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MUSICA COME DIALETTICA: IL RITUALE CHE SI AUTO-CANCELLA
Chi dopo il crollo dell’URSS pensava di vivere in un mondo postdialettico e ha magari cercato nel postmodernismo filosofico uno stile di pensiero in grado di rassicurarlo circa l’assenza di “centro” e di “opposizioni binarie” nel mondo e nella società deve essere rimasto molto deluso dall’esperienza degli ultimi trent’anni. Il conflitto tra capitale e lavoro traccia, allora come oggi, una linea senza la quale le dinamiche politiche e sociali si manifestano solo attraverso la distorta, confusa e illusionistica rappresentazione massmediatica. Anche il conflitto tra individuale e collettivo è più vivo e irrisolto che mai in tempi in cui l’etica pubblica vacilla e manca ogni forma di orientamento a un agire individuale sempre più abbandonato a se stesso e sempre più vittima inconsapevole delle dinamiche economiche che fanno sentire i propri effetti su scala tellurica. Al tempo stesso, i grandi sommovimenti politici che hanno messo in questione le forme tradizionali della militanza ci stanno oggi insegnando anche l’insufficienza di una pratica politica “dal basso”, legata al sentire diffuso e momentaneo, fino alle derive della partecipazione liquida e telematica. Il sapere, attraversato dalla scissione tra utile e inutile, scientifico e poetico, sembra sempre più organizzarsi in forme tecnocratiche, invadere attraverso la normazione e la codificazione la nostra esperienza nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università: la cultura umanistica è sotto attacco, ridotta all’impotenza, spesso colpevole dell’erosione dei propri spazi, mentre la letteratura, l’arte e la musica divengono sempre più fenomeni scissi tra la fatua celebrazione dell’industria culturale e l’irrilevanza di un sentire che sublima la propria unicità e irripetibilità in una fragile estasi superomistica di nicchia. Infine, ma non meno importante, le sfide della tecnologia e dell’apparato industriale ci pongono di fronte al problema del conflitto tra uomo e natura. Le questioni ecologiche e bioteiche – l’incontro con l’alterità non-umana – si fanno sempre più inquietanti e ci pongono il paradosso etico-ontologico: porci al di fuori della condizione animale come dominatori della natura, oppure identificarci tout court con l’animalità, perdendo però così ogni criterio di orientamento per l’azione, un’opposizione difficilmente gestibile e consegnata alla lotta tra un paradigma della ragione strumentale e uno della ragione come ibridazione e deriva postmoderna e postumana: segno che solo una dialettica della natura potrebbe permetterci di pensare e praticare, al tempo stesso, la nostra identità e non-identità con il resto del vivente, assumendo questa paradossale vicinanza/lontananza come metro di paragone per un’etica della convivenza pacifica27.
Tutti questi temi ci parlano di un persistere delle “opposizioni” e degli schemi “binari” che si riteneva di poter superare, a testimonianza che la dialettica non è un metodo ma un tentativo di mappatura delle contraddizioni del reale. Sono tutti temi cari al pensiero di Theodor W. Adorno, che alla decifrazione di queste contraddizioni oggettive in seno alla società tardocapitalistica si dedicò per tutta la vita. A lui ci volgeremo qui per dare alla dialettica una seconda chance dopo i necrologi interessati degli ultimi decenni. A lui daremo voce nel tentare di mostrare come la musica sia un’esperienza intrinsecamente dialettica, ciò che non può essere fatto senza un’adeguata ricostruzione teorica dei suoi nessi interni e del suo rapporto con la società. Perché le trasformazioni della musica contemporanea possano essere comprese, è necessario indagare meglio il rapporto tra la sfera della musica colta e quella della musica popolare. Per quanto ciò possa sembrare strano, ad aver illuminato questo rapporto e ad aver fornito gli strumenti teorici in grado di comprendere l’importanza della musica di consumo è stato proprio Adorno.
Cercheremo di esporre in modo molto sintetico quello che ci sembra essere il nucleo centrale del suo pensiero, gli aspetti salienti della sua ricerca filosofico-musicale, per dedicarci quindi a una ripresa e un arricchimento di tale ricerca, che ci permetterà forse di affrontare e risolvere adeguatamente il problema del rapporto tra musica colta e musica popolare.
27 Su questo cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit.
MUSICOLOGIA COME CRITICA DEL DOMINIO
Per comprendere il rapporto tra musica, pensiero e società è necessario trovare un luogo in cui essi siano originariamente intrecciati. Questo luogo è la storia del dominio, ovvero la storia dell’Occidente vista come trama di una lotta tra istanza di potere e resistenza alla sua assimilazione. La Dialettica dell’illuminismo, pubblicata assieme all’amico Max Horkheimer nell’immediato dopoguerra, offre un perfetto esempio della sintesi filosofica cui era giunto il pensiero di Adorno a questo riguardo. Qui, pur descrivendo la storia dell’Occidente come un cammino di emancipazione e trionfo della ragione, i due autori sottolineano la necessità di riconoscere anche gli aspetti distruttivi di questa emancipazione che implica in sé il trionfo del dominio, della tecnica e dell’oppressione su scala planetaria. Solitamente si intende questa critica come una critica al progresso e alla tecnica, falsamente associandola ad analoghe intuizioni heideggeriane. In quest’opera, come noto, la genesi del Soggetto viene posta in un rapporto essenziale con il distanziamento dalla natura. Il Soggetto, la ragione, l’Umano arrivano progressivamente a staccarsi da un piano di immanenza in cui vige una sostanziale confusione tra questi ambiti – si pensi al mondo magico e animistico delle cosiddette società primitive. È solo progressivamente che il Soggetto si costituisce come ciò che si contrappone alla natura e, attraverso rapporti di dominio, giunge a realizzarsi come tale. Il rapporto di dominio si configura come un rapporto asimmetrico tra soggetti che non pre-esistono come tali ma si costituiscono nella relazione e attraverso di essa e ciò va inteso in senso rigorosamente materiale. Non si tratta di un semplice “pregiudizio” che attraverso il disprezzo per l’altro ne provocherebbe l’asservimento. Piuttosto è necessario che si realizzi, assieme se non prima, una prassi di sfruttamento materiale, la realizzazione pratica, fattiva di quello squilibrio che, occludendo e manipolando le possibilità di esistenza del soggetto minoritario della relazione, lo adatta a quel rapporto e ve lo riduce. Nel senso proposto da Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca, si possono distinguere gli uomini dagli animali per la religione, la coscienza, il linguaggio ecc., ma la vera differenza tra umano e non umano non è di tipo statico, ontologico, bensì storico (o storico-naturale), è l’attività pratica di produzione delle proprie condizioni materiali di esistenza. L’umano è propriamente il “farsi-umano”, la generazione di quella differenza che quindi si qualifica come un differire attivo, un marcare costantemente e ricorsivamente una distanza che solo nell’atto stesso del marcare trova la propria conferma.
L’analisi di Adorno e Horkheimer evidenzia le conseguenze impreviste e devastanti di questo processo di autoposizione del Soggetto.
1) In prima istanza si tratta di un processo di estraneazione dalla natura che non può che consistere in una reificazione della natura stessa. Se infatti il Soggetto e la ragione si ergono espellendo da sé ciò che li minaccia nella sua ambiguità e imprevedibilità e riducendo la natura all’ambito di ciò che deve essere prevedibile e manipolabile, questo può accadere solo attraverso una riduzione ontologica del naturale alle sue caratteristiche quantitativamente determinabili: da ultimo attraverso la riduzione dell’intero ambito dell’extra-soggettivo a mera materia in movimento.
2) Si tratta però di una vittoria di Pirro. Catturato a sua volta nella relazione di dominio, il Soggetto non può sfuggire alla dinamica che esso imprime al rapporto che lo costituisce e lo instaura in quanto Soggetto. Così alla reificazione della natura fa da contraltare una reificazione del Soggetto stesso: entrambi i poli della relazione si congelano e avvizziscono nella morsa in cui il dominio resosi autonomo li stringe. In questa morsa il Soggetto diventa evanescente e si spettralizza, scorporandosi dall’uomo e ossessionandolo. Il fantasma della libertà, la libertà che perde corpo, sensibilità, pulsione, animalità dissolvendosi come libertà. Emerge qui quella particolare dialettica della libertà che Adorno descrive così precisamente nel capitolo sull’etica kantiana della Dialettica negativa:
La contraddizione di libertà e determinismo [è] una contraddizione dell’esperienza personale dei soggetti, ora liberi, ora non liberi. Sotto l’aspetto della libertà essi sono non identici con sé, perché il soggetto non è ancora tale, e ciò proprio a causa della sua instaurazione in quanto soggetto: il Sé è l’inumano. La libertà [è] affin[e] sia all’identità che alla non identità, senza lasciarsi registrare clare et distincte dall’una o dall’altra. I soggetti sono liberi […] nella misura in cui sono coscienti di sé, identici con sé; e in questa identità sono di nuovo anche non liberi nella misura in cui sottostanno alla sua coazione e la perpetuano. Essi sono non liberi in quanto natura diffusa, non identica, e tuttavia in quanto tale sono liberi, perché nelle pulsioni che li sopraffanno – e cos’altro è la non identità del soggetto con sé? – si liberano anche del carattere coattivo dell’identità28.
La contraddizione inerisce all’essenza stessa del Soggetto, la sua illibertà è l’effetto del dominio che esso esercita sulla natura per costituirsi come umano e che invece lo instaura come disumano.
3) Ciò accade perché ai fini dell’autoconservazione la ragione prende la forma mutilata della razionalità strumentale il cui dominio progressivamente assume i tratti paranoidi e totalitari di una ricerca della pura identità, di un puro rapporto di autorelazione e di autofondazione del soggetto, che trovano una propria apocalittica conferma pratica in Auschwitz. Non a caso nelle Lezioni sulla Metafisica Adorno equipara la sussunzione dell’umano a uno schema generale con il genocidio29. Potremmo dire che la società amministrata, in cui tutti si equivalgono in quanto rappresentanti del genere umano, e, dunque, sono potenzialmente sempre sostituibili, liquidabili, realizza una forma morbida di genocidio. In questo intronarsi del Soggetto che finisce per esautorare i portatori di quella soggettività come elementi di disturbo nel meccanismo di costruzione di una società razionale avviene quel rovesciamento che vede la storia della civiltà degenerare a processo senza soggetto, autotelia che gira a vuoto, dinamica acefala e necessitata: il progresso si rovescia così in regresso, l’autonomia dello spirito in cieco automatismo sociale.
4) È a questo punto che Adorno e Horkheimer sottolineano la segreta vendetta della natura sul soggetto che intendeva usurparla. La civiltà non è altro che “natura che si dilania in se stessa”, essa finisce per realizzare come un destino quella natura come cieco e violento meccanismo che aveva tentato invano di esorcizzare al di fuori di sé.
Che la ragione sia altro dalla natura e tuttavia un suo momento è la preistoria divenuta sua determinazione immanente. Essa è naturale in quanto energia psichica deviata a scopi di autoconservazione; ma una volta scissa e in contrasto con la natura, la ragione diventa anche altro da essa. Sporgendo dalla natur...