RETE E ORDO-MACCHINISMO
Lelio Demichelis
Ammettiamolo: tutti noi che ci occupiamo di tecnica, di capitalismo e di neoliberalismo (neoliberismo e ordoliberalismo) e delle conseguenti trasformazioni avvenute nell’organizzazione del lavoro e della vita umana, siamo in debito culturale/intellettuale con Sergio Bellucci e con il suo E-work. Anche se tra la nostra interpretazione dei processi intervenuti e della trasformazione o Transizione che sarebbe in atto e la sua vi sono alcune differenze importanti pur in una condivisione di fondo: la prima è quella della discontinuità (Bellucci, 2005) o continuità (chi scrive) tra pre-digitale e digitale. Ovvero, per noi non vi è alcuna reale (ma apparente sì – infra, il concetto di nuovo) discontinuità storica: non siamo in una rivoluzione digitale ma solo nella forma digitalizzata di una unica rivoluzione industriale iniziata a metà ’700. Ma soprattutto, siamo sempre più dentro al tecno-capitalismo diventato ormai una antropologia, una ontologia, una teologia e una teleologia/determinismo (non ci sarebbero alternative) e non solo un sistema produttivo e di consumo. Dove appunto ad essere messa a valore è la vita intera dell’uomo e insieme la vita intera è formattata e incessantemente resettata in senso tecnico e capitalistico. Ed è appunto la consapevolezza che questa è solo la nuova fase digitale del tecno-capitalismo di sempre e quindi la consapevolezza delle sue ascendenze ottocentesche e novecentesche che manca, vedendo discontinuità dove (secondo noi) c’è invece continuità: tanto è vero che usiamo concetti come taylorismo digitale per definire l’organizzazione del lavoro anche nell’Industria 4.0 e nelle piattaforme (ma, date le reali condizioni di lavoro potremmo anche togliere l’aggettivo, essendo purissimo taylorismo l’organizzazione del lavoro anche nel mondo digitale).
E se oggi le informazioni (e le relazioni che generano informazioni) sono la base per il fare digitalizzato e soprattutto per il far fare – ossia sono divenute una merce tra le merci nel sistema capitalistico delle merci, per di più ad alto tasso di valorizzazione capitalistica, in realtà è la vita intera ad essere divenuta merce, messa a crescente pluslavoro per il plusvalore del capitalista che da essa (e oggi anche dal lavoro implicito in tutte le sue possibili declinazioni, che a sua volta è una delle possibili forme di pluslavoro del vecchio/nuovo lavoro a domicilio), estrae sempre maggiore profitto per sé. Per cui la classica formula D-M-D’ (che si affianca al D-D’ della finanziarizzazione, cioè della produzione di denaro a mezzo di denaro) va ora meglio specificata (semplificando molto) in D-M(V)-D’ – dove la M è appunto oggi la vita intera dell’uomo (relazioni, informazioni, sentimenti, emozioni, e quant’altro) diventata merce. Avere tradotto anche le informazioni ma soprattutto la vita (di cui le informazioni sono una componente) in merce e in forza lavoro-merce a pluslavoro incessante e crescente, dimostra solo che il tecno-capitalismo va a cercare il profitto ovunque la tecnica glielo permetta; e se ieri c’era la fabbrica fordista-taylorista oggi vi è la fabbrica-rete-fordista-taylorista. Per questo continuiamo a usare concetti e paradigmi interpretativi otto-novecenteschi: perché il tecno-capitalismo è sempre (apparentemente) diverso ma sempre (sostanzialmente) uguale, portandolo a mettere infine a pluslavoro non solo un lavoro distinto dalla vita, come ieri, ma una vita indistinta dal lavoro.
Analogamente riteniamo che i processi di matematizzazione (legati alle informazioni, ma non solo) non siano cosa recente, ma risalgano almeno al positivismo ottocentesco (se non alla rivoluzione scientifica) e poi al pragmatismo americano novecentesco e a tutta quella (falsa) razionalità strumentale/calcolante-industriale (ancora la Scuola di Francoforte, più attuale che mai). Razionalità irrazionale (secondo Marcuse e Horkheimer) e anti-illuministica che è il vero pensiero unico della modernità e che ha permesso al tecno-capitalismo di essere sempre più una antropologia, una ontologia/teologia/teleologia totalitaria. E così pure come siamo convinti che i processi di esternalizzazione del lavoro/lean production di questi ultimi anni grazie alla rete/piattaforme abbiano la loro premessa nella esternalizzazione produttiva/lean production degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: quando le retoriche dominanti erano tutte centrate sulla virtuosità a prescindere del piccolo è bello e dei distretti industriali e del capitalismo molecolare ben analizzato da Bonomi – e oggi diciamo auto-imprenditorialità ma il meccanismo è assolutamente identico, la differenza è nel mezzo di connessione usato per integrare quelle che allora avevamo definito imprese non libere e indipendenti del capitalismo molecolare/diffuso, ma subordinate e dipendenti dai committenti, così come oggi i rider/falsi lavoratori autonomi o i lavoratori uberizzati sono in realtà subordinati e dipendenti dall’impresa-madre/committente-capofiliera in quel distretto globale che è appunto la rete dove tutti sono al lavoro e sincronizzati con gli altri e tutti lavorano coordinati dalla rete/algoritmo. E ricordiamo di passaggio che già Henry Ford, cento anni fa, aveva capito che più che accentrare è meglio “dirigere numerose piccole unità produttive, da una maggiore unità amministrativa, perché una amministrazione efficiente si basa sulle registrazioni, sulla progettazione, sullo studio delle operazioni e su buoni sistemi di comunicazione e non necessariamente sulla possibilità di supervisione diretta e locale”: e oggi le registrazioni/informazioni sono su hard disk o cloud e digitalizzate, le operazioni progettate sono definite dall’Industria 4.0 o dal WCM o dal management algoritmico e il buon sistema di comunicazione è appunto la rete/algoritmi/AI, eccetera.
Rileggere E-Work
Ma andiamo con ordine. Da allora sono passati quindici anni e ciò che Bellucci analizzava e spiegava si è accentuato, aggravato, approfondito, evoluto o più spesso (nella nostra lettura né tecnofoba né tecnofila, ma critica) involuto. Ovvero, l’innovazione tecnologica non sempre ci fa andare avanti e oggi ci fa soprattutto tornare indietro quanto a diritti del lavoro e a scomposizione della rappresentanza del lavoro (e al diritto al lavoro), ma anche in termini di democrazia, libertà, responsabilità. Ripensiamo ad esempio – tra i molti analizzati e sviluppati da Bellucci – i concetti (di nuovo) di taylorismo digitale e di “taylorismo integrale e integrante, un taylorismo integralista perché consapevole di avere conquistato terreno fino alla stessa produzione di linguaggio” (2005, p. 63); di fabbrica-mondo (ivi, pp. 80 e 102) che oggi è diventata – nella nostra ri-definizione del 2008 – la fabbrica-rete o la rete come nuova catena di montaggio, posto che da allora e sempre più “la parcellizzazione viene ripensata come la possibilità di congiungere il ciclo, ovunque i suoi pezzi siano ubicati (de-spazializzazione)” (ivi, p. 57); di lavoro implicito che oggi comprende soprattutto (anch’esso a produttività/mobilitazione totale globale e crescente) il lavoro di produzione di dati. Nel frattempo, sono arrivati: il capitalismo delle piattaforme (e l’uberizzazione del lavoro e la sharing/gig economy); i social; l’apprendimento automatico/machine learning-deep learning; la fabbrica/industria ancora più integrata 4.0 e just in sequence; l’IoT; la I.A. e le smart-cities e lo smart-working. Su tutto, gli algoritmi: diventati una presenza pervasiva, invisibile ma potentissima quanto a biopotere (usando Foucault) o ad amministrazione e automatizzazione (usando la Scuola di Francoforte) della vita umana. Con gli algoritmi arrivando a quello che Shoshana Zuboff ha definito capitalismo della sorveglianza ma che in realtà esiste da sempre (Demichelis, 2019) – il controllo essendo implicito nella forma e nella norma organizzativa del tecno-capitalismo da quando esiste la rivoluzione industriale (anche qui, i concetti del passato sono utili e necessari per capire il nuovo apparente): semmai oggi è solo aumentata la capacità del tecno-capitalismo di estrarre valore immediato e non solo mediato come in passato, dal controllo/spionaggio di massa (pensiamo alle 300mila schedature politiche alla Fiat negli anni ’50 e ’60, che avevano fatto scandalo; e ai 2-3 miliardi di persone spiate/profilate oggi via rete, senza scandalo alcuno). E grazie al controllo, è aumentata la capacità di produrre la modificazione comporta-mentale automatizzata delle condotte umane (da ultimo, Sadin, 2019, pp. 132 ss.). Influenzandole, guidandole, determinandole in modo eteronomo. Dove per ingegnerizzazione dei comportamenti (di lavoro e di consumo, di produzione del consenso per il sistema) si deve intendere la costruzione (via struttura e sovrastruttura, educazione e formazione, soprattutto mass media) di una personalità funzionale al funzionamento del sistema. Scriveva, negli anni ’30 del ’900 il neoliberale statunitense Walter Lippmann (1889-1974): il neoliberalismo “è l’unica filosofia che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”, che a sua volta è un dato storico che non può essere modificato. Quindi: “Il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso”. Conseguentemente, per i neoliberali i problemi delle società moderne sorgono solo “quando l’ordinamento sociale si sfasa e si disarmonizza rispetto alle esigenze della divisione del lavoro”, mentre l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico (cit. in Dardot e Laval, 2013-2019). E quindi l’individuo neoliberale non è più soggetto della propria vita ma diviene oggetto di una continua costruzione eteronoma di sé (appunto definibile e definito come human engineering), dal fordismo ...