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Da colonia italiana a colonia globale

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Da colonia italiana a colonia globale

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Nei primi mesi del 2011, a cent'anni esatti dall'impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest'attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l'Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale. Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l'ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all'entrata in guerra della nato contro Mu'ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell'operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria. Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos'è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l'autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.

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Informazioni

PARTE SECONDA

«Serpens, sitis, ardor harenae dulcia uirtuti; gaudet patientia duris; laetius est, quotiens magno sibi constat, honestum. Sola potest Libye turba praestare malorum, ut deceat fugisse uiros»1
Marco Anneo Lucano, Farsaglia, Libro IX, 402-407 (65 d.C.)
1«I serpenti, la sete, l’ardore del deserto sono dolci cose per il coraggio, che gode di sopportare le difficoltà; e tanto più piena è la gioia dell’onore, quanto più alto ne è il prezzo. Da sola può la Libia, con tutti i suoi mali, riscattarvi dall’onta di essere fuggiti» (Marco Anneo Lucano, Farsaglia, a cura di L. Griffa, Adelphi, Milano 1967, p. 450).

1

«LA PRIMAVERA ARABA»

Il 14 gennaio 2011, a seguito di ampi sollevamenti popolari in Tunisia, veniva deposto il presidente Zayn al-Abidin Ben ‘Ali, al potere dal 1987.
È stata poi la volta dell’Egitto di Hosni Mubarak, spodestato anch’egli l’11 febbraio dopo esser stato, ininterrottamente per oltre trent’anni, il dominus incontrastato del suo Paese, tanto da guadagnarsi l’appellativo non proprio benevolo di «Faraone». Eventi che la stampa occidentale ha subito definito, con la consueta dose di sensazionalismo spettacolare, come «rivoluzione gelsomino» e «rivoluzione dei loti».
In realtà i governi di Tunisia ed Egitto, dopo aver superato le prime fasi critiche delle insurrezioni popolari, che sono costate in entrambi i Paesi qualcosa come mille morti, rappresentano oggi la continuazione «sotto mentite spoglie» dei vecchi regimi1. Una versione nordafricana di «circolazione delle élites», per dirla con Pareto.
Nessun autentico processo di democratizzazione reale vi ha infatti avuto luogo, ma essi sono stati per così dire «aiutati a integrarsi economicamente» agli Stati Uniti e all’UE tramite non meglio precisate «riforme democratiche» e «nuovi investimenti stranieri»2.
La «rivolta» passa quindi dalla Giordania allo Yemen, dall’Algeria alla Siria. E inaspettatamente si propaga a macchia d’olio anche in Oman e Bahrein, dove i rispettivi regimi, aiutati in quest’ultimo caso il 14 marzo dall’intervento oltre confine di forze speciali dell’Arabia Saudita, reagiscono molto violentemente contro il dissenso popolare senza che questo, tuttavia, si tramuti in una ferma condanna dei governi occidentali nei loro confronti3.
Ciò che il regime feudale della Casa dei Sa’ud teme maggiormente, in questa situazione, è che il «contagio» della ribellione possa superare il breve tratto di mare attraversato dalla King Fahd Causeway, la superstrada sopraelevata lunga ventisei chilometri che collega il Bahrein alle coste saudite, e attecchire nel proprio regno. Al di là della minoranza sciita fortemente discriminata, è l’intera popolazione saudita a vivere in condizioni assolutamente poco invidiabili per quello che è pur sempre uno dei Paesi petroliferi più ricchi al mondo. Il 40% della popolazione, in gran parte costituita da giovani, vive sotto la soglia di povertà, senza accesso all’istruzione e senza opportunità di impiego, mentre la maggior parte della manodopera qualificata e non qualificata viene importata dall’estero.
Solo il re del Marocco sembra voler prevenire il peggio e il 10 marzo propone la riforma della costituzione.
1Non a caso in Tunisia, per esempio, i ministeri della Difesa, degli Interni, degli Esteri, delle Finanze, del Commercio e dell’Industria rimangono saldamente in mano a esponenti del disciolto Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD) e del vecchio regime. Cfr. R.G. Khouri, The Arab Military is Not the Solution, in «Agence Globale», 5 febbraio 2011; S. Ghannoushi, Obama, hands off our Spring, «The Guardian», 26 maggio 2011.
2N. Gaouette e V. Ginger, Clinton will Travel to Egypt, Tunisia, Meet with Libyan Opposition Leaders, in «Bloomberg», 10 marzo 2011. Le potenze che hanno mosso guerra contro la Libia hanno cercato di rendere subito operativa quest’«integrazione» dei Paesi del MENA (Nord Africa e Medio Oriente) durante il vertice G8 di Deauville del 26-27 maggio 2011, impegnandosi a erogare «un pacchetto finanziario globale da 40 miliardi di dollari per sostenere la primavera araba» (G8 a Libia e Siria: cessino le violenze dei regimi, in «Ansa.it», 28 maggio 2011).
3D. Frattini, La partita sauditi-iraniani in Bahrein, in «Il Corriere della Sera», 15 marzo 2011.

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LE RISOLUZIONI ONU 1970 E 1973 CONTRO LA LIBIA E IL «NUOVO DIRITTO INTERNAZIONALE»

Una volta poste in standby le vicende di Tunisia ed Egitto1, tutti i grandi media internazionali hanno concentrato il loro focus sull’«evidente e sistematica violazione dei diritti umani» (Risoluzione 1970 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 26 febbraio 2011) e sui «crimini contro l’umanità» (Risoluzione 1973 adottata dal Consiglio di Sicurezza il 17 marzo 2011) perpetrati da Gheddafi contro il «suo stesso popolo»2.
Una Risoluzione, quest’ultima, priva di ogni fondamento giuridico e che viola in maniera patente la Carta dell’ONU. Un vero e proprio pateracchio giurisprudenziale in cui una violazione ne richiama un’altra: la «delega» agli Stati membri delle funzioni del Consiglio di Sicurezza è a sua volta collegata alla no-fly zone e contempla l’uso di qualsiasi misura necessaria – salvo l’occupazione militare – per «proteggere i civili libici dalla repressione del regime», oltre all’imposizione del divieto di sorvolo e di un embargo navale sulle forniture di materiali d’armamento3.
Si tratta di misure del tutto illegittime perché, al di là della loro concreta applicazione, l’ONU può intervenire ai sensi dell’articolo 2 (paragrafo 4) e dello stesso capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite solo in conflitti tra Stati, e non in quelli interni agli Stati membri, che appartengono al loro «dominio riservato» e dunque tutte le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza devono rispettare l’articolo 25 della Carta. Strette eccezioni al divieto dell’uso della forza sono contemplate anche dall’articolo 51. Secondo le ultime disposizioni, specialmente dell’articolo 42, viene permesso al Consiglio di Sicurezza di intraprendere un’azione che «può essere necessaria per mantenere o restaurare la pace e la sicurezza internazionale».
Le Risoluzioni 1970 e 1973 affermano di essere entrambe adottate secondo lo spirito e in ottemperanza al capitolo VII della Carta dell’ONU. Ma né l’una né l’altra, a ben guardare, possiedono i requisiti dell’articolo 42 secondo il quale si è decretato il fallimento delle «misure che non prevedano l’uso della forza».
È difficile, per non dire impossibile, capire come si possa giungere a una determinazione simile in un contesto che i grandi media hanno pressoché fin da subito reso assai ostico da decifrare. Quantomeno ci si sarebbe dovuti basare su una missione d’indagine sul terreno. Tuttavia in Libia non si sono recate commissioni d’inchiesta del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza.
Se il diritto internazionale permette che gli Stati utilizzino la forza in circostanze estremamente limitate, esistono ancora meno circostanze nelle quali è permesso ad attori non statali di utilizzare la violenza armata. Una di queste circostanze è quando si eserciti il diritto all’autodeterminazione contro una potenza occupante straniera e oppressiva. Questo può dare diritto agli iracheni o agli afghani di usare la forza contro eserciti occupanti, ma non fornisce a un gruppo di «ribelli» libici il diritto di levarsi in armi contro il governo legittimo del proprio Paese.
Tale double standard nell’applicazione dei criteri di giudizio alimenta sempre più l’idea secondo la quale le due Risoluzioni adottate sono un altro esempio di politiche che minano alle fondamenta il Diritto internazionale. Nel Patto di Parigi del 1928 e di nuovo nella Carta dell’ONU del 1945, gli Stati concordarono di non utilizzare la forza gli uni contro gli altri per raggiungere gli obiettivi della loro politica estera.
Alcune grandi potenze occidentali hanno ripetutamente sfidato questo accordo negli ultimi vent’anni, specialmente considerata la propria disposizione a intraprendere guerre contro Stati a maggioranza musulmana. Nel farlo, tuttavia, hanno inviato attraverso il proprio modus operandi un segnale innegabile al resto del mondo: ossia che il diritto internazionale non ha per essi alcuna impo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Circa l’autore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Nota editoriale
  7. Parte prima
  8. Parte seconda
  9. Indice dei nomi
  10. Dal catalogo Jaca Book