La forza disarmata della pace
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Dov'è finito il movimento per la pace dopo il 2003? Una cultura di pace deve riprendere forza e, con essa, un movimento che sperimenti percorsi nuovi per una partecipazione più attiva ai grandi temi internazionali. Il mondo globale, con le sue smisurate dimensioni e le sue radicate connessioni, ha bisogno di donne e uomini dalla coscienza globale. La cultura della pace deve diventare una passione condivisa e un appuntamento rilevante nell'educazione delle giovani generazioni. Tutto questo, però, può maturare se persone consapevoli riprendono a parlarne in tutte le sedi. Il mondo globale non è solo un grande mercato, dominato da forze economiche che non si controllano, né uno scenario dove contano solo pochi poteri. Siamo parte di questa storia globale, che ha tanti attori, piccoli e grandi. E speriamo che questa storia si sviluppi in una prospettiva di pace, che è la migliore condizione possibile per l'umanità.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800021
Categoria
Religion

1
CONVIVERE: RELIGIONI, CONFLITTI E PACE

Lo scontro e un orizzonte senza frontiere

Il nostro è un mondo difficile da comprendere. La massa d’informazioni dà l’illusione di essere aggiornati senza confini e limiti. Da ovunque arrivano informazioni. Si ha anche la sensazione di essere spersi in un orizzonte complesso e poco decifrabile. Se, a metà degli anni Novanta, il sanguinoso conflitto tra hutu e tutsi in Ruanda appariva incomprensibile, quanto più indecifrabili sono i conflitti odierni. Essere informati su molte cose non vuole dire comprendere, anzi talvolta arriva a frastornare. I disorientati alla fine si sentono impotenti e diventano apatici. Si attenuano le passioni civili. Oggi, le emozioni modellano il nostro atteggiamento di fronte alla realtà. È la geopolitica delle emozioni, di cui parla il politologo francese Dominique Moïsi, che è alla base dei populismi nostrani e di tante reazioni di massa. La mia generazione ha conosciuto invece le passioni per la pace o il terzomondismo. Ieri erano le ideologie politiche a dividere il mondo in amici e nemici e a determinare le notizie: il lontano Vietnam fu sentito vicino, per i legami politico-ideologici.
La guerra fredda ha agito da ordinatore dell’orizzonte: due mondi con confini e zone intermedie, in conflitto tra loro, ma in fondo ingessati. E, in mezzo a loro, il Terzo Mondo, cominciato a Bandung nel 1955 e divenuto un insieme composito, con l’ambizione di rappresentare un’alternativa al capitalismo e al comunismo, come quasi il Terzo Stato: un’illusione. Il Terzo Mondo è crollato con i due mondi. La fine della guerra fredda ha ridotto il valore geopolitico dell’Africa, che ha ripreso quota agli occhi del mercato globale solo con la presenza cinese, giapponese e indiana.
Dagli anni Novanta, la globalizzazione ha allargato – senza cataclismi – frontiere umane, sociali, nazionali. Di fronte a orizzonti divenuti assai vasti, gli uomini e le donne si sentono spaesati, come osservava lo scrittore franco-bulgaro Tzvetan Todorov. Chi sono i miei e chi sono gli altri? Il primo fortunato articolo del politologo americano Samuel Huntington del 1993 sullo scontro delle civiltà, rispondeva a uno stato d’animo diffuso, interpretando i conflitti con la chiave religiosa e culturale, trascurata da una visione marxista ed economicista. Ne è emersa una cartografia del mondo con la cifra dello scontro di civiltà e religione. Lo studioso ha detto qualcosa che molti confusamente volevano sentire. Ne è prova il successo della traduzione araba del suo volume, anche tra i radicali islamici. Dopo la fine dell’ideologia marxista della storia (e di fronte a una visione provvidenzialistica del mercato portatore di democrazia), Huntington ha individuato un motore della storia. È lo scontro tra alcuni grandi attori: comunità religiose-culturali come le grandi civiltà, non solo gli Stati infragiliti dalla globalizzazione. Non un mondo pacifico, ma almeno grandi soggetti, civiltà e frontiere. Così ci si può chiedere: da dove viene il pericolo? E si prova a individuarlo. In una globalizzazione con poche frontiere, risorge quel terrore della storia, di cui parlava Mircea Eliade: come affrontarlo?
Già negli anni Trenta, le Settimane Sociali dei cattolici francesi parlarono di conflitti di civiltà, identificandone varie (musulmana, sovietica, ebraica). La tesi fu che il cristianesimo trascendeva le civiltà come forza di pacificazione. Uno scrittore inglese protestante, Basil Mathews, nel 1926 pubblicò un libro (con un significativo sottotitolo: A study in the clash of civilisations) invitando i giovani a riflettere sul confronto con l’islam. Huntington ha quindi alle sue spalle una tradizione culturale: dallo Spengler de Il tramonto dell’Occidente, dopo la prima guerra mondiale, allo storico Arnold Toynbee che ha utilizzato a fondo la categoria dello scontro nel rapporto tra Occidente e altre civiltà.
Molti volevano sentirsi dire quello che Huntington ha detto: ci sono mondi in conflitto strutturale. La complessità dell’orizzonte è insopportabile per l’osservatore medio. Va bene per l’intellettuale, ma spegne troppo i sentimenti. La cultura dello scontro invece crea, anche drammaticamente, frontiere, indica nemici, indirizza emozioni. Dopo l’11 settembre 2001, ha motivato l’intervento occidentale in Iraq: la spallata che ha fatto crollare il fragile e brutale ordine mediorientale costruito sugli accordi Sykes-Picot del 1916. Ha motivato la riscoperta delle identità-contro, fatte di omogeneità etniche e religiose. Si arriva fino al rafforzamento delle frontiere con i muri, com’è avvenuto nell’Est Europa di fronte ai rifugiati. Abbiamo visto rifiorire i valori etnico-cristiani in Ungheria, tradizionali in Russia, islamico-conservatori in Turchia. La cultura dello scontro di civiltà ha intercettato la spinta radicale delle generazioni islamiche, quasi una poussée – per dirla con linguaggio medico – di radicalizzazione che trova spazio tra i giovani e gli spaesati. Ha risposto ai diffusi sentimenti di paura, di umiliazione di vari mondi che subiscono l’occidentalizzazione, dando loro dignità e identità.
Viene da chiedersi: non ha ragione Huntington? Negli ultimi venticinque anni non si è realizzato il sogno della «grande pace», aspirazione dell’89 e della caduta del Muro. Non si tratta solo di conflitti guerreggiati (che pure hanno creato cinque milioni di morti nelle guerre in Congo tra il 1996-97 e il 1998-2003 o tanti caduti nei Balcani), ma anche di conflitti culturali, che preparano guerre o almeno muri e pulizie etniche.

Identità incerte e contrapposizioni

Il mondo globalizzato ha spinto tante realtà – nazionali, culturali, etniche, religiose – a ristrutturarsi in un orizzonte che si è ampliato. Il vento freddo e globale ha obbligato identità incerte a rivestirsi di nuovi panni a contatto con mondi altri. Senza definirsi sembra di non esistere. La globalizzazione non ha creato un mondo cosmopolita, ma ha presieduto alla rinascita di particolarismi. Ha creato l’angoscia di precisare i propri caratteri in chi se ne stava in situazioni grigie. Le identità vengono da lontano, hanno una tradizione, ma sono anche costruzioni recenti, come le nazioni dell’Ottocento. Sono considerate come la mia pelle, ma spesso sono magliette indossate in fretta e difese con veemenza. Spesso – come scrive il libanese Amin Maalouf, romanziere di un mondo complesso – ci proclamiamo diversi e ostili agli altri, perché siamo tanto simili a loro. Quando, all’inizio del XXI secolo, sono stati sgozzati in Iraq alcuni soldati ONU nepalesi, in Nepal come ritorsione è stata assaltata una moschea e sono stati aggrediti alcuni musulmani del luogo. Ma che c’entravano i musulmani nepalesi con le nefandezze commesse in Iraq?
La riproposizione di radici tradizionali, ma anche audaci innovazioni, hanno ristrutturato le comunità religiose: ebrei, musulmani, cristiani, buddisti, induisti – in modi differenti – hanno vissuto processi di rifondazione identitaria, sfociati talvolta nei fondamentalismi (non pura riscoperta della tradizione, ma innovazione). Non abbiamo avuto solo un fondamentalismo islamico, ma anche induista: l’Hindutwa, nuovo per l’orizzonte religioso dell’India laica di Nehru, nuovo per l’induismo (un mondo religioso complesso), ma ormai al potere.
Le religioni sono state uno strumento per rifondare nazioni e civiltà. Si pensi al ruolo giocato dall’ortodossia nell’Est postcomunista e in Russia. È stata smentita la profezia scientifica di tanta sociologia europea, per cui la modernità avrebbe inevitabilmente ridotto le religioni a fatto residuale e l’umanità – come diceva Auguste Comte – sarebbe giunta a uno stadio razionale. Oggi, anche la laicità francese vive un difficile equilibrio: da una parte lotta contro il burkini, ma dall’altra dichiara – con Hollande – che, quando si colpisce un prete in chiesa (come nel caso del padre Jacques Hamel ucciso a Rouen nel luglio 2016), è la Francia stessa a essere colpita.
La secolarizzazione non è un destino naturale, come si è creduto. Ne sono restati fuori interi mondi: l’indiano (dove nella tecnologica Bangalore convivono culto degli dei e modernità), il musulmano o il nord americano del nuovo cristianesimo evangelico. Le religioni tornano rilevanti nella politica internazionale e nella vita quotidiana dei singoli. Attrezzarsi a capirle diventa necessario per possedere una grammatica capace di decifrare uomini, donne e popoli.
Non esistono solo le religioni tradizionali, che legittimano Stati o civiltà. C’è una religiosità più «vaporosa» e diffusa. Si guardi al cristianesimo neoprotestante e pentecostale, frammentato ed emotivo, non sempre distante dalla politica e dagli affari. È un fenomeno totalmente nuovo nella lunga storia del cristianesimo che, nel Novecento, ha acquisito più di mezzo miliardo di fedeli. Risponde al bisogno di certezze della società nordamericana, di comunità calde nell’inurbamento latinoamericano, d’identità forti nella crisi africana. In Brasile i cattolici sono scesi sotto il 65%. Nel 1965 erano il 90%. C’è un mercato delle religioni, in cui le posizioni tradizionali non sono più sicure. Anzi, il mercato impone la ristrutturazione dell’offerta religiosa, che si modula sulla domanda di salute, affermazione di sé, benessere. In Uganda, ad esempio, è sorto il Miracle Center, megachurch e supermaket di miracoli-benefici. Le forme religiose emotive e fondamentaliste finiscono per deculturarsi da tradizione e storia. Per l’islam radicale è il distacco dal «paganesimo» preislamico. Sembra – nota Olivier Roy – che la religione non abbia più bisogno del sapere e della cultura. Le nuove religioni spesso usano forme proselitistiche da battaglia culturale. Circolano nel mercato globale – è da notare il ruolo delle conversioni via internet – come espressione di un puro religioso, anche se, in realtà, sono disponibili alle più varie avventure.

Niente è più omogeneo

Negli ultimi due secoli, la nazione si è affermata come realtà (più o meno) omogenea. Basterebbe pensare allo sfaldamento dell’impero ottomano, terra secolare di coabitazione, composto da comunità etnico-religiose che trovavano una qualche forma di convivenza pre-democratica. Da esso sono sorte tante nazioni: la Grecia ottocentesca, le varie entità del Medio Oriente, gli Stati succedanei alla Jugoslavia, ultimo il Kosovo. In particolare l’assetto dei Balcani è frutto dell’eredità ottomana, poi divisa in una serie di Stati nazionali all’insegna dell’omogeneità. La fine dell’India britannica, altra realtà molteplice di convivenza, e la nascita del Pakistan, con la partition, sono conseguenza di un divorzio (con creazione dell’identità musulmano-pakistana). La glaciazione della guerra fredda ha fatto dimenticare per anni la forza dell’identità nazionale. Ma «le nazioni non muoiono» – affermava Benedetto XV nella prima guerra mondiale.
Eppure oggi il modello della nazione omogenea, perseguito dallo Stato nazionale per due secoli, non regge. Nessuna terra è più omogenea. Nel mondo globalizzato, le genti si spostano: popoli lontani, culturalmente e geograficamente, vivono nelle stesse città. È la storia dell’emigrazione, postcoloniale e globale. Non esiste più un angolo di mondo che resista all’invasione reale e virtuale degli altri: dalle periferie urbane delle città europee, alla fuoriuscita dei musulmani o degli induisti dalle loro terre d’Oriente… Nel tempo delle identità, si vive però insieme tra diversi, ovunque, molto più che nel passato.
Qui si collocano tanti problemi delle nostre città europee, ma anche quelli dell’incontro-scontro tra culture e religioni sugli scenari internazionali. La reazione a queste convivenze si richiama spesso al conflitto di civiltà e di religione, che, pur allarmando, rassicura perché spiega e suggerisce l’autodifesa come politica del futuro. È uno Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, come recita il titolo del romanzo di Amara Lakhous del 2006 sulla vita di un palazzo romano. La teoria dello scontro, divenuta una vulgata, esige una pratica di maggiore orgoglio di sé, una chiusura o limitazione della presenza degli altri. È quella proposta dai populismi e dai nuovi nazionalismi. È emotiva e istintiva. Un’interpretazione globale per un mondo globale: dal quartiere dove vivo alla politica internazionale.

Impossibile convivenza?

Come vivere insieme tra diversi in un tempo in cui le identità si rafforzano? Nel 2005, ero a Kigali, in Ruanda e, dopo aver visitato il memoriale del terribile genocidio del 1994 fatto dagli hutu nei confronti dei tutsi, mi chiedevo, sentendo la fragilità della situazione: come potranno vivere insieme in futuro? È un problema generale per l’Africa delle etnie. Ho seguito da vicino il Kosovo, dove l’ex oppressore serbo è ridotto oggi a gruppo assediato. Il problema del vivere insieme...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. PREFAZIONE
  6. 1: CONVIVERE: RELIGIONI, CONFLITTI E PACE
  7. 2: COSTRUIRE LA PACE
  8. 3: IL LINGUAGGIO DELLA PACE
  9. 4: È POSSIBILE LA PACE?