Prefazione
L’ORIGINE DI SAFFO
Irina Casali
Lo spirito è la vita che incide in se stessa:
che con il proprio tormento accresce il proprio sapere
Friedrich Nietzsche
Gli interventi che seguono sono la trascrizione delle lezioni della prima edizione del seminario SAFFO, tenutosi nel 2016/17 nel Teatro Renzo Casali a Milano presso FE Fabbrica dell’Esperienza, nell’ordine in cui si tennero gli incontri; un caleidoscopio di punti di vista che emanano dalla fonte comune della domanda: Qual è l’origine dell’opera d’arte? La presente prefazione vuole condividere i motivi che hanno dato origine al seminario.
Perché convocare dei filosofi in un teatro a interrogarsi sull’origine dell’arte?
Le ragioni hanno radici autobiografiche1. Ma non solo. La nostalgia di casa, che assale gli amici della filosofia e del teatro, ha origini lontane e segna la nascita e il destino di queste due discipline. Teatro e Filosofia sono connesse sin dal proprio inizio. Quando entriamo in casa della prima siamo ospiti della seconda e non possiamo dire l’una senza tenere in mano l’altra: si tratta di una sola grande casa.
Proverò dunque a dire il perché di SAFFO ripetendo il gesto di Platone nel Simposio che, per condurci sulla strada della filosofia, ci scaglia dentro al mito, iniziando col racconto di un racconto2. Racconterò la sua storia, a modo mio, per ricambiare chi, per primo, ci ha convocati e accolti in casa sua.
Platone scrive dialoghi: discorsi ambientati in uno spazio, mette in scena i propri pensieri attraverso personaggi che parlano e agiscono in un luogo (quando si legge un’opera teatrale si dice mise en espace). Ma quello platonico non è un semplice artificio retorico.
Platone, prima di conoscere Socrate, scriveva tragedie e poesie; poi pare abbia bruciato tutto, ma non ha mai perso l’inclinazione e lo sguardo del drammaturgo3.
Nel Simposio Platone realizza una riunificazione di due generi che erano ancora divisi. L’opera si conclude con una breve dichiarazione di Socrate, a prima vista spiazzante, ma carica di conseguenze. Rimasto solo sul finire della notte con Aristofane e Agatone – segno dell’importanza che rivestono queste due figure – il filosofo confida loro che “è dello stesso uomo l’esser capace di creare commedia e tragedia e chi è tragediografo per arte è anche commediografo”.
Tra l’eco dei discorsi e dei fantasmi di coloro che hanno lasciato la stanza, Socrate annuncia questo enigma, e con tale gesto chiude simbolicamente il sipario.
Nel finale, che si congiunge con l’origine, facendo dei due l’uno, Platone non si limita a suggerire come si dovrebbe scrivere o fare teatro (il suo), ma illumina qualcosa di essenziale che riguarda anche la filosofia. Quale maestria si richiede all’arte della conoscenza? Cosa deve saper fare chi punta al cuore dell’umano? Varcando la soglia del quotidiano, oltre la quale si apre la visione della scena, Platone ci avverte: tragico e comico vanno presi e tenuti assieme, tanto nella pratica filosofica come in quella teatrale, che qui appaiono specchio l’una dell’altra, intimamente connesse. Non è forse egli stesso il filosofo “tragediografo e commediografo per arte” cui allude, senza dichiararlo, solo per modestia?4 E se fosse, dunque, una forma di teatro il suo filosofare?
È la costruzione stessa dell’intero dramma che permette l’esibizione delle idee: ogni voce rimanda a un’altra, ogni emozione ha il suo contrappunto, in una sinfonia di paradossi capace di far vibrare le corde dell’anima. È costellando il vuoto che si procede nel cammino della conoscenza, sotto la guida di un uomo iniziato da una donna. Socrate appare sgraziato, ma quando si apre, come le statuette dei sileni, mostra immagini divine. L’ironia socratica impugnata da Platone è la doppia via della verità. La risata di chi osa togliersi la maschera si accompagna alla dovuta serietà – ma guai a prendersi troppo sul serio, si cadrebbe nel ridicolo. Platone non teme il riso perché sa commuovere nel profondo; Nietzsche sapeva che “i Greci erano superficiali per profondità”. Solo chi accetta la follia può essere assennato. A sé nato. Radicalmente autentico.
Platone si confida con due drammaturghi perché il Simposio è una drammaturgia a tutti gli effetti, che si apre e si chiude con azioni teatrali, fortemente simboliche. I personaggi entrano in scena e il racconto si dipana davanti ai nostri occhi con immagini che evocano più delle nude parole, sono come musica, che rapisce gli animi. Le parole di Socrate sono l’unica eccezione: producono incantamenti, ma senza ausilio delle note. Per tutto il resto bisogna tenere il ritmo, dosare gli elementi, comporre, orchestrare azioni, musica e parole in una danza. È necessario conoscere l’arte del Teatro.
Nel finale del Simposio, la descrizione di Socrate è pronunciata da Alcibiade che irrompe ubriaco, a tarda notte; in preda all’alcol, incute disagio nei presenti, tanto che Socrate lo prega di non venir deriso dal suo discorso. Ma Platone tradisce le attese, facendo volteggiare i sentimenti come un giocoliere. La verità è detta da uno che sragiona, che non calcola e non ha nulla da perdere. Alcibiade, spogliatosi della dignità, esibisce la propria fragilità con un atto di forza etica: le sue parole, armate contro se stesso, colpiscono nell’anima. Sono dichiarazioni cariche di pathos5. L’amante ferito evoca ogni proprio errore, elevandosi mentre si crocifigge. La verità del maestro, cui Alcibiade non ha saputo tener fede, riverbera nel suo discorso. Il corpo provato, la mente annebbiata, partoriscono un delirio lucidissimo. La verità è questo paradosso. “Il senso sta al di là del linguaggio”6. In tale cortocircuito emotivo-cognitivo, dove si ribaltano prospettive, si confondono stati mentali, stanno il climax poetico e la chiave della drammaturgia platonica. Un passo sublime, irriducibile alle parole del testo private dell’azione del corpo, della voce, delle lacrime di chi parla e di chi ascolta, della scena descritta a tutto tondo. Alcibiade è assalito dalle stesse verità che ha voluto ignorare7. Nata come improvvisato atto d’accusa, la confessione dell’allievo peggiore ci regala l’encomio più bello, rivolto non a un dio, ma a un uomo. Socrate, Eros, maschera uno dell’altro. Quando nomina l’uno, Alcibiade è nell’altro, sotto il suo effetto, ammaliato, stregato. Come Ulisse con le sirene, ne viene attratto e sconvolto. Così, l’elogio di un uomo, sotto l’influenza del dio, diviene vortice, invocazione, visione.
E cosa accade a noi che assistiamo alla scena? In questa visione ri-conosciamo la nostra essenza. Come in uno specchio, ci facciamo uno con il nostro doppio. Patendo insieme ad Alcibiade lo comprendiamo e, in questa azione dell’anima, comprendiamo noi stessi: ricomponi-amo le nostre fratture, torniamo ad essere uno. Non più scissi tra pensiero e corpo, ma emozionalmente persuasi, ci percepiamo come unità di un essere sentimentalmente pensante. Ecco la com-passione conoscitiva, la forma di conoscenza che il teatro realizza.
La filosofia platonica agisce allo stesso modo. Il teatro è azione conoscitiva attraverso la peculiarità dell’attivazione sensibile, la filosofia anche8. Sono un’unica arte.
Questi linguaggi dell’umano non sono solo particolari pratiche di conoscenza, ma anche forme terapeutiche, in cui la comunità si cura e si purifica, questo Aristotele lo dice bene.
I discorsi e le azioni esibite sulla scena, con cui diciamo la verità a noi stessi, su noi stessi, anche la più terribile, ci fanno bene: guariscono. Il Teatro e la Filosofia sono φάρμακον, veleno e cura insieme. Una volta morsi dal serpente, l’unico antidoto è prendere il veleno: continuare a praticare.
Platone, amante dei paradossi, scrive e al tempo stesso ci esorta all’azione, a fare come lui, teatro, ammonendoci che la filosofia non si trova sui libri, nemmeno nei suoi. La filosofia si inscrive nell’anima degli uomini attraverso la parola viva, passando, come una fiamma, da cuore a cuore, per esperienza diretta. È una pratica che necessita della presenza, della corporeità, della voce, dello sguardo: della totalità dell’essere umano.
In teatro ci vogliono almeno due persone nello stesso spazio e nello stesso momento (il monologo è anch’esso costitutivamente un dialogo: l’interlocutore è assente, ma sempre presupposto), senza contare che per officiare il rito è necessaria la presenza di almeno un testimone, lo spettatore. Anche i filosofi hanno bisogno di amici9, con cui camminare, dis-correre (muoversi rapidamente tra i discorsi); le idee non stanno lì da qualche parte, scisse dalla vita, ma nascono in circostanze precise. Nel Simposio si mangia, si beve, si fanno libagioni, si cantano inni a Dioniso (lo stesso dio a cui si consacrava il teatro) e in questo modo, ci si intrattiene in discorsi di filosofia – discorrere significa propriamente “intrattenersi abitualmente con una persona in segno di familiarità, simpatia, amore; essere in rapporti affettuosi, essere fidanzati”.
Le idee vivono sempre per qualcuno, esistono in quanto dette e ascoltate, offerte in dono, come l’invocazione o la preghiera: sono in quanto condivise. Nell’invocazione a Pan che chiude il Fedro, Platone ci ricorda che “le cose degli amici sono comuni”.
La storia della filosofia, dimenticando il monito platonico, ci consegna un vasto insieme di teorie10 raccontandoci poco o nulla di come, con chi, perché nacquero le idee di uomini e donne, in che situazione11.
Questo mondo della vita, invece, è propriamente ciò che il teatro mette in scena: un intreccio di relazioni, sentimenti, condizioni in cui si incarnano i discorsi.
Il drammaturgo Platone, nel comporre il proprio dialogo, in...