LO SCONOSCIUTO AL DI LÀ DEL VERBO
In Gesù Cristo noi abbiamo conoscenza di Dio: il Verbo eterno esprime l’eterno Padre. Non attenuato e sminuito, come un secondo Dio, non arianamente, ma ‘consostanzialmente’, ‘luce da luce’, come spiega la Chiesa. Tuttavia espressione non significa ripetizione, come, poniamo, un concetto nello spirito riproduce una cosa che è in se stessa. Così il Verbo non è una specie di ‘inventario’, che accerti le profondità di Dio Padre. Infatti è il termine, l’esito d’una ‘generazione’, e il Padre è questa generazione; non è al di qua del Verbo o sopra di Lui, un Dio che riposi in sé, il quale, quando che fosse, si sia deciso a riprodursi. Dio, nel fondo intimo, è la fonte senza fondo, che esiste in quanto riversa e dona. Non secondo una modalità naturalistica, ancor prima che essa (nel Figlio) divenga Spirito e libertà, ma già da sempre, quale Spirito che possiede se stesso; perciò questa scaturigine originante non originata del Padre si può indicare solo mediante la parola amore. Se però il Figlio è il Verbo in quanto generato nell’amore, allora non può esprimere l’essenza del Padre se non dando l’annuncio, con tutto se stesso, di quest’amore sgorgante senza fondamento o motivo. Gesù, che con tutta la sua essenza, il suo operare e il suo parlare ci dice che il Padre ci ama, Gesù che concentra l’intero suo essere in quest’unica parola, mostra in forma umana ciò che è proprio e specifico dell’eterno Verbo: amore assoluto e sconfinato verso il Padre, che al tempo medesimo, giacché non è esso stesso il Padre, è l’espressione di quest’amore del Padre (in una persona propria) rivolta a ciascun possibile e reale uditore. Il Padre, generando, può esprimere solo se stesso, ma questo premere-fuori tende a un ‘tu’: processo che, nell’atto di Dio creante il mondo, possiede solo un’eco, un’altra, ancora di gran lunga più debole, nelle generazioni di tipo naturale, processo che nel nucleo ardente e inaccostabile dell’essere è la ‘produzione’ di Dio stesso: ché l’essenza di Dio non è al di fuori di questo processo di producente e prodotto. Il Figlio però, generato, può dispiegarsi solo come il ‘tu’ inteso, amato, glorificato in vista dell’Origine, può ‘ritornare a volgersi ‘ verso il Padre, comprendendo e offrendo se stesso come la pura glorificazione del Padre che ama. Questo ineffabile mistero dell’essere è ciò che è stato manifestato, ed è esprimibile nell’Incarnazione, e ciò che ha conseguito nell’essenza, nell’operare, nel parlare e soffrire di Cristo ‘voce, contorno, verbo significante’ (φωνή, εΐδος, λόγος)1 e così ha illuminato tutto l’essere e ha trasposto in uno slancio infinito ogni contemplazione di forme, ogni pensamento di concetti ed enunciazione di parole. E tuttavia questo slancio s’irrigidirebbe in se stesso, la parola viva perirebbe, facendosi ‘lettera morta’, e il dialogo eterno smorirebbe in fredda dialettica, se non venisse schiusa una terza sfera, che ci preclude definitivamente il linguaggio.
L’amore, in cui Dio, come colui che genera, è Padre, e come generato, è Figlio e Verbo, si intende come una cosa sola nel congiungersi dei due. Non vi sono due sorta d’amore, il n’y a pas deux amours. Tuttavia quest’amore unificante ha due aspetti, che si ripercuotono nell’‘eco’ remota (vestigium) delle relazioni umane: un padre e un figlio si amano reciprocamente nell’unità della loro natura umana e della loro inafferrabile continuità di carne e di sangue, ma un uomo e una donna si amano tra loro anche in modo che dalla loro continuità nella carne e nel sangue nasca l’ineffabile prodigio del figlio comune, il quale si presenta davanti a loro e dinanzi a tutto il mondo come dimostrazione nel corpo e nello spirito del loro essere (stati) insieme: ed è contrassegnato da tratti di ciascuno dei due, che tuttavia sono entrati in una nuova e inseparabile unità, la quale è terza al di là di loro. Dio, quale unità del Padre e del Figlio, è un unico Spirito, cioè l’amore, che fa del Padre il Padre in quanto generante, e l’amore che fa del Figlio il Figlio come verbo che esprime, sono un’unica e concreta entità Spirito. Nondimeno questa comunità, in quanto prodigio dell’eterna fecondità del Dio spirituale, emerge come ‘terza Persona’, non generata dai due (come il bambino dall’uomo e dalla donna), ma spirando fuori indicibilmente dal comune ‘soffio’ (πνεῦμα) della loro reciproca inerenza. L’amore nell’Assoluto è il prodigio perenne, che per l’eternità rimane miracolo a se stesso: infatti non si può afferrare logicamente che dall’amore scaturisca sempre questo alcunché di indicibile, che l’amore continui perennemente a sbocciar fuori, di là da quello che sembrava essere, tra amanti, già l’estremo della pienezza, e che a loro volta gli amanti vengano stimolati a nuovi giochi ed escogitazioni dall’insperata misura della propria energia, della propria capacità, dalla ricompensa e dal coronamento interiori di cui godono. In tale unità imperscrutabile Dio è Spirito: come natura e come Persona: nello spirito in quanto natura Egli ‘è’ eternamente presso di sé, in quanto ‘viene a se stesso’ e così il Padre non può comunicare al Figlio la sua natura divina, senza che già lo Spirito sia sempre in Lui, ma nello Spirito quale persona Dio emana perennemente da se stesso, il respiro unito del Padre e del Figlio è un Qualcuno a sé stante, misterioso: un ‘tra’, che esprime e sigilla l’unità, proprio con l’essere personalmente questa Unità. Così l’unità personale ha ancora due aspetti, paragonabili alla posizione del Figlio rispetto al Padre: da un lato essa è la reciprocità compiuta, conclusiva tra Padre e Figlio, e qui lo Spirito, più nel senso della teologia latina, procede dal Padre e dal Figlio contemporaneamente, dal loro rivolgersi l’uno all’altro; dall’altra parte, tale unità è l’ultima apertura di Dio nel proprio estrinsecarsi perfetto, in cui lo Spirito Santo è l’amore oggettivato del Padre e del Figlio in quanto persona – e qui sta la verità relativa dell’aspetto greco, che fa procedere lo Spirito dal Padre mediante il Figlio, in un efflusso infinito. Questo duplice aspetto personale: riflessione (del Figlio verso il Padre) come amore, ed emanazione (del Padre mediante il Figlio) come amore getta una luce retrospettiva sull’aspetto essenziale, in cui Dio come Spirito è assoluto autopossesso, in sé raccolto, e assoluta totalità effusa dell’essere: come amore.
Il mondo è creato nel Logos, su ciò Bonaventura ha detto le cose più profonde: l’atto della sua libera processione è fondato nell’atto generativo intradivino del Padre: il mondo è espressione riproduttiva, e particolarizzata all’infinito, di Dio, fondata nell’espressione archetipicamente unitaria che è il Figlio; perciò a lui ‘conviene’ farsi uomo e raccogliere nella propria archetipica unità la molteplicità che si va perdendo. E tuttavia le opere di Dio ad extra sono operate di volta in volta dall’intero Dio-Trinità: perciò l’opera fondata preminentemente nel Verbo possiede per sempre aspetti e dimensioni trinitarie. Il Verbo, anche in quanto fatto uomo, sta in un centro in dinamismo: viene dal Padre, che annuncia e ‘spiega’2, ascendendo al cielo ritorna al Padre, ma proprio per mandar fuori nel mondo lo Spirito da questa unità (riacquistata nel senso dell’‘economia’): al tempo stesso quale suggello della sua riunificazione col Padre (aspetto latino)3, e quale ‘promessa del Padre’ (aspetto greco)4, che il Padre invia su preghiera del Figlio e in suo nome5. Il Verbo nella sua forma visibile, finita, comprensibile è la rivelazione di Dio, solo in quanto trascende in duplice direzione questa forma (senza dissolversi): verso l’origine e verso l’adempimento. Presso Giovanni si parla continuamente delle due direzioni: anzitutto del trascendimento verso l’origine – il Verbo d’un Altro, che è più grande, che l’ha mandato, la cui volontà Egli compie, e così via – poi, verso la fine, del trascendimento in direzione dell’adempimento: che molto ancora si dovrebbe dire, e ora non può venir sostenuto [dai discepoli], viene rimesso allo Spirito, il quale introdurrà in ogni verità. Anch’egli come il Verbo, «non parlerà da se stesso, ma di ciò che ode», assumerà il compito di annunciare le cose che appartengono al Verbo ed in esse lo glorificherà, come il Verbo glorifica il Padre6. Così nella rivelazione verbale sta una grande rinuncia esistenziale del Verbo stesso: non sarà Lui medesimo, dopo la sua resurrezione, a continuare a predicare, con maggior potenza e forza che fosse avvenuto fino allora, ma la funzione attiva passa allo Spirito: è questi a far avanzare gli Atti degli Apostoli, è questi a dettare le lettere di san Paolo, ancor più: è Lui a scrivere la lettera di raccomandazione dell’apostolo: «comprensibile e leggibile per ciascuno… sulle tavole del cuore»7. Egli le schiuderà ai Padri della Chiesa, nella prosecuzione del carisma profetico, il ‘senso pneumatico’ della lettera, non riallacciandosi all’allegoresi pagana dei miti, ma attingendo dalle profondità della rivelazione biblico-trinitaria (come non si stanca di dimostrare Henri de Lubac)8. Forse una teologia trinitaria non ancora perfetta, elaborata da Origene, ha fatto deviare fino ad equiparare eccessivamente Logos e Pneuma, a interpretare il Logos risorto stesso quale Pneuma, e in tal modo – a dispetto della sua medesima assicurazione – a dissolvere troppo presto la lettera in spirito. Ma quanto, viceversa, noi ‘cristiani carnali’ rimaniamo aggrappati alla lettera, un tempo al legalismo, oggi alla sopravvalutazione dell’esegesi filologica, che può rappresentarne sempre solo un passo, e quindi dev’essere poi abbandonata nell’avventura audace della libertà cristiana. San Paolo continua a svolgere insieme il discorso dell’elevazione del cristiano a questa terza potenza divina, entro la quale Cristo ci ha lasciati e ‘traditi’. Forse il rischio che si cela in ogni atto di ...