PER LA «FORTUNA» DEL RINASCIMENTO «DAL VASARI AI NEOCLASSICI»
Anna Maria Ambrosini Massari
Mi pare intollerabile pensare che il Rinascimento italiano, o io stesso (ma soprattutto il Rinascimento italiano), non siamo nient’altro che una casuale agglomerazione di inclinazioni frammentate
Michael Baxandall1
«Fortuna» del Rinascimento: questo titolo vuole prima di tutto essere un omaggio all’insuperato libro di Giovanni Previtali, La Fortuna dei Primitivi dal Vasari ai Neoclassici2, un vero modello di metodo e di risultati quando si vogliano affrontare problemi posti da categorie ingombranti senza pregiudizi o vuoti schematismi.
Un omaggio ma anche una provocazione. Perché lo studio di Previtali nasceva proprio dall’urgenza di analizzare i modi e i tempi di una nuova comprensione dei Primitivi, brillantemente connessa al lavoro erudito e agli studi storici, soprattutto italiani del Settecento e poi fluita nel collezionismo e negli studi italiani e stranieri dell’Ottocento, che andava a riscattare del tutto una «Sfortuna», che era cominciata e si era radicata proprio in conseguenza della «Fortuna» del Rinascimento, soprattutto nelle modalità istituzionalizzate dalle Vite di Giorgio Vasari.
La nostra piattaforma di osservazione dovrà d’altra parte risalire ben più indietro di Vasari, che si pone come summa di una lunga serie di idee e di opere che hanno, nel corso di circa due secoli, delineato una linea interpretativa che, nonostante assestamenti e varianti, poggia su un assunto fondamentalmente invariato, che ne garantisce durevole fortuna e apprezzamento pressoché universali: l’idea della «Rinascita».
Un nucleo tematico che accomuna posizioni anche molto distanti, che comprendono l’Umanesimo, la fase eroica del primo Quattrocento fiorentino, le più disparate soluzioni figurative e le messe a punto teoriche nel corso del secolo, fino al momento coagulante delle Stanze Vaticane di Raffaello e della sua celebre Lettera a Leone X, scritta con Baldassarre Castiglione: cruciali per il senso e il futuro della «Fortuna» del Rinascimento che troverà per oltre due secoli, proprio qui, le sorgenti del Classicismo. Il culmine del percorso è, ovviamente, nella sintesi suprema ed estrema delle Vite di Giorgio Vasari, a metà Cinquecento (1550) ma soprattutto con l’autorità riconosciuta per oltre due secoli alla seconda edizione del testo, quella del 1568, che ci conduce fin dentro il mondo della Controriforma e conferma senza più esitazioni o alternanze il primato fiorentino e toscano nella ideazione3, messa a punto e diffusione della «Maniera moderna’4, il nuovo stile della «Rinascita».
Un percorso graduale ma fin da subito consapevole e orgoglioso di porre in atto la rinascita dell’individuo, il risveglio della sua dimensione creativa e intellettuale, le cui radici si riconoscevano nell’antica Roma, pertanto innescando una inevitabile frizione con la cultura teologica medievale.
L’umanità si risveglia – questo termine e questa metafora è molto presente nei Commentari di Lorenzo Ghiberti5 – riapre gli occhi che il Medioevo aveva chiuso: lettere e arti si risvegliano, alla luce della nuova comprensione del mondo classico, dei suoi testi, che aprono a spazi più immanenti.
Nell’antico si ritrovano le radici perdute di una relazione attiva col mondo circostante: l’arte imita, «mimesis»6 la natura ma dominandola, conoscendola attraverso le leggi naturali.
L’arte si fa scienza e l’artista scienziato assurge alle vette sociali e intellettuali che solo le arti liberali garantivano7.
Leon Battista Alberti e Leonardo sintetizzano gli aspetti essenziali e contrastanti dei temi fondanti del Rinascimento, anche per lo stretto rapporto tra l’artista e il teorico. Alberti (fig. 1) declina l’arte come scienza della visione, fondata sulle leggi dell’ottica e della prospettiva, dove il punto di vista dell’artista rivela la verità. Si profila una nuova idea di bellezza che è armonia delle parti col tutto8 di cui la simmetria del corpo umano diventa simbolo ponendo l’uomo, misura di tutte le cose, al centro del creato: il soggetto più degno di essere rappresentato in «istorie»9. Così si completa il quadro dell’elevazione dell’arte dalla sfera meccanica a quella liberale: il racconto delle storie equipara la pittura alla poesia10. Anche per Leonardo, indubbiamente più intimamente scienziato e sperimentatore di quanto non lo fosse Alberti, che incarna pienamente il profilo dell’umanista11, l’arte è scienza ma in un senso ben più vitale di ricerca e scoperta continua piuttosto che secondo schemi rigidi quali quelli fissati dall’Alberti. Si potrebbe dire che tanto l’arte diventa scienza quanto la scienza si fa arte, grazie alla possente, totale, onnivora creatività di Leonardo, il cui Trattato della pittura12, allo stato frammentario di note e abbozzi, riflette questa condizione di creatività in atto, che ci offre ancor oggi la più chiara espressione dell’ideale di universalità del Rinascimento, di cui l’artista diventa centro simbolico e irradiatore.
Sta qui, infatti, nella centralità assoluta dell’uomo, il punto di più intima connessione delle poetiche rinascimentali e la scaturigine della loro inesauribile «Fortuna»: tra il quadro come finestra sul mondo di Alberti e l’uomo vitruviano di Leonardo (fig. 2).
Quest’ultimo, come accennato, ne rappresenta la punta più personale e controversa. Basti pensare alla sua indifferenza nei confronti dell’antico13, alla considerazione della pittura come forma altissima di conoscenza, ritenuta addirittura superiore alla poesia14, per la forza d’impatto dell’immagine rispetto allo scritto, una posizione la cui modernità è sorprendente, se si pensa che per ritrovare simili intendimenti, che saranno alla base di una vera e propria rivoluzione, dovremo aspettare oltre la metà del Settecento e gli scritti di un tedesco, Gotthold Ephraim Lessing col suo Laocoonte15.
E se il mito di Leonardo che prende solo la natura per «maestra» è, appunto, un mito16 – lo sguardo di Leonardo è multidirezionale e onnivoro, guarda l’antico, i suoi contemporanei e persino l’arte medievale. Vero è che Leonardo pretendeva di non avere condizionamenti e di controllare qualunque filtro, modello o maestro nel rapporto con la natura, che doveva poter dare ampio sfogo all’originalità17. In ogni caso, sia in forma di «Rinascita» che di originalità, l’obiettivo resta lo stesso: rinasce o nasce un’epoca nuova, un uomo nuovo, una nuova società.
Ma il Rinascimento è pur sempre un movimento che si appropria di valori del passato, selezionandoli, interpretandoli e attualizzandoli secondo le proprie esigenze. Si pensi alla centralità del tema del nuovo ruolo degli artisti, sottratti alla posizione artigianale del periodo medievale che, in realtà, era molto più vicina a quella del mondo antico di quanto non lo sarà la progressiva teorizzazione dell’artista scienziato propria del Rinascimento18.
Quella del Rinascimento è una reinvenzione dell’antico che ne condizionerà per sempre la rappresentazione, almeno dal punto di vista artistico, divulgando un’idea di bellezza, di creatività, di umanità che resta esemplare ma che risulta profondamente connotata dall’interpretazione rinascimentale19, garantendone la Fortuna secolare e una singolare capacità di attrazione e di ispirazione20.
Da quel momento e per sempre, si è dovuto fare i conti con questi nodi cruciali, più o meno in ogni epoca successiva, come potrebbero sintetizzare i ritratti dei grandi artisti del Rinascimento nelle facciate e negli atri dei Musei internazionali edificati o sistemati tra Sette e Ottocento21. Fin dentro le Avanguardie del Novecento si dovrà fare i conti con quel modello ingombrante ma ineludibile, la Gioconda coi baffi o, più tardi, in serie, come la Venere di Botticelli di Andy Warhol22 Un modello esaltante e drammatico, ancora oggi sublime, basti qui evocare l’opera di un artista come Bill Viola.
Nelle più serrate verifiche storico-critiche indirizzate a una revisione, delimitazione e contestualizzazione del Rinascimento si è ben messo a fuoco quanto sia difficile, in questo caso in particolare, sintetizzare in un nome un’epoca: «Anche limitandoci ai tre grandi centri di Firenze, Roma e Venezia, Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo, Giorgione e Tiziano avrebbero tutti il diritto di esser riconosciuti come numi tutelari e dovremmo porgli di fronte tanti predecessori e seguaci…»23.
Nonostante le ondate iconoclaste e anticlassiche delle Avanguardie del primo Novecento e quelle antiidealistiche degli anni Sessanta e Settanta, il Rinascimento ha saputo mantenere pressoché intatto il suo carisma, la sua immagine possente, come divulgata specialmente nel corso dell’Ottocento. La civiltà del Rinascimento (1860) di Jacob Burchkardt ne è la principale guida e motore, che viene d’altra parte cinque anni dopo l’uscita dell’opera di Jules Michelet (1855). Ma, fuori da ogni parzialità, visto che si tratta di un francese, Germaine Bazin si chiedeva, non molto tempo fa: «Chi mai legge ancor oggi La Renaissance di Michelet?»24, sottolineando come, al contrario, il capolavoro di Burchkardt rimanga un testo di riferimento.
Tra Otto e Novecento diversi e fondanti contributi si potrebbero citare per una caratterizzazione sotto i più diversi aspetti del Rinascimento: dal punto di vista della Kulturgeschichte di Jacob Burchkardt appunto, dell’analisi stilistica, proprio a partire dal Rinascimento, si pensi alla ...