La vita lucida
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La vita lucida

Un dialogo su potere, pandemia e liberazione

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La vita lucida

Un dialogo su potere, pandemia e liberazione

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Informazioni sul libro

Non è semplice mantenere la lucidità nei passaggi caotici della storia, compreso quello della pandemia. Paolo Bartolini (analista filosofo) e Lelio Demichelis (sociologo della tecnica e del capitalismo) prendono le mosse dal fenomeno del coronavirus per riconnettere le numerose istanze filosofiche, sociologiche e psicologiche oscurate da un'ipermodernità tragicamente unidimensionale. Il confronto tra gli autori – il libro è infatti un dialogo – vuole portare il lettore a identificare le coordinate principali degli odierni dispositivi di potere: da un lato l'estensione planetaria di una razionalità strumentale/calcolante e industriale che dis-anima il vivente, dall'altro una passione inconscia per la dismisura e per il godimento dissipativo. Osservando il proprio tempo con la lente di un nuovo pensiero critico, gli autori analizzano il nucleo del potere: quello che opera, al di là della violenza esplicita e della costrizione (il dominio), conquistando l'immaginario delle persone, plasmandolo (ingegnerizzandolo) e mettendolo al servizio dell'interesse di pochi (l'egemonia). La postfazione del libro è affidata a Miguel Bansayag.

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Informazioni

Editore
Jaca Book
Anno
2021
ISBN
9788816802926
Categoria
Sociologie

OLTRE LA GABBIA DI SILICIO: GOVERNARE IL DIGITALE, DEMOCRATIZZARE L’INFOSFERA

L. D. – Tecno-fobici pochi, tecno-entusiasti moltissimi. Da tempo sostengo che la distinzione tra i primi e i secondi è una semplificazione e che, come tutte le semplificazioni – come ricordi anche tu in chiusura della tua riflessione –, ci allontana dalla complessità dei processi e dalla loro comprensione consapevole, il tutto accompagnato da quelle retoriche infantili del nuovo/di nuovo che ho già richiamato in precedenza e che accompagnano anche – ma n volte più pervasive/sussuntive rispetto a quelle del passato – questa fase della rivoluzione industriale.

Un pensiero critico e meditante e non solo calcolante

Quindi, sì, ci serve, nei confronti di questa nuova fase tecnologica della tri-secolare rivoluzione industriale che stiamo vivendo da quarant’anni, un pensiero non dicotomico/manicheo/semplificante/infantile (resteremmo impaludati nella razionalità strumentale/calcolante-industriale), né di odio o di rancore, ma un pensiero critico e quindi complesso-meditante/meditativo. Tutto diverso dalla tecno-fobia e dalla tecno-filia a prescindere. E che, come tutti i pensieri critici, dia vita a una teoria critica di tali processi non limitandosi, come i positivisti, ai meri fatti; pensieri critici/complessi che ricerchino quindi la genealogia del potere (come Nietzsche e Foucault ma anche, e forse meglio di Nietzsche e Foucault, come la Scuola di Francoforte) sapendo che mai vi sono vere cesure storiche ma sempre una compresenza di vecchio e nuovo, di iper-moderno e di pre-moderno. Un pensiero critico che si eserciti quindi e necessariamente – confondendosi con un pensiero meditante/meditativo eticamente sostenuto – verso una diversa razionalità rispetto a quella strumentale/calcolante-industriale e soprattutto vivendo una nuova somiglianza/vicinanza e responsabilità con la biosfera oltre che con gli altri uomini e culture. Da qui i molti richiami che ho fatto appunto alla (prima) Teoria critica francofortese, per me mai attuale come oggi.
Per questo, a proposito di internet e del capitalismo delle piattaforme, di digitale e di infosfera provo a riassumere alcune delle questioni già sollevate in precedenza, sapendo di essere da sempre in minoranza davanti all’egemonia del mainstream e del tecno-entusiasmo a prescindere; ma anche sempre più convinto – essendomi sempre concentrato sulla analisi dei processi di lunga durata, sulle continuità più che sulle discontinuità spesso solo apparenti e interpretando il nuovo apparente alla luce del vecchio che appunto permane – della correttezza di questa interpretazione/lettura critica. Metto quindi in evidenza nuovamente – come premessa alle cose che vado a dire e che dirò sul digitale – che il nuovo che oggi avanza e che non si dovrebbe fermare (come dicono gli ideologi del tecno-entusiasmo) – appunto il digitale, ma anche l’infosfera di Floridi – è in realtà vecchio di tre secoli.
E quindi: 1) non siamo nella quarta rivoluzione industriale, già fremendo per la quinta, ma siamo ancora più dentro (ancora più sussunti) nella rivoluzione industriale iniziata a metà del ‘700, sempre diversa nella sua apparenza (nel suo apparire mai uguale sulle pareti/schermi della caverna platonica incessantemente riprodotta dall’industria culturale e dalla cultura industriale/industrialista-positivista che ne è la principale sovrastruttura – compreso l’effetto hype), ma sempre uguale a se stessa nel replicare/riprodurre incessantemente la sua legge ferrea; 2) dalla fabbrica di spilli di Adam Smith alla lean production e alla Industria 4.0/capitalismo di piattaforma a cambiare è solo il mezzo di connessione delle parti prima suddivise (ma non la norma vincolante del suddividere per poi integrare), che è il vero mezzo di produzione e che è sempre di proprietà privata del capitale e dei capitalisti: come sostenevo già nel 2008, anche allora andando controcorrente rispetto al pensiero egemone mainstream: «La rete connette i molti nodi disseminati ovunque, la rete è il luogo integrato e sempre più integrante di produzione e di consumo, legando compiti e funzioni; questa rete è una somma di catene di montaggio parziali che grazie alla stessa rete diventano una catena di montaggio globale, un imponente e globale apparato di apparati: catena di montaggio di reti e/o rete di catene di montaggio, o rete essa stessa come una globale catena di montaggio. La rete come modello/metafora di organizzazione non abolisce cioè la catena di montaggio ma la estende e la rende globale»1; 3) la rete è nata libera e democratica, ma essendo qualcosa di tecnico è divenuta in breve tempo (non poteva non diventare, per la propria essenza tecnica e per l’uso capitalistico della tecnica – rimando di nuovo a Panzieri) tecno-capitalista alla massima potenza, ovvero (a parte aspetti più culturali e di conoscenza come archivi, documenti, immagini, arte, eccetera) è diventata una fabbrica integrata globale in lean-production/just in sequence, dove ciascuno (in quanto nodo produttivo della rete) è messo al lavoro in modi apparentemente soggettivati/libertari, ma in realtà sempre più assoggettati e sussunti nel sistema, identificandosi con esso. Quindi, grazie alla rete mezzo di connessione/mezzo di produzione è possibile realizzare il sogno di Ford e di Taylor, quello di una fabbrica totalmente integrata – oggi estesa a livello globale, la rete/digitale permettendo di passare, come sostengo da tempo, dal fordismo concentrato in grandi fabbriche del passato a un fordismo individualizzato/esternalizzato ma ancora più controllato centralmente/centralisticamente (o come sostiene Matteo Gaddi, abbiamo centralizzazione senza concentrazione); 4) i social non sono sociali, ma sono imprese che mettono a pluslavoro (quasi gratuito) la vita relazionale ed emozionale delle persone; 5) in questa fabbrica-rete-social noi siamo solo dei proletari (ancora Anders) ancora più sfruttati e alienati ma felici di esserlo e ancora più assoggettati al comando e ai dispositivi (tecnici e psichici) del sistema tecno-capitalista e della sua razionalità irrazionale, per cui (ecco le nuove/vecchie forme del comando) devi essere sempre connesso, devi rinunciare alla privacy, devi condividere ogni fatto della tua vita affinché il tecno-capitalismo possa profilarti/spiarti meglio, devi integrarti/connetterti, devi essere efficiente e sempre più prestazionale, devi accelerare sempre più (il metronomo e non l’orologio è la macchina che oggi fa funzionare la mobilitazione di tutti nella fabbrica integrata globale ed è un metronomo che si muove sempre più velocemente) e devi intensificare sempre più i tuoi tempi ciclo di lavoro, di consumo e di vita, devi sentirti/viverti in un social che ha oggi acquisito la funzione un tempo svolta dalla confessione (che è un altro dispositivo di governo della vita umana – e rimando al potere pastorale secondo Foucault visto sopra) che è tempo e luogo oggi virtuale dove dire/mostrare tutto di sé al nuovo direttore di coscienza-amministratore della mia vita nella società amministrata che è appunto il social o la community – e quindi l’eterodirezione della vita passa dal pastore religioso al pastore tecno-capitalista2; 6) in questa fabbrica integrata globale che è la rete noi siamo ancor più alienati (crediamo di avere la proprietà dei mezzi di produzione e di essere imprenditori di noi stessi ma i mezzi di connessione/produzione sono sempre e comunque – è doveroso richiamare ancora una volta questo processo – di proprietà del capitale-capitalista e del suo potere/comando centralizzato e centralistico sulla vita della massa di noi proletari/lavoratori diffusi diventati i reparti esterni singolarizzati ma ben connessi della fabbrica-rete-social; 7) e questo secondo la razionalità strumentale/calcolante-industriale-positivista che ci domina e ci ingegnerizza da tre secoli in nome di un Progresso diventato distopico ben oltre ogni immaginazione letteraria/fantapolitica.

Leopardi e il Totem del Progresso

Ovvero, come ha ricostruito magistralmente lo scrittore svizzero Mattia Cavadini alla fine del 2020 (la citazione è lunga, ma lasciami riprenderla per intero): «Alle élites del suo tempo Leopardi rimproverò ignoranza e sciocchezza, ma soprattutto il non sentire e il non sapere che il progresso liberale, che loro vedevano come la panacea per tutti i mali, nascondeva un disastro e un dissesto senza ritorno. (…) Dai tempi di Leopardi, tempi in cui la Modernità (con la sua celebrazione dell’utile e del profitto) iniziava ad affacciarsi all’orizzonte, ad oggi poco è cambiato. Le magnifiche sorti e progressive continuano ad esercitare una fascinazione assoluta ed inscalfibile. E così, oggi come allora, si sentono voci altisonanti levarsi: non si può fermare il progresso, non si può arrestare l’economia, l’utile ha ricadute su tutta la società, l’indotto è trasversale e va a beneficio di tutti. Cosa incredibile è che alla celebrazione di questo refrain partecipano le voci più disparate (…). E vi partecipano in modo automatico, senza che una forza superiore li costringa o li consoli, ma mossi da una sorta di servilismo volontario, come incantati e affascinati, convinti che dalla celebrazione del Progresso possa colare qualcosa che va a vantaggio di tutti. Non si sa come, ma attorno al Totem del Progresso sembra riconciliarsi l’intera società atomizzata di oggi, quella stessa società che di norma litiga su tutto, in preda a una guerra molecolare in cui ognuno è assorbito dal proprio interesse ombelicale ed è pronto a schiacciare gli altri e ad usarli come mezzi per il proprio vantaggio. Ed invece, attorno a questo Totem, tutti gli egoismi, come per miracolo, collimano, dando origine ad una danza estatica, che potremmo definire la danza degli egoismi socializzati, cui tutti partecipano convinti che dalla sopravvivenza del Totem dipenda anche quella della comunità. Ed invece proprio questa danza sarà la causa del collasso. Non tanto per una profezia catastrofista, ma per un semplice dato di realtà: come è possibile celebrare e magnificare l’idea di un progresso illimitato dentro un universo limitato? Questa incongruenza (sebbene si faccia di tutto per misconoscerla) sta avendo conseguenze disastrose già oggi, sia a livello sociale (con una disuguaglianza crudele nella distribuzione delle risorse), sia a livello ambientale (con l’annichilimento della biodiversità), sia a livello climatico. Ma a farne le spese, in una parola, è la Bellezza. (…) la Bellezza (la bellezza delle cose in sé) è stata lacerata e corrosa proprio dal mito del Progresso, che ha trasformato il mondo in risorsa da sfruttare e che ha fatto dell’uomo un mezzo, azzerato dentro i meccanismi della produzione»3; 8) dunque, l’individuo liberale di ieri così come quello neoliberale del ‘900 e poi quello anarco-capitalista o tecno-libertario di oggi non è un soggetto dotato di consapevolezza e capace di autonomia/individuazione, ma è un oggetto sempre meglio e sempre più lavorato nel dettaglio dai processi di ingegnerizzazione (o biopolitiche disciplinanti) del tecno-capitalismo/razionalità strumentale/calcolante-industriale: prima soprattutto nel corpo (nel fordismo-taylorismo), poi sempre più nella mente/psiche. Ma adattarsi significa, come già ricordato, negare l’uomo in quanto soggetto capace di libero arbitrio, di consapevolezza e di progettualità, di eticità nei suoi comportamenti. «Adattarsi: questa è divenuta – per il combinato disposto di tecnica e capitalismo – l’esistenza unidimensionale dell’homo technicus, involuzione a sua volta dell’homo oeconomicus»4; 9) è però un individuo de-individualizzato (ma che crede di essere al massimo del suo egotismo/solipsismo/narcisismo/prometeismo/individualismo), posto che, con la modernità, come ha scritto Umberto Galimberti, «libertà e uguaglianza prendono a divaricare, perché, come libertà d’azione, la libertà fuoriesce dalla semplice tutela giuridica in cui si trattiene l’uguaglianza, per inseguire quella sfera, l’economia, che, autonomizzandosi sempre di più dall’orizzonte sociale, detterà legge alla legge. Nasce così un individuo che, in virtù del suo potere economico, sarà più libero di un altro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. In medias res: pandemia, bussole etiche smagnetizzate, “prendersi cura” vs “me first”
  7. Il potere nella sua forma/norma tecno-capitalista
  8. Oltre la gabbia di silicio: governare il digitale, democratizzare l’infosfera
  9. Conclusioni. Modernità e nichilismo: ultima occasione
  10. Postfazione. Elogio del flou di Miguel Benasayag
  11. Gli Autori
  12. Dal catalogo