Paolo VI
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Sfide della Storia e governo della Chiesa

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Sfide della Storia e governo della Chiesa

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Paolo VI è stato l'ultimo papa italiano. Il suo successore, Giovanni Paolo i, ha governato la Chiesa per poche settimane. E il 16 ottobre 1978 venne eletto Karol Wojtyla, primo papa non italiano da più di quattro secoli. Giovanni Battista Montini è stato un papa immerso nella storia d'Italia: ne ha vissuto le vicende con intensità a partire dal suo ambiente bresciano fin da giovane, percependole anche come sfide alla Chiesa. Si è insistito sul «genio italiano» di Montini non per ridurlo ai confini nazionali, ma per sottolineare la vicenda di un papa italiano che realizza un'apertura al mondo dopo il Vaticano II, non solo con i viaggi, ma con gesti, riforme e decisioni importanti. Questo volume non vuole essere una biografia di Montini. Si vogliono approfondire alcuni aspetti decisivi della sua storia personale e del suo governo: insomma, cogliere il suo «genio italiano» al servizio di quell'«internazionale» particolare che è la Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, pur con la sua storia lunga e particolare, si pose in forte continuità con papa Montini, con cui, tra l'altro, il card. Wojtyla ebbe un rapporto molto profondo. Un passaggio decisivo per capire il cattolicesimo tra il XX e il XXI secolo è, quindi, provare a comprendere meglio Giovanni Battista Montini.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2020
ISBN
9788816800144
Argomento
Storia

1. IL CARISMA ITALIANO DEL GOVERNO

La riforma e la crisi

Paolo VI è stato un Padre della Chiesa contemporanea. Giovanni Paolo II, in un momento di significativa transizione, a Puebla nel 1979, disse: «Parlate con il linguaggio del Concilio, di Giovanni XXIII, di Paolo VI: è il linguaggio dell’esperienza, del dolore, della speranza dell’umanità contemporanea». Qual è stato il linguaggio di Paolo VI? In Paolo VI c’è l’umiltà di chi si inserisce in quella lunga catena di credenti che è la storia della Chiesa. Egli sa di essere il successore di Giovanni XXIII e di avere un grande debito verso di lui. Non sono convinto che Paolo VI, se fosse succeduto a Pio XII (come alcuni speravano, ma non era ancora cardinale nel 1958), avrebbe convocato un Concilio. Forse avrebbe condiviso le perplessità che, dopo due lunghi periodi di consultazione, portarono sia Pio XI che Pio XII – ad entrambi mons. Montini era stato molto vicino con ammirazione – ad archiviare l’idea conciliare. Papa Giovanni lo convocò con un forte gesto primaziale senza alcuna consultazione previa, a differenza di Pio XI e Pio XII, solo dopo averne parlato con il Segretario di Stato Domenico Tardini. Per il card. Montini, la vita e la morte di papa Giovanni furono una rivelazione, come scrisse a p. Bevilacqua prima di partire per il conclave che lo avrebbe eletto papa1.
Montini, per lunghi anni, aveva meditato sul futuro nel suo studio di Sostituto della Segreteria di Stato, nelle Logge vaticane. Aveva sentito l’impazienza per una riforma, ma aveva anche tremato di fronte alla responsabilità. Aveva colto la grandezza serena di Giovanni XXIII, come disse ai milanesi. Papa Roncalli seppe con istintiva semplicità mettere insieme l’amore e la verità: «la verità, quella religiosa per prima – dice papa Montini –, così delicata, così difficile… non è fatta per dividere gli uomini e per accendere fra loro polemiche e contrasti, ma per attrarli ad unità di pensiero, per servirli con premura pastorale, per infondere negli animi la gioia della conquista della fratellanza e della vita divina»2. A dieci anni dalla morte di Giovanni XXIII, Paolo VI continuava ad ammirare la “sua scuola spirituale” che si esprimeva con «l’astuzia [è una parola che ritorna nel linguaggio montiniano non in senso negativo] onesta e sagace della semplicità e dell’amore»3. Il senso della tradizione nella continuità distingue la Chiesa dalle istituzioni politiche, dove l’alternanza o la successione di governo si fa spesso nella svalutazione dell’opera dei predecessori (e una tale abitudine penetra talvolta anche nel mondo ecclesiastico). Paolo VI, il papa della riforma, è profondamente imbevuto della spiritualità della tradizione che fa sì che anche un pontefice sia qualcuno che dà il suo contributo ad una storia più lunga e larga di lui.
Paolo VI ha affrontato l’eredità di papa Giovanni, il Concilio aperto, la tumultuosa recezione, con un progetto maturato da tempo – potremmo dire – che era più di un programma. Basta scorrere le pagine dell’enciclica Ecclesiam suam per cogliervi una robusta e sicura riflessione sulla Chiesa illuminata da un grande sogno sul suo futuro: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». I primi anni di pontificato manifestano questo fervido sogno. Il dialogo (grande tema montiniano) non è solo ecumenico o interreligioso, o per la pace, ma è l’evangelizzazione stessa, cioè comunicare il Vangelo in una società secolarizzata. Perché, fin dagli anni di Milano, in Montini era chiara l’esigenza di una nuova missione. Con un tratto rapido ed efficace il papa esprime l’identità della Chiesa e la sua solidarietà con il mondo (distinzione e unità): «questa distinzione non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la Chiesa si distingue dall’umanità, non si oppone ad essa, anzi si congiunge»4.
Questo è il linguaggio di Paolo VI. Se ne apprezza particolarmente la lingua letteraria e alta, specie a confronto con un italiano impoverito come quello attuale. Ma il linguaggio di Paolo VI non è stato solo quello dei testi. Ha comunicato anche con i gesti, per cui aveva un gusto particolare. E ha parlato anche – piaccia o no – il linguaggio del governo della Chiesa. Veniva dall’esperienza del governo: sedici anni alla testa della sezione per gli affari ordinari della Segreteria di Stato, come Sostituto e poi come prosegretario di Stato, dal 1937 al 1953, non sono pochi nella vita di un uomo. Il suo pontificato si misura con una grande crisi, poco dopo la fine del Concilio. La crisi sembrava uno dei fatti più inquietanti dell’Occidente al grande storico francese del cristianesimo, Jean Delumeau, che, nel 1977, si poneva drammaticamente questo interrogativo: Le christianisme va-t-il mourir?5. Infatti, dopo il Concilio, si discuteva se si potesse parlare ancora di un’identità cattolica, se conservasse senso il sacerdozio com’era stato concepito, se le forme di esercizio dell’autorità non andassero mutate, se, insomma, il cattolicesimo non dovesse trasformarsi in una “confederazione” di Chiese sul modello ortodosso e, a livello di base, non dovesse assumere forme sul modello dei movimenti della Riforma o di quelli neoprotestanti. Non era una crisi modernista, come dicevano i tradizionalisti: quella riguardava solo circoli intellettuali ed ecclesiastici. Si trattava invece di un movimento molecolare di massa: dibattiti, stampa, contestazione, una Chiesa al plurale tanto da essere divaricata… C’era poi un preoccupante deperimento in Occidente con la secolarizzazione, il calo della pratica religiosa, la crisi delle vocazioni e gli abbandoni. Nell’Oriente comunista, si soffrivano i decenni di persecuzione religiosa con gerarchie ridotte a pochi vescovi (eccetto la Polonia), con un clero in parte asservito e d’altra parte interdetto. Mentre, nel Sud del mondo, tra grandi povertà, si poneva il problema di collocare il cattolicesimo sui nuovi scenari della decolonizzazione, di costruire democrazie in Sud America, di entrare finalmente in Asia e in Cina. E tanto altro. Nel quadro di una Chiesa lacerata, c’era poi il Concilio da recepire e da non rinnegare.

Il governo di Paolo VI

Giovanni Battista Montini aveva sognato una riforma in un quadro più tranquillo, in cui governare tempi e provvedimenti. Mi disse una volta mons. Carlo Manziana, amico di lunga data di Montini – un prete che aveva conosciuto l’esperienza del lager nazista di Dachau – come in uno sfogo: «ci avessero fatto lavorare in pace dopo il Concilio, quanto avremmo potuto cambiare! Più di quanto non potessero pensare…». Papa Montini non rinunciò al linguaggio del governo: le responsabilità, le decisioni, lo studio dei problemi e dei dossier, le nomine, lo sviluppo e il rinnovamento delle istituzioni… Non appaia una banalità: il governo non è secondario nella Chiesa cattolica, una comunità mondiale che mantiene un’unità istituzionale estesa al mondo intero, unica nel suo genere tra le Chiese e le religioni mondiali. Il governo è scritto nella sollecitudine universale del papa; esprime una secolare tradizione di cura pastorale dei cattolici del mondo intero e d’interessamento alle sorti del mondo. La Chiesa cattolica ha nei suoi cromosomi il governo, come sistematica cura e preoccupazione per i suoi fedeli: non è un’eredità del potere temporale, ormai ridotto a una «zolla di terra» come diceva Pio XI. Quello pontificio, pur durato dall’VIII secolo al 1870 (mille anni e più, tanto da apparire quasi essenziale alla vita del papato), era un modesto governo provinciale italiano; ma quello ecclesiastico contemporaneo è un governo globale e vieppiù complesso. Il governo è sintesi e, allo stesso tempo, particolare: ogni giorno, per tante ore, lungo quindici anni, impegna le energie intellettuali di papa Montini che ne parla il linguaggio con destrezza.
Se papa Giovanni si era concentrato sul governo straordinario con atti come la convocazione del Vaticano II, Paolo VI lavora molto sul governo ordinario. Ci vogliono strumenti nuovi. Si veda, prima di tutto, la riforma della Curia che il papa realizza con la Regimini Ecclesiae del 1967. Sorgono nuove istituzioni (come i consigli o i segretariati che esprimono nuove funzioni, legate alle prospettive del Vaticano II), ne vengono archiviate altre desuete; si crea un coordinamento tra i dicasteri e si afferma la centralità della Segreteria di Stato nel quadro della Curia. Le decisioni istituzionali di Paolo VI non furono congiunturali: ne è prova il fatto che Giovanni Paolo II, non le ha modificate.
All’epoca della riforma, l’età media dei capi dicastero era di settantanove anni e mezzo, con dieci capi dicastero con più di ottant’anni e uno, il card. Pizzardo, prefetto ai seminari, di novant’anni. Il papa fissa in cinque anni la durata delle cariche. Vuole internazionalizzare la Curia (nel 1967 i non italiani alla guida dei dicasteri sono 8 e nel 1978 sono 15): la nomina del card. Jean-Marie Villot alla Segreteria di Stato ne è un esempio (è il secondo non italiano dopo Merry del Val con Pio X). Allo scadere del primo mandato delle nomine fatte nel 1967, Paolo VI osservò, nel 1972: «le norme volute dal Concilio, particolarmente la pastoralità, sono diventate ormai comuni: nella Curia si fa in primo luogo cura d’anime, si cerca veramente il bene del mondo e delle anime. In confronto con altre pagine della storia, la Curia si è spiritualizzata al massimo…»6. Ma in quel tempo – gli anni Settanta – Curia era normalmente sinonimo di distacco dalla realtà o, come si diceva, “dalla base”, quasi d’intreccio tra centralismo e calcolo politico. Nella Chiesa cattolica, il governo non si sostanzia nella politica, ma nel servizio pastorale. Il servizio pastorale è per il papa il «rinnovamento interiore delle forme concrete», come scrive in una nota personale. Queste note personali inedite mostrano la fatica dell’uomo di governo. A lui si rivolgono grandi attese di palingenesi rapide e radicali, ma anche forti accuse per i ritardi o, d’altra parte, i cedimenti.
Com’è facile – annota il papa – per chi occupa uffici di responsabilità dare il cattivo esempio, «dare scandalo». Chi è in alto è visto, criticato, giudicato da tutti. Tutti desiderano e pretendono di vedere in lui rispecchiate le proprie idee, le quali, se sono buone o credute tali, e non sono riflesse e applicate da lui, producono una reazione negativa, uno sdegno, uno scandalo. Da ricordare. D’altra parte la persona responsabile deve agire con libertà, coerente con la propria coscienza e con certi principi morali obbliganti; e non deve conformare la propria condotta, quando si tratta di doveri superiori specialmente, al gusto del pubblico, né deve temere l’impopolarità per compiere la propria funzione.
Paolo VI, anche nelle ore di acuta impopolarità, non rinunciò al governo. Il papa si serve dell’opera indefessa e forte del Sostituto Giovanni Benelli che, dal suo ufficio, tratta tanti problemi della Chiesa tra il 1967 e il 1977. Su questo prelato si è creata in parte una leggenda nera (che lo descrive come una personalità soverchiante), ma la sua figura va ricondotta alla realtà storica: un efficace e convinto esecutore del governo del papa. Non è facile ricostruire storicamente l’impegno di un Sostituto così all’interno della macchina di governo vaticano, ma credo che la figura di Benelli ne uscirebbe assai rilevante. Il papa conosce bene le resistenze interne, il carattere e le vicende degli uomini, le dinamiche del mondo ecclesiastico e politico, segue i dibattiti teologici…

Il “genio” italiano

Si ritrova in Paolo VI la volontà di assumersi in prima persona la responsabilità di governo. Si nota – osserva uno studioso laico, Alphonse Dupront – «la probità del suo genio tormentato». Soprattutto, c’è un genio tutto italiano del governo della Chiesa: c’è un principio italiano di moderazione, di sintesi, di attenta valutazione della realtà, di equilibrio, di senso dell’universalità che rifulge in un uomo che viene da una tradizione familiare di servizio anche politico, da una tradizione intellettuale raffinata come quella bresciana, da una cultura ecclesiastica italiana aperta alla mondialità.
Ho trovato un’interessante definizione del “genio italiano” in un discorso di Michail Gorbačëv al Campidoglio nel 1989, prima della storica visita a Giovanni Paolo II: «… dove sta la fonte della forza magica del principio italiano? Sembra stare nella sua universalità, nella capacità di penetrare tutti i lati dell’esistenza… Sta anche nel pluralismo innato, nell’aspirazione a capire qualsiasi punto di vista, nel rifiuto del dottrinarismo… Ma più di tutto sta nell’umanesimo, dove la misura di tutte le cose, alfa e omega, di tutto l’esistente è l’uomo». Sono definizioni che possono lasciare perplessi noi italiani, schivi nell’identificare il nostro carattere nazionale o nell’esaltarlo; ma Paolo VI mostra l’esistenza di questo genio italiano, sviluppatosi come capacità di sintesi nel governo di una Chiesa sempre più globalizzata. Questo genio si sposa alla real...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Introduzione
  6. 1. IL CARISMA ITALIANO DEL GOVERNO
  7. 2. IL PARTITO ROMANO E MONS. RONCA
  8. 3. I VIAGGI
  9. 4. LA SFIDA DELL’EST EUROPA
  10. 5. L’AMICO LA PIRA
  11. 6. L’EUROPA IN PACE E SAN BENEDETTO
  12. 7. LA RECEZIONE ITALIANA DEL CONCILIO
  13. 8. LA CHIESA IN ITALIA
  14. 9. DISCORSO ALL’ONU