Il viaggio della Stella Polare
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«Emilio Salgàri (Verona, 1862 – Torino, 1911) fu senza dubbio un grande sognatore, ispiratore a sua volta di sogni esotici e d'avventura di generazioni intere. Egli stesso alimentò la leggenda che i suoi scritti fossero frutto di sue esperienze di viaggio, tanto reali quanto sfolgoranti; non era vero, e piuttosto per lui la scrittura era un modo – in certa maniera comunque reale e sfolgorante – per evadere dall'orizzonte ristretto della vita borghese e provinciale.In quest'occasione Salgàri si era ispirato a una storia vera: la spedizione verso il Polo Nord guidata da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, fra il 1899 e il 1900. Il libro uscí già proprio alla fine del 1900 come "strenna di Natale" – un "instant book", diremmo oggi – basandosi sulle dichiarazioni del duca e su articoli pubblicati su giornali e riviste.»Illustrato con dodici dipinti a olio di iceberg di Màlgari Onnis.Introduzione di Antonella Greco.

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Informazioni

Editore
Ikonaliber
Anno
2021
ISBN
9788897778714
Categoria
Viaggi

VII L’incontro con la Cappella

La spedizione Wellmann, raccolta dalla nave baleniera, aveva avuto un tale rovescio da non incoraggiare certo i membri della spedizione italiana. Ritornava in pessimo stato, con un uomo di meno e senz’esser riuscita nel suo intento di raggiungere il Polo.
Come abbiamo detto, il signor Wellmann, un americano già pratico delle regioni polari, era partito dalla Norvegia l’anno precedente, sbarcando il 30 luglio al Capo Tegetthoff, dove piantava i suoi quartieri d’inverno, mentre la nave che lo aveva trasportato fino a quel luogo s’affrettava a tornare in patria.
Aveva per compagni tre americani – tre scienziati: il naturalista De Hoffman, il fisico Harline e il meteorologo e botanico luogotenente Baldwin – piú cinque marinai norvegesi.
Stabiliti i quartieri d’inverno, il Wellmann, approfittando della buona stagione, si era subito spinto fino all’80° di latitudine nord, costruendo una casupola sulla costa orientale della terra di Wilczeck.
Quella stazione fu chiamata pomposamente col nome di forte McKinley, in onore del presidente degli Stati Uniti, e vi furono messi a guardia due marinai norvegesi, Paolo Bjorwig e Bernt Bentzen.
Quest’ultimo era già stato compagno di Nansen durante la deriva del Fram.
Per quale motivo i due norvegesi erano stati lasciati soli nella capanna? Lo si ignora. Certo fu un’imprevidenza che quei due disgraziati dovevano pagare ben cara.
Mentre i due marinai rimanevano soli su quella spiaggia deserta, alle prese coi terribili freddi della regione artica e con gli orsi bianchi, la spedizione era ritornata al Capo Tegetthoff per svernare.
Verso la metà di febbraio del nuovo anno, il signor Wellmann e i suoi compagni lasciavano i quartieri d’inverno per spingersi verso il nord e rilevare i due marinai norvegesi.
Giunti al forte McKinley, come era da prevedersi, non trovarono vivo che il Bjorwig. Il povero Bentzen era morto due mesi prima, ucciso dallo scorbuto, e il superstite aveva trascorso parte dell’inverno accanto al suo disgraziato compagno, che non era riuscito a seppellire!…
Nonostante quel triste avvenimento, la spedizione aveva continuato la sua corsa verso il nord, con la speranza di poter giungere, con una rapida marcia, se non al Polo, almeno nelle sue vicinanze e di sorpassare la latitudine toccata da Nansen.
Raggiunse felicemente l’82° di latitudine, scoprendo al nord di Treeden Island, la prima terra scoperta da Nansen, nuove isole, poi dovette arrestarsi a causa d’un grave avvenimento.
Il signor Wellmann, caduto in un crepaccio, si era spezzato una gamba, costringendo la spedizione a un sollecito ritorno per salvare il proprio capo.
Rifece dunque le trecento miglia già percorse, trasportando il signor Wellmann sulle slitte e raggiungendo i quartieri d’inverno del Capo Tegetthoff.
Ma qui un nuovo disastro l’attendeva. Verso la metà del marzo, quando la spedizione stava per riprendere la sua corsa verso il nord, un terribile terremoto rovesciava parte delle baracche, uccidendo parecchi cani e distruggendo la maggior parte delle slitte.
Fu l’ultimo colpo che immobilizzò gli americani nei loro quartieri d’inverno.
Il 27 luglio la spedizione, quando già si era rassegnata a passare un altro inverno su quelle terre desolate, veniva raccolta dalla Cappella, mandata appositamente in quelle regioni per raccoglierla.
L’incontro della Stella Polare con la nave baleniera fu commovente. Fu trasmessa la posta; poi, dopo affettuosi addii, la prima riprendeva la sua corsa verso il nord, mentre la seconda, forzando i ghiacci, giungeva felicemente al Capo Flora dove raccoglieva le lettere depositate dal duca, da Cagni, da Querini, da Cavalli, dalle quattro guide e dai due marinai della spedizione, Canepa e Cardenti [1].
La Stella Polare, trovato il mare libero dopo tante lotte coi banchi di ghiaccio, aveva ripreso frettolosamente il largo per raggiungere, il piú presto che era possibile, le terre settentrionali dell’arcipelago Francesco Giuseppe.
Come già si sa, il piano del duca era quello di spingersi innanzi piú che poteva, per poi tentare l’avanzata con le slitte, quindi premeva a tutti di raggiungere una latitudine elevata.
Lo svernamento doveva fissarsi molto al nord, su qualche baia riparata, che si sarebbe indubbiamente trovata su qualche costa.
I rifugi non dovevano mancare, ma si trattava di trovarli il piú tardi possibile, cioè fino all’incontro con gli icefield inattaccabili, ossia con gli immensi campi di ghiaccio.
Il tempo, disgraziatamente, andava sempre piú abbuiandosi e, quantunque si fosse in piena estate, di quando in quando, dal settentrione, soffiavano venti freddi che accennavano ad aumentare.
Delle nebbie ondeggiavano costantemente per il cielo, impedendo al duca e ai suoi compagni di fare le loro osservazioni. Si sentiva già per l’aria l’avvicinarsi del terribile inverno polare: ed erano in pieno agosto!…
La Stella Polare però non si arrestava per cercare la baia che doveva servirle di svernamento. Approfittava di quel po’ di mare libero per spingersi verso il settentrione.
I ghiacci tuttavia non mancavano. Nell’immenso canale si vedevano errare capricciosamente, in balia delle onde, banchi di ghiaccio e i ceberg in buon numero, che però lasciavano spazi sufficienti per il passaggio della nave.
– Non andremo molto lontano –, disse un giorno l’ingegnere Støkken al tenente Querini che stava chiacchierando con le guide. – L’inverno si avanza a gran passi.
– Di già? –, chiese il tenente, stupito.
– Guardate, signore: gli uccelli marini cominciano a fuggire verso il sud e questo è un brutto indizio.
– Andremo egualmente innanzi, signor Støkken.
– Non vi fa paura l’inverno polare?
– Se non ha fatto paura al mio glorioso avo, perché dovrebbe spaventare me?
– Che cosa volete dire, signor tenente?…
– Che un mio avo si è pure spinto nei mari freddi, senza aver avuto paura dei ghiacci –, rispose il tenente. – E in quell’epoca, ve lo posso assicurare, non si aveva ancora molta conoscenza dei mari nordici.
– Che cosa mi raccontate, signor tenente?
– Una storia vera, signor Støkken.
– Un vostro antenato s’è spinto fino a questi paraggi?
– Oh!… Non molto innanzi, signor Støkken, però per quei tempi era già un viaggio considerevole. Rimonta nientemeno che al 1431.
– È stato dunque uno dei primi naviganti, anteriore ai Verazzano e ai Caboto.
– Sí, signor Støkken. Narrano le antiche cronache che questo mio avo, Pietro Querini, gentiluomo veneziano, si era proposto di visitare le regioni situate al di là del circolo artico, impresa molto difficile in quei tempi, non conoscendosi che molto imperfettamente le terre nordiche.
– Lo credo, signor tenente. A quell’epoca era malissimo nota anche la mia Norvegia.
– Era partito con sessantotto marinai, ottocento barili di malvasia, legnami lavorati e spezie, genziana e parecchie altre merci di valore, spingendosi fino a settecento miglia dall’Islanda.
Una tempesta tremenda aveva abbattuto gli alberi e spezzato il timone, sicché i marinai furono costretti a cercare rifugio in due scialuppe. Una contenente venticinque uomini scomparve, né mai piú nulla si seppe; l’altra, con quarantasette, errò lungo tempo sul mare, lottando con la fame e con la sete.
Quando il 4 gennaio del 1432 quella scialuppa poté toccare le coste della Norvegia, quei quarantasette uomini erano ridotti solamente a tredici.
– Un vero disastro.
– Sí, signor Støkken.
– E il vostro avo, morí?
– No, poté giungere a Bergen dove ebbe festose accoglienze, recandosi piú tardi a Londra, prima di tornare in patria.
– Signore –, disse l’ingegnere, con voce grave. – Auguro al pronipote del navigatore di ritornare pure in patria carico di allori e di gloria.
– Grazie, signor Støkken, eppure…
– Che cosa volete dire, tenente?
– Io non lo so, tuttavia temo che i ghiacci polari debbano portare sventura al pronipote –, rispose il tenente, con accento malinconico.
– Follie, signore.
– Speriamo che siano tali, signor Støkken.
Intanto la Stella Polare continuava la sua corsa fra le innumerevoli isole che ingombrano la parte settentrionale del Canale Britannico, ma non era veramente una corsa, poiché i ghiacci di tratto in tratto le ostacolavano la marcia, facendole perdere molto tempo preziosissimo.
Talvolta lo sperone della nave non bastava a rompere i margini dei banchi, e allora i marinai dovevano scendere sul ghiaccio e attaccarlo col piccone e con le seghe, fatica straordinaria, ma che però tutti sopportavano senza lagnarsi.
Nonostante quei continui ostacoli, il buon umore regnava costantemente a bordo. Il duca d’altronde incoraggiava tutti a compiere il loro dovere, ora con una buona parola, ora con uno scherzo, ora con un sorriso, e si studiava di mantenerli tutti in buona salute con pasti abbondanti e svariati, nei quali il cuoco canavesano si distingueva costantemente, con generale soddisfazione.
Chi dava noia erano sempre i cani. Con gli uomini si mostravano docili, specialmente con le guide alpine incaricate della loro pulizia e del loro nutrimento; viceversa poi si azzuffavano ferocemente fra di loro, mordendosi a sangue e facendo un tale baccano che talvolta i marinai non riuscivano a udire gli ordini dei comandanti.
A ogni momento le guide erano costrette ad accorrere per separarli affinché non si ammazzassero.
Al nord della Terra di Francesco Giuseppe la selvaggina continuava a mantenersi numerosa. Ogni giorno si vedevano branchi di foche e di trichechi che giocherellavano sui margini di ghiaccio, offrendo cosí l’occasione agli ufficiali di fare delle belle fucilate. Specialmente il duca non mancava quasi mai ai suoi colpi, da vero nipote di Vittorio Emanuele, il valente cacciatore di stambecchi. Quelle foche non appartenevano tutte a una sola specie. Oltre a quelle comuni, chiamate laggar dai norvegesi e che s’incontrano dovunque, e quelle groenlandesi col ferro di cavallo sul dorso, se ne vedevano anche parecchie di grandi dimensioni, prima mai vedute dalla maggioranza dei membri della spedizione italiana.
Erano le crestate o foche dal berretto, le maggiori della famiglia, e che posseggono una specie di vescica cutanea lunga venticinque centimetri e alta venti, che l’anfibio quando è irritato gonfia, ma che quando è in riposo lascia ricadere sul naso.
Queste foche misurano due metri dal muso all’estremità deretana, hanno la testa molto grossa, il muso gonfio, le unghie ricurve e assai robuste e la coda larga.
Il loro pelame è setoloso, un po’ sollevato, color bruno nocciola o nero a macchie ovali.
Sono meno numerose delle altre, anzi è raro trovarle in parecchie, e sono di umore battagliero e anche le piú difficili a uccidersi, essendo il loro berretto quasi impenetrabile alle palle. Assalite, si difendono coraggiosamente e non di rado riescono a rovesciare le barche montate dai pescatori.
Oltre le foche si vedeva comparire anche alcuni orsi bianchi, però non si avvicinavano quasi mai a portata di fucile, e quando udivano qualche sparo s’affrettavano ad allontanarsi prendendo un galoppo piuttosto rapido.
– Sono diffidenti –, diceva Cardenti. – Quando però saremo a terra, voglio farmi preparare dei manicaretti d’orso bianco.
Verso gli ultimi d’agosto la Stella Polare giungeva nei pressi dell’isola Elisabetta, una terra assolutamente deserta, dalle coste ripide, contornate da vecchi iceberg e coperta in gran parte da nevischio.
Fu presso quell’isola che la valorosa nave fece l’incontro di banchi enormi, tali da impedirle di poter procedere piú oltre.
Canali non se ne vedevano in alcuna direzione. Il ghiaccio era dovunque massiccio, assolutamente inattaccabile.
– Che siamo costretti a retrocedere o trovare qui qualche baia ove svernare? –, chiese il tenente Querini al capitano Evensen.
– Siamo appena all’81° grado e il duca vuole toccare almeno l’82°.
– Se vi giungeremo.
– Questi ghiacci s’apriranno, signore –, disse il capitano, guardando lontano. – Ci sono pressioni laggiú, e domani troveremo qualche canale.
– E dove andremo a svernare?
– Non lo possiamo sapere ancora. Sarei però contento se potessimo giungere almeno alla baia di Teplitz. M’hanno detto che colà si può trovare un buon ancoraggio.
– E piú innanzi non potremo trovarne? –, chiese il tenente.
– Chi può dirlo?… Queste terre non sono conosciute. Solamente Nansen le ha percorse in gran fretta.
– È in questi paraggi che ha svernato assieme a Johansen?
– Sí, signor tenente. Si rimane ancora meravigliati nel pensare come quei due uomini soli, senza viveri, abbiano potuto passare l’inverno polare in queste regioni.
– Dove hanno precisamente svernato?…
– A 81° 13’ di latitudine nord e a 55° ½ di longitudine est. Quasi alla nostra stessa latitudine.
– Devono aver sofferto molto durante quei lunghi mesi.
– Non troppo, signore. Altri sarebbero forse morti, ma quei due avevano delle fibre di ferro.
– È del signor Nansen che si parla? –, chiese Ollier avvicinandosi al tenente, mentre il capitano Evensen si dirigeva verso prora per osservare i ghiacci.
– Sí –, rispose Querini. – Il capitano mi diceva che il famoso esploratore aveva svernato in questa latitudine.
– Aveva molti compagni, signor tenente?
– Uno solo, mio caro Ollier.
– E la sua nave?
– L’aveva abbandonata per cercare di spingersi verso il Polo. Essendo stata rinchiusa dai ghiacci e trasportata verso l’ovest, Nansen l’aveva lasciata.
– E hanno passato l’inverno fra queste terre solo in due?
– E quello che è peggio senza viveri, avendo consumato quelli che avevano portato dalla nave, durante la loro corsa verso il nord.
– Raccontate, signor tenente. Come hanno potuto sopravvivere?
– Mercè una gran dose di energia veramente sovrumana e di un coraggio straordinario. Dopo aver toccato l’86° grado, superandolo anzi di alcune miglia, Nansen era stato costretto a ritornare per mancanza di viveri e a causa della deriva dei ghiacci, i quali lo portavano indietro nonostante le sue lunghe marce. Cosí vennero a cercare rifugio su questa terra per passare l’inverno polare.
– E la loro nave?…
– Era ormai molto lontana. I ghiacci l’avevano spinta verso l’ovest, in direzione dello Spitsbergen, quindi non potevano contare in nessun modo su di essa. Quei due coraggiosi però non si smarrirono. Non avendo viveri e approssimandosi l’inverno, dette...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il viaggio della Stella Polare
  3. Indice dei contenuti
  4. Il viaggio della Stella Polare
  5. Introduzione
  6. Nota editoriale
  7. Dedica dell’autore
  8. Parte I
  9. I Larvik
  10. II La Stella Polare
  11. III La partenza
  12. IV Dallo Skagerrak al Mare del Nord
  13. V I fjord della Norvegia
  14. VI I giganti del mare
  15. VII Una terribile avventura
  16. VIII Un dramma polare
  17. IX Nei paraggi del Maelstrom
  18. X Il Capo Nord
  19. XI Le coste della Lapponia
  20. XII Nel Mar Bianco
  21. XIII Addio, Europa!
  22. Parte II
  23. I Le esplorazioni artiche
  24. II Gli orrori delle regioni polari
  25. III Il Mar Bianco
  26. IV Il naufragio della Fraya
  27. V Nei paraggi dello Spitsbergen
  28. VI La Stella Polare fra i ghiacci
  29. VII Terra!… Terra!…
  30. Parte III
  31. I La scoperta della Terra di Francesco Giuseppe
  32. II Il Capo Flora
  33. III La caccia ai trichechi
  34. IV Il Canale Britannico
  35. V Lotta coi ghiacci
  36. VI Le prime pressioni
  37. VII L’incontro con la Cappella
  38. VIII La baia di Teplitz
  39. IX Accampamento a terra
  40. X L’inverno polare
  41. XI Verso il Polo
  42. XII Il ritorno
  43. Iceberg. dodici dipinti a olio di Màlgari Onnis