Capitolo sesto
L’APOGEO DEI CHIOSTRI. MONACI E MONASTERI NELLA PRIMA ETÀ CAROLINGIA (751-840)
À l’origine, l’enceinte du monastère bénédictin
renfermait plusieurs sanctuaires:
très souvent trois, comme à Corbie et à Jumièges,
six comme a Saint-Vaast.
Mais très vite, l’évolution se fait vers la réunion
des autels dans un même grand édifice.
Seules subsistent, isolées, des chapelles:
à l’infirmerie, au cimetière,
à la maison des hôtes, au logis de l’abbé
(Eschapasse 1963: 14)
Les moines reformateurs des IXe-Xe siècles
ont-ils repensé et réamenagé l’espace monastique?
L’archéologue confronté a cette question
tente de reconnaître, par la fouille et l’étude du bâti,
des indices permettant d’apporter des réponses
(Sapin 2013: 517)
Re, aristocratici e monasteri: rottura e continuità fra l’età merovingia e l’età carolingia
Quando, nel 754, papa Stefano II venne in Francia per consacrare come nuovo re dei Franchi il maestro di palazzo Pipino III detto il Breve (741-768), figlio di Carlo Martello (714-741), il luogo scelto per la cerimonia di unzione che marcava l’ascesa al potere dei Carolingi e la fine della dinastia dei Merovingi, al potere da oltre duecentocinquanta anni, fu l’abbazia di Saint-Denis, situata alle porte di Parigi. Per quanto l’evento avesse rappresentato uno strappo con la storia e con l’identità stessa del regno, esso si svolse in un luogo che non si sarebbe potuto immaginare più legato al passato. L’abbazia di Saint-Denis era infatti da tempo il tempio prediletto dai sovrani merovingi per la propria sepoltura e aveva da essi ricevuto più volte dimostrazioni concrete di sostegno politico ed economico. La scelta di questo glorioso monastero per conferire consacrazione ufficiale all’avvento di una nuova dinastia, cresciuta però in seno al vecchio sistema di potere franco, avendone progressivamente occupato i centri di controllo, rappresenta vividamente come tale avvicendamento, pur costituendo un momento di svolta politica radicale rispetto al passato, si collocasse per molti versi in stretta continuità con esso. Sicuramente, un altro elemento di forte legame con il passato era rappresentato proprio dalla centralità che, nella visione politica di Pipino come già di suo padre Carlo Martello, rivestiva il rapporto del potere regio con il mondo ecclesiastico e in particolare con la sua componente monastica. Alcuni dei principali protagonisti nell’organizzazione del viaggio del papa Oltralpe erano stati proprio esponenti di questo mondo, come Fulrado, l’abate di Saint-Denis, e Crodegango, vescovo di Metz e fondatore dell’importante monastero di Gorze, sito nei pressi di questa città e riformatore della vita del suo clero secolare a imitazione di quella delle comunità monastiche (Rosenwein 1999: 121-124).
Il nesso tra la famiglia dei Pipinidi-Carolingi e il mondo delle abbazie franche aveva tuttavia origini assai più antiche. Gli antenati di Pipino, infatti, erano stati perfetti rappresentanti di quell’aristocrazia franca che sin dalla metà del VII secolo, a imitazione di quanto facevano i re, si era attivamente impegnata nella fondazione e nella promozione di monasteri su cui la famiglia tendeva a conservare un patronato diretto, attraverso la scelta dei loro abati e badesse. Così era stato nel caso dei monasteri di Nivelles, Stavelot-Malmédy ed Echternach, situati nei territori degli attuali Belgio e Lussemburgo, dove la famiglia deteneva grandi proprietà (Claussen 2004: 32-33). E la strategia che Carlo Martello pose in atto a cavallo del 720 per garantirsi il controllo delle terre della Neustria, cioè dell’area compresa fra Parigi e il mare del Nord, si concretizzò, oltre che in iniziative militari e nella costruzione di una rete di alleanze politiche, anche nell’assicurarsi che alla testa delle principali abbazie di quel territorio (come Saint-Wandrille e Jumièges) fossero nominate persone a lui fedeli.
Qualche anno più tardi, furono gli abati di Corbie e Saint-Denis ad essere scelti da Carlo Martello come inviati presso papa Gregorio III (731-741) per discutere di un possibile intervento militare in Italia contro i Longobardi. Ancora, non va dimenticato che Carlomanno, il figlio di Carlo Martello che ne aveva ereditato il potere insieme al secondogenito Pipino III, nel 746-747 prese in prima persona la strada della monacazione, recandosi in Italia dove fondò il monastero di San Silvestro sul Monte Soratte, presso Roma, per poi trasferirsi a Montecassino, dove terminò i suoi giorni qualche anno più tardi. In un monastero fu spedito l’ultimo re merovingio, Childerico III, quando Pipino III capì che era giunta l’ora di consolidare definitivamente la sua posizione, chiedendo e ottenendo la propria nomina a re ai magnati laici ed ecclesiastici del regno, con l’avallo del pontificato romano (McKitterick 1983: 29-36).
Nei confronti di monaci e abbazie, insomma, la famiglia dei nuovi re esibisce un atteggiamento perfettamente in linea con quanto aveva caratterizzato l’azione dei loro predecessori e dei propri pari tra gli aristocratici dei regno, almeno a partire da un secolo prima del fatidico anno 754. Tuttavia, giudicare il passaggio di consegne fra le due dinastie regnanti solo in una prospettiva di continuità porterebbe ad un errore di sottovalutazione dell’impatto che esso avrebbe prodotto sul mondo monastico.
L’avvento dei Carolingi, infatti, determinò nel giro di pochi decenni un’evoluzione radicale del quadro maturato sin allora; e questi cambiamenti procedettero di pari passo con l’affermazione del regno dei Franchi come potenza egemone dell’Occidente europeo.
Sintetizzando al massimo, si può dire che i successori di Carlo Martello, Pipino III e suo figlio Carlo (768-814), inserirono il grande patrimonio di ricchezze, competenze intellettuali e forza spirituale che il monachesimo franco aveva espresso nei centocinquant’anni precedenti all’interno di un progetto di costruzione di un nuovo e più vasto sistema politico.
Non costituiva una novità che il potere del re dei Franchi avesse una forte connotazione religiosa, cosa che permetteva loro di interessarsi attivamente delle questioni ecclesiastiche. I nuovi sovrani interpretarono tuttavia questa loro prerogativa in modo più ampio che nel passato. Nella loro prospettiva, la scommessa era quella di riorganizzare il funzionamento delle istituzioni religiose, concependole come vere e proprie diramazioni del potere regio in grado di supportarne l’opera di controllo dei territori ad esso sottoposti.
Vescovati e abbazie, insomma, non potevano solo costituire presenze di cui il re si occupava di favorire l’esistenza e lo sviluppo, ma dovevano cooperare attivamente con lui per garantire l’ordinata gestione del regno. Un fattore che poté sicuramente giocare un ruolo importante in questa direzione fu l’intensificarsi dei rapporti con l’Italia, e in particolare con il papato, che aveva legittimato Pipino a guidare il popolo dei Franchi. Questo dato aveva avuto l’effetto di creare una diretta connessione del re con Roma, luogo per antonomasia fonte di autorità universale, sia sotto il profilo temporale sia sotto quello spirituale. Le figure degli imperatori che, da Costantino in poi, avevano promosso il processo di cristianizzazione dell’Impero fornivano l’esempio di come l’organizzazione della Chiesa potesse cooperare con il potere sovrano attraverso la puntuale attività legiferante e di indirizzo politico che quest’ultimo aveva continuativamente svolto in materia religiosa.
A partire dagli anni ’60 dell’VIII secolo vediamo quindi dispiegarsi una trama sempre più fitta di interventi legislativi volti ad esplicitare il punto di vista del re sulle questioni di carattere religioso, con l’obiettivo di ottenere che la Chiesa nel suo insieme e le sue diverse articolazioni adottassero linee di azione il più possibile unitarie e condivise.
Per fare ciò Pipino e Carlo attivarono una serie di strumenti operativi che si espressero sia sotto forma di atti legislativi aventi valore generale, sia attraverso azioni di carattere più mirato, ma che riflettevano una visione unitaria e omogenea del tema della riforma delle istituzioni ecclesiastiche.
Innanzitutto, sin da prima che Pipino III fosse stato ufficialmente investito della potestà regia, e cioè quando era ancora magister palatii, prese avvio un’intensa produzione normativa che sarebbe stata caratterizzata dall’intento di porre sotto scrutinio tutte le istanze del mondo ecclesiastico, fornendo loro parametri organizzativi e comportamentali ben precisi. Il tratto evidente per l’insieme degli interventi compiuti in tale ambito da Pipino e dai suoi successori, almeno sino a tutta la prima metà del IX secolo, fu la considerazione della materia ecclesiastica nel suo insieme come un ambito rispetto al quale il re poteva e doveva proporsi come la suprema istanza regolatrice. I re merovingi, sebbene non avessero mancato di intervenire sulla vita del clero, ad esempio stimolando l’attività sinodale delle diocesi del regno, non erano mai arrivati a esercitare il ruolo di legiferatori in questo ambito in prima persona e in maniera così sistematica.
La posta in gioco era tanto quella del consolidamento del prestigio e dell’autorevolezza della potestà sovrana in un ambito che ormai permeava di sé la società del regno franco nel suo insieme, quanto l’esercizio del controllo su istituzioni che avevano anche accumulato patrimoni considerevoli e che si riteneva perciò che dovessero contribuire concretamente, con le proprie risorse, al perseguimento degli obiettivi politico-militari che la monarchia intendeva attuare.
Ovviamente, la nostra attenzione si rivolgerà soprattutto ai provvedimenti indirizzati a monaci e monasteri, ma il Leitmotiv della progressiva costruzione di un coerente quadro normativo coinvolge in pari misura anche il clero secolare. Se mai, nei riguardi del mondo monastico, i Pipinidi-Carolingi svilupparono in modo più marcato e sistematico l’idea, che era stata già dei loro predecessori, che esso potesse rappresentare un ambito all’interno del quale individuare interlocutori privilegiati in grado di assistere l’azione di governo del re sotto il profilo spirituale.
Per fare questo, però, era necessario che anche la galassia di esperienze e di stili di vita, che all’interno dei monasteri franchi si era sviluppata nel corso di più di un secolo, fosse spinta verso una condizione di maggiore omogeneità: si voleva cioè che la preghiera che i monaci levavano a Dio in favore del re parlasse ovunque con il medesimo linguaggio, ma anche che il sovrano, intervenendo su questa componente della società, sapesse di poter agire sulla totalità delle cellule che la componevano. Questo intento si evidenzia sin dai primissimi interventi di Pipino III, che, come si è già ricordato, datano a prima ancora che egli cingesse la corona di re dei Franchi, dopo aver definitivamente spodestato l’ultimo re merovingio.
Nel 744 comparve infatti il primo capitolare emanato su questa materia da Pipino, in qualità di dux et princeps Francorum, in cui egli affrontò una serie di questioni inerenti l’organizzazione religiosa del regno e che costituì l’esito di un concilio tenutosi a Soissons, al quale avevano partecipato gli ottimati del regno, di condizione sia laica sia ecclesiastica. Accanto alle disposizioni concernenti il clero secolare, ne troviamo alcune riguardanti monaci e monasteri: sono poche righe, ma che riassumono in modo esemplare le ragioni dell’interesse che il futuro re dedicava a questa categoria. A monaci e monache, riuniti nell’ordo monachorum, fu innanzitutto prescritto di vivere secondo «la santa Regola» e di farlo stabilmente nel monastero in cui ciascuno di loro aveva scelto di entrare. Di seguito, si prescrisse che ai monasteri fosse consentito di fruire liberamente delle rendite dei beni necessari al proprio sostentamento ma che, su quanto eccedesse tale quantità, fosse invece regolarmente riscossa la tassazione. Infine si sancì che gli abati non erano tenuti a partecipare direttamente alle attività militari, ma dovevano comunque inviare al re gli uomini destinati a questo scopo, in proporzione al valore delle terre possedute dai propri monasteri1.
In sostanza, il provvedimento stabiliva tre princìpi: i monasteri dovevano vivere tutti secondo un medesimo costume di vita e fruire dei mezzi necessari per vivere, ma, assicuratasi la loro disponibilità, erano tenuti a contribuire alle necessità fiscali e militari del regno, in rapporto all’insieme dei beni posseduti. L’autorità che emanava queste disposizioni si faceva evidentemente garante della loro applicazione, intervenendo quindi sia su materie squisitamente spirituali (la ‘regolarità’ della vita monastica e la stabilità della sua professione), sia in quegli ambiti in cui la presenza dei monasteri entrava in relazione con le necessità generali del regno, come ad esempio la riscossione delle tasse e la partecipazione dei sudditi alla leva militare. Quest’ultimo aspetto era considerato sotto una duplice prospettiva, determinata dal particolare percorso esistenziale di quanti avevano scelto di abbracciare la vita ascetica: essi sono visti come persone che, una volta entrate in comunità, avevano obblighi solo verso Dio e non potevano essere quindi coinvolte in faccende terrene come l’andare in guerra. Ma, allo stesso tempo, fatto salvo il loro sacrosanto diritto a vivere un’esistenza quieta, garantita dalla sicurezza delle rendite dei beni posseduti dal monastero che permettevano loro di non essere assillati dalle necessità primarie, essi rimanevano comunque sudditi del regno e tenuti perciò a contribuire alle sue necessità.
Quale dovesse essere il costume di vita che i monaci dovevano seguire era già stato chiarito un anno prima dal fratello di Pipino, Carlomanno, il quale nel 743 aveva deliberato in materia sulla base delle decisioni prese in un sinodo da lui stesso presieduto e i cui lavori erano stati coordinati dall’influente missionario anglosassone Bonifacio2. In quella circostanza era stato stabilito che
abati e monaci avevano accettato di adoperarsi per la restaurazione della norma della vita regolare del santo padre Benedetto.
L’indicazione ufficiale da parte del re di quale dovesse essere, per tutte le comunità esistenti nel regno, il testo di riferimento cui attenersi nella pratica della vita ascetica costituiva un evento di novità assoluta. Come si è rilevato in più occasioni, sino a quel momento il fatto che esistesse una pluralità di Regole e che le comunità scegliessero più o meno liberamente quale di esse seguire, aveva rappresentato una condizione che nessuno aveva ritenuto necessario mettere in discussione.
Il cambiamento di rotta che i principes carolingi intrapresero in tal senso è la spia principale di una mutazione di mentalità sul come trattare la materia ecclesiastica in generale e, in particolare, sul come avviare un processo di reductio ad unum del variegato ambiente monastico presente nel regno dei Franchi. Puntare sull’obiettivo dell’adozione di un’unica regola di vita da parte di tutti i monasteri significava, in primo luogo, mirare ad esercitare un maggiore controllo su di essi. Quelli che si fossero adeguati con più scrupolo ai desiderata di chi deteneva il potere si sarebbero automaticamente trovati in una posizione di maggior favore nei loro confronti.
Da quel momento in poi, e soprattutto da quando Pipino acquisì la dignità regia,...