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Messicani negli USA

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Messicani negli USA

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Quando il Messico conquistò la sua indipendenza nel 1821, vasti territori che ne facevano parte rientrarono nelle mire dei vicini Stati Uniti. Negli anni successivi gli USA ne conquistarono il controllo a prezzo di guerre e contraddizioni: parliamo di California, Texas, Nevada, Arizona, Utah e parte del Nuovo Messico, Colorado e Wyoming. Tali territori erano abitati non solo da popolazioni di nativi (i cosiddetti «pellerossa») ma anche da meticci di lingua spagnola, molti dei quali proprietari e coltivatori diretti che vennero spossessati a viva forza e costretti a prestare la loro manodopera nei grandi latifondi anglosassoni che andavano nascendo. La Raza, pubblicato per la prima volta nel 1972 nell'ambito della collana di antropologia «Occidente a confronto», è diventato un classico della letteratura che si può identificare come antropologia politica. Di fronte alle decisioni dell'Amministrazione americana condotta da Donald Trump, quest'opera di Stan Steiner rimane un contributo indispensabile per cogliere il radicamento di una popolazione e di una cultura nel territorio degli Stati Uniti d'America.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800618

PARTE TERZA

XVIII

NELLE VIGNE DEL SIGNORE DELLA TERRA

1. L’uomo che lavorò per trenta anni senza paga

Nel vecchio Montoya Ranch, nelle colline a nord di Albuquerque, un ragazzo venne a cercare lavoro. Era l’estate del 1933. Aveva tredici anni a quel tempo, e fu assunto come operaio in un ranch, per 75 cent al giorno. Abernicio Gonzales ricorda quel giorno con occhi lontani e tremanti. Ricorda che sua madre si era fatta prestare 50 dollari per le spese del matrimonio di un fratello più grande. Lui pagò il debito con il suo lavoro in circa tre mesi. Ma continuò a lavorare in quel ranch per altri trentatré anni, e dice che non gli diedero mai un soldo.
A quel tempo, nel periodo della depressione, era stato ben contento di avere un lavoro qualsiasi. Si fece convincere, dice, a continuare a lavorare per 50 cent al giorno più il vitto. Lavorava duramente; piaceva al padrone del ranch, che promise, visto che era così giovane, di metter da parte i suoi salari per lui. Lui accettò a malincuore. Ogni volta che il ragazzo chiedeva di vedere il suo conto in banca, veniva intimorito e messo a tacere. Quando tentò di abbandonare quel lontano ranch, fu picchiato. Il ragazzo crebbe e diventò un uomo, ma aveva paura ad andarsene, temendo di perdere quegli anni di risparmi che gli erano stati promessi. Era un servo della gleba, alla metà del ventesimo secolo, negli Stati Uniti.
Un giorno del 1966 Gonzales scappò dal Montoya Ranch. Aveva quarantasei anni, era senza un soldo, non conosceva il mondo, ed era sconcertato perché aveva scoperto l’odio. Citò in giudizio il padrone del ranch per avere i suoi trentatré anni di paga arretrata, a 50 cent al giorno con l’interesse del 6%, ma naturalmente nessun tribunale poteva risarcirlo per la gioventù perduta e per la virilità sottrattagli.
Un ragazzo può venir intimorito. Ma come può un uomo fatto continuare come aveva cominciato il ragazzo? Un anno dopo l’altro, visse come uno schiavo. Si era reso schiavo da solo. Le abitudini e le paure di un uomo che pensa di non avere diritti lo tengono legato alla schiavitù, strette come se fossero vere catene.
«Ci sono centinaia di persone tenute in schiavitù in lontani ranch in tutto il Sud-Ovest degli Stati Uniti» dichiara El Malcriado, il giornale dei braccianti. «È risaputo…».
Non c’è uomo che abbia minori diritti. Il campesino guadagna meno di chiunque altro, come salario e come rispetto. Se è un operaio emigrante «i suoi salari sono i più bassi della nostra forza-lavoro nazionale», riferisce il Senate Subcommittee on Migratory Labor in The Migratory Farm Labor Problem in the United States (1967). Negli anni scorsi questi emigranti ricavarono in media poco più di 100 dollari all’anno dal lavoro nei campi. Ed ebbero la fortuna di aggiungervi 600 dollari grazie a lavori vari, fuori stagione. I salariati impiegati regolarmente ebbero qualcosa di più, ma non molto.
Ci sono più braccianti nelle campagne che operai nel settore siderurgico, nel settore automobilistico, e nel settore aeronautico. Malgrado le macchine agricole di Rube Goldberg, i calcoli censitari dicono che ci sono 1.400.000 braccianti. Di questi, più di 200.000 sono emigranti. Poiché i calcoli censitari non includono i ranch fuori mano, i vicoli poco noti dei barrios, e gli inafferrabili pendolari di frontiera che passano il Rio Grande: ce ne sono senz’altro molti di più che non sono stati conteggiati. I braccianti sono un esercito affamato.
Nei campi i salari non sono soltanto «i più bassi», ma si abbassano ancora. La produzione «pro capite» nelle campagne aumentò del 270% dal 1947 al 1964, i salari aumentarono solo del 64%, nella fabbriche invece, nello stesso periodo, la produzione «pro capite» aumentò del 160%, mentre i salari aumentarono solo del 107%. Al contrario degli operai agricoli, gli operai industriali hanno i sindacati. «Il divario tra i guadagni agricoli e quelli non agricoli si è continuamente approfondito», riferisce il Senate Subcommittee. Non solo, ma «tra il 1940 e il 1964 il reddito agricolo lordo aumentò da 11,1 a 42,2 milioni di dollari. Tuttavia il bracciante medio, ancora oggi, guadagna un salario giornaliero sotto i 9 dollari. Nessun altro settore della nostra popolazione è pagato così poco e contribuisce così tanto al benessere e alla prosperità della nostra nazione».
Perciò dico ai miei amici
Di non vendere sé stessi;
Chi vende sé stesso
Sarà sempre uno sconfitto.
È una canzone del campesinos, del giovane raccoglitore d’uva e poeta, e cantante di El Teatro Campesino, Agustín Lira. Dice così:
Guarda, guarda, guarda, guarda
Guarda, guarda come lavorano
Se si fermano per riposarsi
Perdono il posto.
Spesso il campesino ha la sensazione di essere preso in trappola dal suo lavoro, nei campi di un estraneo. Dice un campesino di Delano: «Proprio non si va via dai campi. Secondo me è molto duro. È qualcosa a cui si resta attaccati tutta la vita. Non si riesce proprio ad andarsene in nessun altro posto perché non si ha l’istruzione, non si ha l’esperienza».
«Io non sono niente», dice un altro campesino. «I miei bambini, loro, avranno un’istruzione e saranno qualcuno».
«Non abbiamo niente, a parte le nostre mani», dice una donna. «Mani vuote».
È una sensazione di nullità che è espressa nel lamento di El Malcriado. «Abbiamo visto come essi si sono impadroniti del lavoro delle nostre mani e dei nostri corpi e si sono arricchiti, mentre noi siamo rimasti a mani vuote tra la terra e il cielo. Noi che siamo braccianti siamo stati insultati. Ci siamo visti trattare come bestie. Abbiamo visto i nostri bambini, nelle scuole, trattati come esseri inferiori. Abbiamo visto sulla faccia del cop la nostra ineguaglianza di fronte alla legge. Abbiamo sperimentato cosa vuol dire non essere rispettati, essere indesiderati, vivere in un mondo che non ci appartiene».
In una piccola casa ai margini della città, il campesino vive tranquillamente. Non dà fastidio a nessuno. Di solito sta più lontano che può dalle strade del centro. Si sente a disagio laggiù,
Un uomo dice: «Essi vogliono il nostro lavoro. Ma non ci vedono di buon occhio. Noi non andiamo dove non siamo desiderati».
Ciononostante, è un uomo di città. Molti campesinos vivono in città, al giorno d’oggi. Un’inchiesta sull’occupazione nello Stato di California mostra che, persino nella supermetropoli di Los Angeles, il 7% degli uomini nei barrios di East Los Angeles sono braccianti. Il mito dell’emigrante «scalcinato» e «sprovveduto» che vaga eternamente su un vecchio macinino, come uno zingaro povero e sporco, non esiste più nel Sud-Ovest urbano, eccetto che nei vecchi film.
Però non prende parte alla vita cittadina. Viene ignorato dalle élites della città, di qualunque gruppo. Paga poche tasse, perché il suo reddito è troppo basso, e così non ha voce in capitolo. Non è rappresentato nella città stessa in cui vive.
«Vede, il bracciante è un estraneo, anche se per caso è un lavoratore residente in città», dice César Chávez. «È un estraneo economicamente, ed è un estraneo dal punto di vista razziale. La maggior parte dei braccianti sono di origine etnica non bianca.
«Perciò, con poche eccezioni, non sono stati parte integrante delle comunità in cui vivono. La maggior parte di loro non sa come o perché o da chi sono fatte le leggi. Chi li governa. Niente di tutto questo. Non gliene importa davvero», dice Chávez.
È il suo isolamento dalle fonti del potere che decide della sua vita che ha fatto del campesino un reietto. Il divario tra le due parti della città, che sono più o meno due società distinte, è sembrato invalicabile. «Il nostro colore, la nostra lingua, il nostro lavoro, ci hanno tenuti in disparte», dice El Malcriado. «E la gente che trae profitto dalla nostra segregazione è decisa a fare in modo che tutto rimanga così».
Un campesino si guarda attorno e vede che è trattato come se non esistesse. Le leggi che proteggono gli altri lavoratori non vengono applicate nel suo caso. Nei campi, i regolamenti sanitari sono spesso ignorati. Nelle cittadine di campagna i normali servizi sanitari e civici spesso non raggiungono la sua piccola abitazione. Persino i suoi bisogni più comuni sul lavoro – come l’acqua da bere e l’uso dei gabinetti – vengono ignorati. I regolamenti edilizi non vengono rispettati nei barrios e nelle colonias. Gli stessi campi di lavoro che servivano trent’anni fa, all’epoca dell’inchiesta del La Follette Committee, servono ancora da abitazioni per i nostri lavoratori», dice Chávez al Senate Subcommittee on Migratory Labor. «Niente è cambiato».
I campesinos non sono gli uomini invisibili del ghetto. Sono vigorosi, sensuali, pieni di vita, forti come rocce, vivaci come il sole, e a volte oscuramente emotivi. Al bar sono chiassosi, e gridano Viva! alla TV; e in chiesa sono riverenti, con passione, e pubblicamente. Soffrono poco di crisi di identità. Ciononostante, questi stessi uomini dicono: «Io non sono niente!».
La sensazione di nullità del campesino è il riconoscimento di ciò che esiste, di come è la vita. Non è solo autonegazione, e neanche l’umiltà del povero. Il suo è un mondo fatto di tanti «niente». La nullità discende sui campi di lavoro e sulle case dei barrios dal mondo esterno, quasi con una forza fisica. Come un’impenetrabile nebbia bianca, a volte è così densa che nasconde a un uomo la sua stessa identità.
«Le dirò la verità», dice un giovane campesino di Del Rio, Texas. «Quando sono tra voi, non sono l’uomo che sono. Sono l’uomo che voi pensate che io sia. Un imbecille!».
«Chi ci ha castrati? Io dico che noi castriamo la nostra virilità» dice Rodolfo González. «Per che cosa? Per le briciole sul tavolo che ci sono state promesse, un giorno. Così ci inchiniamo a leccare le briciole sul pavimento, dicendo: “Sì, signore! Sì, signore! Grazie, signore!”».
Assume un’aria minacciosa: «È tutto un inchino mentale».
È «un mondo di fantasia», pensa César Chávez, un «atteggiamento mentale» che è ciò che resta della vecchia sindrome del patrón che asservisce i campesinos attraverso il loro stesso senso di impotenza e di servilismo, non meno che grazie al potere dei padroni dei ranch». C’entra moltissimo il paternalismo. Prima, quando il padrone passava, se l’operaio moriva di sete gli diceva: «Non ho sete, patrón». E qualsiasi cosa lo facesse soffrire, lo colpisse, non si lamentava mai. Adesso ribattono, anche se hanno bisogno di un sindacato e di guadagnare più soldi, credono nella loro dignità, È davvero un mondo di fantasia.
Non tutte le loro paure sono fantasie. C’è la paura reale dell’uomo invisibile che pensa che egli stesso, o un parente, possa venir deportato se diventa troppo visibile.
Mentre ripeteva la sua storia di vent’anni trascorsi nei campi – storia di malattie, di morti, di fame e di trattamento disumano – il Senate Subcommittee on Migratory Labor chiese alla signora Guadalupe Olivarez:
Senatore Robert Kennedy: L’ha riferito a qualcuno?
Signora Olivarez: No.
Senatore Robert Kennedy: Perché?
Signora Olivarez: Beh, le dirò soltanto una cosa, ecco, noi braccianti, noi abbiamo paura.
Senatore Robert Kennedy: Perché ha paura?
Signora Olivarez: Perché l’ho vista. Beh, non farò nomi. Noi non eravamo soddisfatti di quello che ci facevano nell’azienda per la quale lavoravamo, così ci ribellammo, e ci fu una specie di sciopero. E così ci fu una donna, sa, che parlò per tutti noi, e così quella donna fu licenziata perché fu chiamata «agitatrice». Così, vede, signore, ecco perché abbiamo paura di parlare.
C’è la paura della fame…
Nelle cucine la fame si vede sulle tavole nude, nei piatti variopinti di fagioli e cereali. Le strane pentole ammaccate sulle traballanti stufe a kerosene hanno un odore nauseante che si mescola col delizioso aroma del chili bollente che cuoce. E c’è l’odore stantio delle uova in polvere e degli avanzi delle razioni di cibo. Questi sono gli aromi della fame.
D’inverno gli occhi dei bambini diventano freddi, anche se le stufe a kerosene nelle case dei campesinos trasudano un calore fragrante. Il lavoro nei campi è stagionale, e d’inverno non c’è molto da fare. Gli uomini si siedono ad aspettare. Nelle cittadine di campagna c’è poco da fare, si può soltanto sedersi e aspettare; i lavori sono pochi, i senza lavoro sono molti.
Non ha senso parlare di alti salari e di bassi salari per un lavoro così stagionale. Il campesino deve guadagnare nelle stagioni della crescita e del raccolto, con il lavoro di tutta la sua famiglia, tanto che basti per tutto l’inverno. La sua famiglia muore di fame se non riesce a risparmiare. Il reddito del campesino è incerto. È difficile avere delle statistiche. E quelle disponibili sono insufficienti, poco accurate e contradditorie. In linea generale è sufficiente ricordare che tutte concordano sul fatto che il reddito annuale del campesino medio è circa un terzo del reddito familiare nazionale di un operaio di fabbrica.
E anche questo fa paura a un uomo. Non ha un salario su cui potersi basare. Quando viene la stagione, non sa mai cosa gli porterà. La siccità e la pioggia, che preoccupano il padrone, sono mali ancora peggiori per il campesino. Nell’inverno la sua famiglia può morire di fame. Così lavora più duro, viaggia più svelto, va più lontano, si lamenta di meno. Dopo il raccolto, ci sarà poco da fare per lui, oltre a sedersi e aspettare la primavera.
L’attesa avvilisce un uomo. Lo fa diventare tetro. È un niente che non fa niente.
«La gente che ha fame non ha spirito, non ha forze per combattere. Alla gente che ha fame non importa chi prende le decisioni che la riguardano, basta che la propria famiglia non muoia di fame», dice César Chávez. Lo dice con enfasi, in una maniera insolita per lui, con voluta durezza. «La gente che ha fame prima di tutto deve mangiare».
«Mangiare viene prima della religione e dell’arte», dice. «È un vecchio proverbio messicano».
Gli chiedo: «Anche prima dell’amore?».
«No», dice Chávez con un mezzo sorriso. «Ma certo prima della politica. Pane e uova sulla tavola, ecco il problema più importante».
Nella Starr County, Texas, una madre di sei bambini parla della fame. È la signora E.F. Gutierrez. È stata la direttrice di un Community Action Program per braccianti, andava da un barrio all’altro a consolare gli affamati con le sue parole.
«Si muore letteralmente di fame», dice. «Sono stata in una casa dove ho visto una bambina piccola, di due anni che mangiava farina d’avena direttamente dal contenitore di cartone, con le dita. Asciutta e cruda».
«E io ho detto: “Perché non la mettete in una pentola a cuocere? Avrà un sapore migliore”».
«E la madre mi ha detto: “Non ho una s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Nota di edizione
  6. Prologo: Cleofas, l’uomo della terra
  7. Parte prima
  8. Parte seconda
  9. Parte terza
  10. Epilogo: Il poeta sul ring
  11. Fonti