Resistenza senza fucile
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Resistenza senza fucile

Vite, storie e luoghi partigiani nella vita quotidiana

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Resistenza senza fucile

Vite, storie e luoghi partigiani nella vita quotidiana

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A più di settant'anni dal 25 aprile la Resistenza è interrogata soprattutto da due problemi: la lotta degli ultimi partigiani con l'anagrafe e la recezione storica dell'epopea patriottica per le nuove generazioni. Un ruolo privilegiato riveste la città di Milano. Una Milano inseparabile dalla sua cintura periferica, dalle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni - Stalingrado d'Italia - dagli scioperi delle primavere del 1943 e del 1944, da un protagonismo diffuso che include i tentativi di instaurazione di una nuova democrazia, complementari rispetto alla strategia militare dei combattenti in montagna. Tutto ciò nello sforzo di intendere le stesse operazioni di guerra nella prospettiva dei partigiani senza fucile, di quanti cioè concorsero in diversa maniera alla lotta antifascista, non sui fronti della guerriglia ma nella quotidianità del territorio. Cessando di considerare la vita sotto la dittatura una semplice cassa di risonanza dell'azione strategica e militare. Detto impoliticamente: uno sguardo sugli avvenimenti con l'occhio del paesaggista piuttosto che con quello del ritrattista. E in questa prospettiva che la tanto bistrattata «zona grigia» attribuita ai cattolici presenta, insieme ai ritardi e alle ambiguità, le ragioni di una lenta e corale maturazione «quotidiana».

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800083
Argomento
Historia

Capitolo terzo
I CATTOLICI E LA FINE DEL REGIME

Le voci del coro

Non solo angeli

Introdurre l’argomento cattolici e antifascismo con una evocazione del ruolo delle suore e dei loro conventi può apparire curioso o addirittura strabico se non provocatorio. Perché in genere alle monache nella Resistenza viene riservato – quando c’è – un capitolo o più spesso un paragrafo in appendice, con due numi tutelari: suor Teresina a Roma, abbattuta dalla pallottola di un nazista che stava depredando le salme dei patrioti fucilati, o suor Enrichetta Alfieri, angelo e mamma del carcere di San Vittore a Milano, arrestata per spionaggio il 29 settembre 1944.
In questo caso tuttavia lo sguardo eccentrico, forse femminilmente obliquo, vorrebbe introdurre alla costituzione di un punto di vista utile, più che inedito, a dar conto della quotidianità diffusa – e quindi della globalità – di una progressiva presa di coscienza che è forzata a farsi a «resistente» dalle contingenze della vita di tutti i giorni e da avvenimenti sovraordinati. Impulsi indotti da sopra e da fuori – dall’incattivirsi della tragedia bellica, dagli spostamenti del fronte, dal progressivo sgretolarsi del regime, dalle reazioni dell’occupante germanico, da quelle uguali ed opposte delle parrocchie e delle comunità dei credenti, dalle indicazioni dei vertici della gerarchia ecclesiastica: insomma ancora una volta dai microcosmi attraversati dal caos di stagioni convulse e giorni drammaticamente sincopati – che mettono il Paese intero in transizione forzata.
A mettersi in marcia sotto le bandiere ideologiche è gente normale (sporadicamente l’eroismo è una scelta progettuale e preventiva) che alle ideologie attinge consapevolmente e no, non ponendosi il problema di astratte fedeltà.
Coglie dunque nel segno Giorgio Vecchio, che sul tema ha scritto copiosamente, e che ha assunto per il rigore dei giudizi il ruolo di autorità inevitabile quando si discorre di cattolici e Resistenza.
Non mi resta dunque che far mia per le pagine che seguono un’avvertenza preliminare che Vecchio avanza nella introduzione al proprio testo monumentale (del resto sono tanti gli autori che sulla materia resistenziale hanno deciso di non risparmiare cellulosa) apparso nel 2005 per i tipi di Morcelliana.
Per due motivi espliciti. Il primo: «Mi sono accorto che tanti episodi che sembravano chiari e lineari nel loro sviluppo, tanto da essere continuamente riproposti dagli storici, erano in realtà ancora da accertare pienamente; il secondo è che ho incontrato nel corso della ricerca tali e tante figure totalmente dimenticate (o note solo nell’ambito parrocchiale o paesano), da ritenere doveroso un loro recupero sul piano della memoria storica e, direi, anche civile»1.
Quel che lo storico sintetizza qualche riga più avanti esprime il tenore del punto di vista assunto, e cioè il «doppio criterio che definirei della “globalità” e della “coralità”: cercare cioè di tener conto della “globalità” della vita quotidiana nei suoi vari aspetti, compresi quelli più materiali, nonché della molteplicità degli attori, essendo convinto che la storia è appunto fatta da un coro più o meno intonato, da una molteplicità di voci che vanno ascoltate per quanto flebili e confuse»2.
Anzitutto una caratteristica e quasi un ossimoro: il protagonismo delle suore nella lotta di Liberazione non è voluto né ricercato, e mai si vive come tale. Come se il ritirarsi dal mondo per la divina chiamata si esprimesse in questo caso con un rischiare la vita per una visione del mondo senza assumerne la centralità e alludendo a principi e valori che comunque la trascendono.
Il che peraltro pone una serie di interrogativi estremamente positivi sulle ragioni profonde e diffuse dei combattenti per la libertà, a tutti i livelli e nelle diverse e contrapposte culture. Pone anche – non credo sia una forzatura sottolinearlo – le premesse per un incontro, terminata la guerra, in un sogno di mondo e in un progetto di società nazionale e comune.
Si può cioè omettere la citazione delle «radici cristiane» nel tentativo di costituzione europea, non sarebbe invece stato possibile occultare le «radici resistenziali» per la Carta Costituzionale del 1948.

Un ritardo da indagare

Ecco allora spiegata la prima difficoltà di un ritardo nell’attenzione al fenomeno: alla sete di informazione si oppone una propensione al silenzio. Delle suore furono uccise nel quadro delle rappresaglie tedesche e a ridosso della Linea gotica, ma ovviamente il loro ingresso nella storia della Resistenza è per lo più occasionale e sollecitato da motivazioni non necessariamente e in radice patriottiche. Si aggiunga alle difficoltà già elencate un atteggiamento che tende a sottrarsi allo scrivere dei fatti e al lasciarne testimonianza diretta.
È ancora Giorgio Vecchio ad annotare: «La difficoltà dello storico è accresciuta anche dal fatto che ben poche sono le testimonianze dirette – scritte o orali – che è possibile utilizzare. Almeno per quel che sappiamo finora, il racconto in prima persona delle suore è evento rarissimo e ciò accresce l’importanza del memoriale lasciatoci da madre Imelde Ranucci delle Francescane dell’Immacolata di Palàgano, nella media valle del Dragone sull’Appennino modenese»3.
Come a dire che siamo forzati a scegliere un’icona che possa in qualche modo rappresentarle tutte. «La storia di madre Imelde è esemplare per diversi motivi e non solo per l’eccezionalità del suo memoriale. Nel suo racconto troviamo infatti tanti aspetti dell’azione coralmente svolta dalle suore: la salvezza offerta agli ebrei, il coinvolgimento con la Resistenza, l’ospitalità verso i sofferenti, la mediazione tra le parti, la salvezza ottenuta per il paese, la comprensione umana verso gli stessi nemici»4.
Un decalogo ridotto della buona suora patriottica nella tragedia di una guerra nella fase finale.
Alcune religiose si compromisero in favore della Resistenza fin dai giorni immediatamente successivi all’8 settembre. Mentre una delle situazioni più frequenti è quella nella quale le suore mettono a disposizione dei comandi locali e dei CLN i loro istituti per potervi tenere riunioni in relativa sicurezza.
Così pure molto frequente era il caso di suore che fungevano da centri di raccolta e di smistamento delle informazioni.
Maggiore incremento avranno nella fase finale del conflitto le iniziative di assistenza medica, nella quale si distinsero in particolare le suore bresciane della Poliambulanza e di altri ospedali a Brescia, oltre alle suore milanesi attive all’Ospedale Maggiore di Niguarda. Come pure le importanti e celebrate figure di suor Teresa Scarpellini e di suor Giovanna Mosna delle Suore di Carità delle beate Capitanio e Gerosa.
«In generale, va detto, le suore infermiere operavano falsificando le cartelle cliniche, inventando malattie contagiose o particolarmente temute dai tedeschi, inducendo febbri altissime, nascondendo tra i malati di mente, simulando ferite profonde e sanguinolente e così via»5. Risultano in tal senso esemplari le storie delle suore dell’ospedale milanese di Niguarda.

Gli ebrei bussano ai conventi

Un dramma centrale, perché attraversa tutto il mondo cattolico e l’area ecclesiale, è costituito dal rapporto con gli ebrei, a più riprese perseguitati dal regime. Si tratta di un nodo cruciale, dal momento che interessa un filone lungamente custodito dalla Traditio e costituito dal rapporto con l’ebraismo (e quindi con l’antiebraismo) e le leggi razziali.
In questo caso si può dire che generalmente l’atteggiamento dei conventi – sia femminili che maschili – sia molto più univoco e accogliente rispetto alle prese di posizione della gerarchia e dei suoi interventi (lettere pastorali ed omelie).
E in effetti l’opera preziosa delle suore per il salvataggio degli ebrei tra il 1943 e il 1945 può essere agevolmente ricostruita a partire dal libro I Giusti d’Italia, curato dalla fondazione Yad Vashem.
Risultano infatti numerose le religiose che sono state insignite del titolo di «Giusta». Ed ancora una volta ha senz’altro ragione di osservare il Vecchio che «queste suore rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. Intanto per il semplice motivo che esse dovevano godere della complicità delle suore loro sottoposte»6. Se a decidere di aprire la porta era la madre superiora, questa doveva avere il consenso delle consorelle affidate alle sue cure.
Restando in Lombardia, si debbono menzionare in proposito le Suore Orsoline di San Carlo, che aprirono le loro sedi nella zona dei grandi laghi lombardi per nascondere i perseguitati, in non pochi casi in attesa di un passaggio in Svizzera.
Vanno quindi menzionate le suore dell’asilo di San Bartolomeo a Como, che recandosi quotidianamente alla palestra Mariani, allora funzionante come carcere politico, facilitarono diverse evasioni, compresa quella del capo partigiano Enrico Mattei, del quale il comunista Luigi Longo, suo amico personale, amava ripetere: «Sa utilizzare benissimo le sue relazioni con industriali e preti».
Si tratta comunque di un brulicare di attività che non possono sfuggire all’attenzione inquisitoria dei tedeschi e dei fascisti, peraltro animati da forti sentimenti anticlericali e anticattolici, resi diffidenti e in non pochi casi irosi dal dover fare i conti con la sorda resistenza di una parte consistente – e negli ultimi anni la più qualificata – del clero. Presbiteri che per le medesime ragioni risultavano essere anche i meglio radicati socialmente.

La questione ebraica

Questa dell’ospitalità conventuale è una tra le pagine più belle della Resistenza cattolica. E proprio per questo chiede di essere riportata al contesto di una condizione complessiva incerta e problematica che, fino al 1943, caratterizza l’intera area ecclesiale.
È ancora Giorgio Vecchio, leggendo praticamente «tutto», ad aver ricostruito la tradizione antiebraica e gli atteggiamenti dei cattolici italiani negli anni Venti e Trenta.
Un punto di vista comune e ripetuto, e proprio per questo stereotipato, caratterizza tutti gli approcci: dalle lettere pastorali dei vescovi, alla predicazione dei parroci e al diluvio di interventi a tutti i livelli della stampa cattolica: tutti al fondo si ritrovano nella considerazione preoccupata degli «ebrei come gli ispiratori e gli occulti promotori della «guerra» in atto per eliminare il cattolicesimo»7. Un «tranquillo» e non criticato pregiudizio, una generalizzata posizione sicuramente «prevenuta». Sintesi in un certo senso di tutti gli ismi considerati anticattolici.
In quegli anni infatti Auschwitz non c’era ancora e l’Olocausto era fuori della prospettiva e dei pensieri più cupi non solo di cristiani che usavano sulla questione ebraica parole forti – Pio IX, don Giovanni Bosco, don Davide Albertario e don Luigi Guanella – ma anche dall’immaginazione più preoccupata degli ebrei medesimi.
Non risultano generalizzabili le eccezioni, dal momento che contro l’antisemitismo si schierarono padre Semeria e monsignor Bonomelli, e tutta la prima linea degli intellettuali cattolici francesi – tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento – da Léon Bloy, a Charles Péguy, a Paul Claudel. Giovanni Papini (Storia di Cristo, 1921 e Gog, 1931) aveva preso di mira in Italia gli ebrei come punta di lancia della modernità anticattolica.
Al contrario, ma restiamo in Francia, Maritain dichiarò l’impossibilità «di odiare il popolo ebraico restando intelligenti»8. E se Maritain avrà successivamente (1938) un effetto riconosciuto illuminante sullo stesso Giuseppe Dossetti, Luigi Sturzo da tempo lamentava, inascoltato, una troppo debole reazione cattolica nei confronti dell’antisemitismo.
Nella percezione comune la svolta, o come si preferisce dire con immagine più attuale, il «cambio di passo» sarebbe rappresentato dal varo dalle leggi razziali del 1938.
La vulgata affermatasi è che esse rappresentino da subito il punto di rottura e lo scontro generalizzato tra l’autorità cattolica e il regime. «In realtà le cose non andarono così linearmente e molti segnali inducono a pensare che la Chiesa accettò sostanzialmente quelle leggi, limitando la sua critica un punto specifico, quello cioè relativo al vulnus inferto al Concordato con le nuove norme in materia matrimoniale»9.
Senz’altro più schierata ed evidente risulta la dura critica al razzismo nazista, di origine biologica e «neopagana»: una critica erede e memore della dura definizione della svastica come «croce nemica della croce di Cristo» secondo la locuzione di Pio XI del 24 dic...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Epigrafe
  5. INDICE
  6. Capitolo primo: SOGNARE DI NUOVO LA PATRIA
  7. Capitolo secondo: LA METROPOLI E IL VENTO DEL NORD
  8. Capitolo terzo: I CATTOLICI E LA FINE DEL REGIME
  9. Capitolo quarto: TRE PUNTI DI VISTA
  10. Capitolo quinto: COSA RESTA?
  11. Capitolo sesto: L’ATTUALITÀ DI ENRICO MATTEI NELL’ITALIA CHE CAMBIA
  12. Postilla: LA PISTA DI TERESIO