Erano balbettii che mi escludevano da tutti i “movimenti” possibili nell’ambito del teatro reale, ma idee che vedevo realizzate in diverse esperienze, anche apparentemente contrastanti tra loro, come quelle di Carmelo Bene, Leo de Berardinis, il duo Remondi e Caporossi, Jerzy Grotowski e altri qui e là per il mondo.
Tra le ramificazioni problematiche di quella istanza etica ed estetica, una delle più affascinanti riguarda il rapporto tra attore e spettatore. Prima e dopo sono separati nei rispettivi mondi, ma nel teatro le loro azioni sono sincrone, pur differenziandosi nei protocolli gnosico-patici e negli effetti. Il teatro trionfa quando trasforma, in un tempo-ritmo condiviso, i molti in uno e l’uno in molti attraverso un artificio che al tempo stesso indica la strada e lascia liberi di scegliere dove andare. Poiché il discorso rischia di sembrare severo, aggiungo subito che, salvo rare eccezioni, ciò avviene laddove l’attore è capace di di-vertire e di sorprendere, cioè di “tradurre”, permettendo allo spettatore di ri-conoscere le cose che affollano il suo orizzonte esistenziale.
Dal 1992 è iniziata una nuova vita: con la cattedra universitaria ho cominciato a studiare. Studiare e insegnare sono stati una cosa sola, generatrice di nuovi esperimenti. E dai primi anni Duemila Florinda, tu e io ci conosciamo e ci frequentiamo1. Tutto ciò ha cambiato il mio modo personale della conoscenza e dell’azione. Al presente, mi sembra di manifestare in altro mondo la postura mentale di un me stesso antenato. Anche in quest’altro mondo si va tutti un po’ troppo di corsa, ognuno con la propria fisiologia. Comunque sia, dopo ogni esplorazione con quell’astronave chiamata “Mechrí”2, si torna a una quotidianità che registra qualche cambiamento.
La questione finale che poni è come generare conoscenza mediante l’azione. Come “fare teatro”? Come farlo senza limitarsi banalmente a riempire la vita di smorfie e di pose, senza cadere nella decorazione di quella che mastro Grotowski chiamava «una vita di merda»; come evitare di recitare male, ovvero di farsi recitare per il godimento di qualcun altro, come fingere, non per farsi credere diversi da ciò che non si è (doppia menzogna) ma come creatori di figure. Mi sembra che la differenza primaria tra il fingere narcotico e quello divertente consista nel saperlo, nell’evadere dalla prigione del credere e del non credere e nel navigare. Se è vero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, è anche vero che la verità del fare non è l’altra sponda. L’altra sponda non esiste, il fare è la navigazione, essendo ognuno il mare il vento la barca e il timoniere, un io mai sé stesso e sempre superantesi, anche quando dorme. Non penso si tratti di una sovreccitata metafora, ma di un’accettabile definizione della possibile celebrazione quotidiana che intreccia azioni rituali e giocose di diverso ordine e grado. Finzioni della vacuità. Senza nulla togliere alla nobiltà delle intenzioni, il fare si fa e basta. Poi, può essere anche letto, detto, scritto o illustrato.
Il punto di partenza per la rivoluzione impone di procedere in due azioni sincrone, come mi pare stia accadendo a Mechrí. Da una parte si rileggono le storie delle singole discipline per comprendere come le loro dinamiche intreccino sempre ideologie della volontà e ideologie contingenti, idee dominanti e idee sconfitte, separazione e interazione tra i saperi. Rileggere la storia del teatro, ad esempio, significa comprendere come esso abbia funzionato e funzioni in modo diverso da quello depositato nel senso comune e come oggi sia decisivo esserne consapevoli se si vuole che esso partecipi al necessario cambio di passo richiesto da un materialismo integrale e non-dualista. La rilettura del passato e del presente, inoltre, estesa agli altri teatri e ai suoi orienti, sempre volta ad accertare come esso sia ricerca della conoscenza tramite l’esperienza, non può che procedere, come sta accadendo, verso un superamento dei generi (prosa, danza, teatro cantato ecc.) e una nuova unificazione all’insegna dell’autopoiesi e della mousike. Ogni sapere, oltre a ripensarsi e predisporsi al salto quantico, progredisce se i suoi esponenti preparano ognuno la nuova scena sulla quale agire e interagire con gli altri attori e con gli spettatori. La consapevolezza di ciò che sta accadendo è in tal senso decisiva.
S.: Fisso alcune cose che hai detto, molto importanti e magari da riprendere poi. Anzitutto l’espressione “attore carnale”, che suggerisce subito una sua corposa evidenza; mi chiedo però che effetto produrrebbe usare, per analogia, l’espressione “filosofo carnale”: credo che a essa si accompagnerebbe un notevole disorientamento e mi sembra importante chiedersi perché.
Poi l’azione sincrona tra attore e spettatore, nella quale spetta al primo la produzione di quel “di-vertimento” che distoglie dalla banalità conformistica del diffuso senso comune, dal suo “fingere narcotico”, illuminando le cose della comune esperienza secondo un processo di nuova conoscenza (o ri-conoscimento): mi sembra che con queste immagini, tutte però da approfondire, è già indicato, con grande precisione, il tema della funzione conoscitiva del teatro.
Infine, l’invito a “rileggere” la storia del teatro e delle singole discipline, come evidente esigenza, ma anche problema, della formazione e della cultura. Vorrei in particolare ripartire da qui, utilizzando l’esempio di un’arte, la musica, a me, anche tecnicamente, più familiare del teatro.
Il Maestro Guido Farina, con il quale ebbi la fortuna di studiare per alcuni anni composizione, era solito ripetere: «Beethoven è il nostro santo». In questo senso, il suo precursore era stato Mozart, cacciato dai servi del Colloredo letteralmente a pedate e stabilitosi a Vienna come “artista libero”, cioè rivolto al “pubblico”, affrancato da augusti padroni e sacri protettori. Rivolgendosi direttamente al pubblico viennese (e praghese, e parigino ecc.), Mozart organizzava “Accademie a pagamento”, cioè stagioni di concerti, con i quali, attraverso alterne vicende, sbarcava il lunario. Beethoven, con ben maggiore consapevolezza culturale e politica, proseguì su questa strada: artista libero e rivoluzionario, si appellava alla coscienza sociale e culturale dei nobili illuminati e dei borghesi colti per una rivoluzione sociale, morale ed economica del popolo tutto: ne seguirono, come si sa, conseguenze grandiose. Poi il “pubblico”, sostanzialmente borghese, divenne in realtà un nuovo padrone, sempre più idiota e conformista, prono al successo della moda e del denaro. Gli artisti, dall’alto della loro coscienza storica acquisita, promossero allora la grande rivoluzione delle “avanguardie”, avviatasi già nella seconda metà dell’Ottocento, ma esplosa soprattutto nel Novecento. Il risultato, che per molti versi mi pare ancora ci accompagni, fu una sorta di esplosione “atomica” della cultura. Il famoso “pubblico”, che doveva salvare e proteggere l’artista dai poteri forti, garantendogli la sopravvivenza esistenziale, si è tradotto, per lo più e per dire in fretta, nel consumatore di massa (la “gente”), fruitore dei prodotti in serie della cosiddetta cultura popolare sedicente “artistica”. La reale “ricerca” espressiva degli artisti si confinò sempre più in scuole e gruppi isolati, ignorati dal “grande pubblico”, come si dice, e sovente costretti a una vita precaria se non miserevole. Nel contempo, molti trovavano salvezza nelle “specializzazioni”: il grande solista, il celebre direttore, l’orchestra famosa, la “musica barocca”, la “musica antica”, naturalmente il grande repertorio della tradizione più recente: insomma, la cosiddetta “musica classica”, che molto raramente accoglie il compositore contemporaneo, in serate solitamente disertate dal “pubblico dei concerti”. Esso è diventato di fatto un altro aspetto della generale cultura di massa.
D’altra parte, è pur vero che le nuove generazioni hanno il diritto di conoscere il passato: devono ascoltare il loro Beethoven e il loro Shakespeare; cioè devono rileggere la storia delle singole discipline e la storia del teatro, dici tu, sia pure come una storia rinnovata nello stile, nella forma, nella sostanza, ma con rispetto della distanza storica e della sua differenza (ogni tempo ha la sua storia, dicevi). Lo stravolgimento della tradizione prodotto dalle avanguardie non ha esso stesso senso, senza la presenza di una cultura di base nei nuovi fruitori, che però sono, nella stragrande maggioranza, meri consumatori mercificati, edonisticamente e narcisisticamente at...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Esordio
  6. LA TENDA: Teatro e conoscenza