Concerto per violino n. 1
(1916)
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Karol Szymanowski
(1882-1937)
In un unico, splendente e turbinoso movimento, il Concerto per violino (op. 35) di Karol Szymanowski è, assieme a quello di Alban Berg (che proprio al lavoro del polacco si ispirò per il suo di concerto), il più importante componimento del genere della prima metà del ’900. Dopo, solo Ligeti e Gubajdulina (con Offertorium) riusciranno a far pronunciare qualcosa di nuovo a questa tipologia concertistica, la più classica interazione tra uno strumento solista e l’orchestra – ancor più di quella che vede protagonista il pianoforte.
L’opzione di Szymanowski per un solo lungo movimento conferma lo sfaldamento delle strutture formali classiche, già iniziato nel secolo precedente (si veda la Sonata di Liszt), e diventa paradigmatica per molti altri compositori (l’atto unico si adatterà sempre più spesso alle opere, il movimento compatto e singolo alle sinfonie). Per il resto, il concerto è un’opera sui generis come tutta la musica del compositore, artista di raro gusto, grande inventiva e notevole autonomia creativa, che in una nazione legata alle tradizioni e al gran nome di Chopin, sviluppa ed esporta uno stile tutto personale – proprio come Chopin a suo tempo aveva fatto – inaugurando il secolo nel segno di un contributo enorme da parte della Polonia: tra i più grandi compositori del ’900, un numero considerevole è polacco.
Il pezzo ha un impianto atonale – è tonalmente libero, diciamo – e fin dal veloce inizio («vivace assai», e i tempi muteranno in maniera quasi binaria alternando il lento e il rapido) se ne comprende la novità: il violino e l’orchestra sono due mondi che pur condividendo un timbro fondamentale possono benissimo restare indipendenti, anche quando suonano insieme. Sul tremolo degli archi, saltellano confusionari i fiati, da un pianissimo che poi diventa sempre più marcato, raggiungendo il culmine che si smorza appena prima dell’ingresso del violino solista. È quasi un’introduzione teatrale fatta di comparse che attendono l’entrata del protagonista. Attacca dolcemente il violino con una cadenza estatica su un’orchestra meditativa, in attesa; poi smette e l’orchestra riprende la sua attività frenetica… Quello iniziale è una specie di dialogo tra personaggi che sembrano parlare lingue diverse: il violino, austero e regale; l’orchestra – soprattutto dei legni –, capricciosa, polemica e plurifonica. Nel secondo momento violinistico il resto degli strumenti paiono supportarlo, in un discorso più omogeneo. Il concerto prosegue senza sosta, e si susseguono immagini di ogni tipo – dall’umana fiera cittadina, alla magia fiabesca – secondo uno stile personalissimo fondato su un eclettismo, un filo che tiene insieme e rende continua la conversazione, che appare come sfondo: la scrittura tardoromantica, l’uso virtuosistico dello strumento, gli slanci lirici alla Sibelius, i ritmi dei balletti stravinskijani, gli impasti timbrici raffinati e ricchissimi (l’orchestra è ampia, comprende anche due arpe, celesta e pianoforte). Tutto però esibito come dinamico – lontano e poi vicino – e inafferrabile: ciò che rispetta il passato, e da esso impara, ha comunque lo sguardo rivolto al futuro. Come Zemlinsky, Mahler, Schreker, Szymanowski ha il senso della decadenza, ma scrive un concerto a colori, affacciato ottimisticamente sul domani (il finale spiritoso e leggero lo conferma). Sicché si sentono dissonanze e ritmi sfasati fare da contraltare a istanti ipertonali, roba da romanticismo di un secolo prima, come a voler tenere in ballo tutte le cose, indicando la direzione più plausibile da perseguire. In Szymanowski c’è ancora un’idea di graduale trasformazione del linguaggio musicale, fatto di tensioni e contrasti, ma non di lacerazioni o rotture nette con il passato. Nella sua musica però l’intera gamma della possibilità è messa in rapporto dialogico, non in semplice e conflittuale compresenza come, per esempio, in Ives. Sarà il suo connazionale Lutosławski a continuarne gli intenti prendendone a modello la poetica (il Concerto per pianoforte, scritto settanta anni dopo, rivelerà parecchie affinità).
Il concerto segna anche il trionfo del violino, celebrandone la nobiltà. Come accade fin dall’apertura del brano, il violino erra tra le note più acute, nel registro altissimo, quasi a voler toccare il cielo, tentando di elevarsi. È un uccello che ogni tanto si mescola alla terrena orchestra, ma senza toccarla, perché quando decide di volare basso va velocissimo, schizzando qui e lì; quando invece svetta, suona note lunghe, muovendosi lentamente, tanto nessuno può sfiorarlo. E dall’alto saluta gli altri, che appaiono come formichine, fino al gesto finale (un fischiettare di armonici che trasfigura il suono del violino, neanche sembra più lui), da genio della lampada che si dilegua.
•Kurt Sanderling, Leningrad Philharmonic Orchestra; David Oistrakh, violino (Artia, 1960; Regis, 2013)
•Witold Rowicki, Warsaw National Philharmonic Orchestra; Wanda Wilkomirska, violino (Rediffusion, 1977)
•Karol Stryja, Polish State Philharmonic Orchestra; Konstanty Andrzej Kulka, violino (Naxos, 1996)
•Daniel Harding, London Symphony Orchestra; Nicola Benedetti, violino (Deutsche Grammophon, 2005)
(1916)
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Giacomo Puccini
(1858-1924)
La rondine è una felice dimostrazione di quanto la musica possa confezionare una delizia, una chicca, in pieno e difficile tempo di guerra.
Il mondo dei melomani, e dei critici, si divide in chi ritiene la terzultima opera di Giacomo Puccini una realizzazione minore, malriuscita, e chi un capolavoro misconosciuto o non pienamente compreso. «Una solenne porcheria», la definì ironicamente l’autore stesso, intendendo non davvero darsi addosso, ma volendo spiegare di aver adoperato gli stilemi che si applicano a un’opera leggera, sapendo di aver composto un lavoro di qualità senza però particolari pretese intellettuali. In effetti a Puccini fu chiesto inizialmente da un editore viennese di scrivere un’operetta, genere alla moda nel quale il compositore non si era mai cimentato, ma durante il processo di stesura della musica sulla drammaturgia e sul testo di Giuseppe Adami decise di scrivere un’opera lirica vera e propria, tutta musicata e cantata (per quanto il canto di conversazione prevalesse sulle arie), di impostazione classica e arricchita però al contempo di ritmi da ballo. Ne venne fuori un’opera davvero originale, pucciniana nei suoni e nelle melodie, ma certamente unica nella sua produzione (persino la sola non essere pubblicata da Ricordi!), ergo meritandosi l’appellativo di “commedia lirica”, che non è melodramma, né opera buffa, tanto meno – appunto – operetta.
La leggerezza dei tre brevi atti qualifica l’opera pucciniana come in nessun altro caso, neanche in quello costituito dal Trittico. L’introduzione è modernissima – con un incedere da musical, tra Satie e Bernstein – e conduce subito al dominante ritmo di valzer che ritroveremo lungo tutta l’opera. Tra brevi leitmotiv che tornano qui e lì, i tanti ballabili che si alternano caratterizzano La rondine: foxtrot, one-step, tango, polka. Senza contare le ascendenze orientali nei temi il cui largo uso era iniziato nella Butterfly. Questi continui riferimenti ai due estremi, l’Occidente rappresentato dall’America, l’Oriente dal Giappone, e da ciò che c’è al centro, vale a dire la tradizione europea, mostra un Puccini maturo, che ha ascoltato molto e che cerca una sintesi musicale in un mondo ormai chiaramente globalizzato che volge al cambiamento. Solo una cosa non cambia mai, l’amore e quindi le storie che lo riguardano. Così la trama (semplice e schematica, ricorda nell’alternarsi dei luoghi abitazione-locale pubblico-abitazione La bohème) è più classica che mai, sebbene – una volta tanto – la protagonista faccia un fine diversa dalle solite donne pucciniane, votate al sacrificio estremo. Qui Magda è una donna libera, moderna, e il suo di “sacrificio” è più realista, attuale, e meno romantico, quindi forse – se vogliamo – ancora più triste, arrendendosi a una vita di agi e rinunciando così all’amore vero (l’unica a superarla in freddezza sarà Turandot, chissà se questo cambiamento progressivo del carattere dei personaggi non fosse frutto di un precorso programmatico del compositore).
Nella Parigi di fine Ottocento, Magda è l’amante del ricco Rambaldo. Una sera, a casa, il poeta Prunier le predice, leggendole la mano, un volo come quello di una rondine che va altrove, verso l’amore. Già a quest’altezza, siamo all’inizio, si innesta il primo brano passato alla notorietà, l’aria «Chi il bel sogno di Doretta» che lo stesso chansonnier esegue al pianoforte.
Nel locale Bal Bullier Magda incontra il giovane Rambaldo del quale si innamora a prima vista ma a cui nasconde la sua vera identità presentandosi come Paulette. Quando arriva Rambaldo, i due fuggono insieme per iniziare la loro storia d’amore. Così la rondine prende il volo. È il momento dell’altro numero celebre, uno dei pochi brani lungamente cantabili dell’opera, «bevo al tuo fresco sorriso», che è peraltro anche uno dei duetti più belli della lirica. Dopo, un coro femminile lontano, indifferente, avverte degli inganni dell’amore («dell’amor, non fidar»). È interessante notare come la melodia si sviluppi alternandosi a un ripetuto, come un ostinato, motivo discendente di sei note suonato dal fagotto; motivo che ritroviamo un semitono sopra, e con una leggera diversità ritmica ma utilizzato allo stesso modo, cioè come un riff, dalla chitarra elettrica in una canzone rock del 1971: Life’s a gas dei T-Rex. Molto probabilmente è un caso, ma piace pensare che l’avvertimento sulla cautela nel coinvolgimento amoroso sia stato assorbito nel cinismo scrollaspalle contemporaneo per cui, comunque vadano le cose, qualsiasi impresa si compia, la vita è un soffio – e uno spasso – (come dice il testo della canzone) e tutto si dissolve.
L’idillio si consuma in una modesta stanza in Costa Azzurra (la profezia di Prunier si era avverata) ma dura poco perché, quando Ruggero, previo benestare della madre, propone alla donna di sposarlo, lei rifiuta – sentendosi anche in colpa per aver sempre mentito («nella tua casa io non posso entrare») – e torna, volando di nuovo via, a Parigi dove condurrà una vita senza amore ma di alto profilo sociale.
Esistono più finali pensati da Puccini, uno dei quali è forse anche più convincente perché maggiormente probabile e meno legato all’idea onnipresente di sacrificio: è Ruggero, scoperte le bugie, a cacciare Magda. A ogni modo la modernità resta, certificata da leggiadria, sintesi e una certa velocità di svolgimento della storia, nonché dall’eclettismo musicale. Temi brevi, cambiamenti serrati, l’opera corre in fretta e i momenti narrativi si alternano stretti: i tempi della Rondine sono cinematografici. E Magda, che compie le sue scelte indipendentemente dai costumi, si mostra come personaggio protofemminista donando all’opera un ulteriore aspetto di contemporaneità.
•Francesco Molinari Pradelli, Orchestra della RCA italiana; Anna Moffo, soprano; Daniele Barioni, tenore (RCA, 1955; BMG, 1994)
•Gianluigi Gelmetti, Orchestra Rai di Milano; Cecilia Gasdia, soprano; Alberto Cupido, tenore (Warner, 1981)
•Lorin Maazel, London Symphony Orchestra; Kiri Te Kanawa, soprano; Placido Domingo, tenore (Sony, 1982)
•Antonio Pappano, London Symphony Orchestra; Angela Gheorghiu, soprano; Roberto Alagna, tenore (EMI, 1996)
(1917)
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Erik Satie
(1866-1925)
Se alla fine dell’800 il grande contributo alla nuova musica Erik Satie lo aveva dato attraverso i lavori per pianoforte (esemplari: le scarne melodie accompagnate da ieratici accordi delle Gymnopédies, che precorrevano la musica ambient; l’ossessiva ripetitività nonsense di Vexations, che costituiva un minimalismo in nuce), nel ’900 allarga – assieme alla conoscenza tecnica – la tavolozza dei colori strumentali all’orchestra (mai però una grande compagine sinfonica, semmai arricchita di strumenti bizzarri). Così, tra le altre cose, Satie consegna al pubblico – e a una sospettosa critica – la “musique d’ameublement” (intorno agli anni ’20), il dramma sinfonico Socrate (1918), i tre balletti Parade (1917), Mercure (1924) e Relâche (1924).
Parade allora fu certamente una novità, non solo a livello artistico, ma anche sotto l’aspetto produttivo, giacché fissava un modello collaborativo da star system.
L’idea fu di Jean Cocteau, grande ammiratore di Satie. Ascoltando le sue Trois Morceaux en form de poire per due pianoforti (una delle più efficaci espressioni del Satie leggero e spiritoso) aveva capito che il compositore andava in una direzione interessante e particolarmente affine alla sua, ossia verso un’arte d’evasione, non più impegnata: «Satie – disse Cocteau – insegna la più grande audacia della nostra epoca: essere semplice». Pensò allora a un balletto realista, che fosse una parata di numeri circensi. Il “realismo” per Cocteau era il cubismo, ossia un modo di rappresentare la realtà per volumi materici, concreti.
Sarà poi Guillaume Apollinaire, la firma più prestigiosa a recensire il balletto, a battezzare Parade “surrealista”, coniando così il termine, intendendo con la parola un realismo più vero del vero, un’esposizione delle cose così come sono, senza la mediazione dell’interpretazione. Cocteau come autore del soggetto era solo il primo dei nomi illustri che collaborarono alla realizzazione del balletto, il quale venne prodotto dai mitici Balletti Russi di Djagilev con tutti i potenti mezzi della – di lì a breve rodata – ...