Avatar Beauty Project
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«Questo lavoro rappresenta una ricerca nuova e originale che spiega molte cose sulle origini del nostro essere e lascia all'immaginazione la direzione verso la quale il fato va spingendoci».Franco BattiatoIn un mondo dove chiunque può fare ricorso al chirurgo estetico, cambiando a piacimento connotati e forme; dove chiunque può declinare la propria individualità in innumerevoli modi mediante i mezzi della costruzione virtuale di se stessi, ha ancora senso parlare di fisiognomica in senso classico?Tutti, insomma, paiono essere piccoli architetti della propria immagine, e perfino di una vasta gamma di connotazioni comportamentali, proiettate con un demiurgico click del mouse nel cyberspazio della second life: un modo assolutamente diverso, anche rispetto a un mucchietto di anni fa, di pensare se stessi e di proiettare il proprio eidolon nel mondo, divenuto avatar.Questo libro non ha nulla del volume classico sulla fisiognomica. Si configura piuttosto come un'indagine quasi holmesiana che, partendo da una serie di indizi, intende approdare a una qualche conclusione. Strada facendo, non si tralasceranno i fondamenti generali della materia più classica, ma tentando di rimanere a occhi ben aperti e assolutamente fermi nell'intento di volerne fare, per dirla con le parole del venerabile Jorge, soltanto «mera ricapitolazione».

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788866231783
Categoria
Sociology
Gli stereotipi
Metamorfica dell’apparire
«A uno principe, adunque, non è necessario avere
in fatto tutte le soprascritte qualità,
ma è bene necessario parere di averle».
Niccolò Machiavelli
Alexander Lowen, padre del metodo chiamato “analisi bioenergetica” capace di integrare psicoterapia verbale a terapia corporea, afferma:
Il senso di identità ha origine da una sensazione di contatto con il corpo. Per sapere chi è, un uomo deve essere consapevole di ciò che sente. Dovrebbe cioè conoscere l’espressione del suo viso, il suo portamento e il suo modo di muoversi. Senza questa consapevolezza delle sensazioni e degli atteggiamenti corporei, una persona è vittima della frattura che si crea in uno spirito estraniato dal corpo e in un corpo privo dell’incanto dell’anima.
Discepolo di Wilhelm Reich, sfortunato e incompreso uomo di genio, Lowen applica i fondamenti principali del maestro che, rispetto a Freud, aveva capito quanto fosse importante osservare i pazienti anche dal punto di vista della mimica e delle metamorfosi, lente o repentine, che si potevano notare sul piano fisico.
In poche parole Lowen con la sua bioenergetica cercava di individuare certi nodi che, sotto forma di blocco muscolare, nascondevano un ben più serio e profondo ingorgo di tipo energetico. In questo modo anche la mimesi facciale veniva compromessa, come anche l’atteggiamento generale del corpo.
Basti pensare all’andatura ingobbita di una persona improvvisamente soverchiata da pensieri pressanti e insopportabili. Ora, se il sistema proposto da Lowen presenta senz’altro vantaggi notevoli e si pone ben all’avanguardia sul piano di una visione per così dire “olistica” delle sofferenze umane, una presa di contatto col proprio corpo può risultare in qualche misura fuorviante e, quando mal utilizzata, ragione di un’eccessiva e nociva concentrazione egotica. Il “penso dunque sono” di cartesiana memoria spinge alla conclusione parasillogistica dell’“io sono perché esisto fisicamente” e quindi mi identifico con un ben definito corpo fisico: incontrovertibile.
Ma se riconoscersi nel proprio corpo offre un senso di materiale sicurezza, esiste il rischio contemporaneo che l’eccessiva magnificazione di quell’involucro finisca per diventare apparenza preponderante. L’unico possibile specchio per la vanagloria di Narciso.
Allorché la conoscenza consapevole della propria fisicità conduce a sentieri esplorativi capaci di creare ottime intuizioni sulla nostra natura profonda, nascosta e difficilmente sondabile in un percorso induttivo, essere e apparire hanno buone ragioni di integrarsi in un’armonica ed equilibrata convivenza, promettendo apprezzabili benefici esistenziali. Lowen si preoccupa che «lo spirito non sia estraniato dal corpo, in un corpo privo dell’incanto dell’anima».
Se è vero che nessun concetto, dal più comune fino a quello che lambisce le eccelse dimensioni della metafisica, avrebbe possibilità di esistere senza un organismo vivente e intelligente che arrivi a concepirlo, è altrettanto certo che ogni uomo cosiddetto “di conoscenza” ha cercato e talvolta creduto di raggiungere gli stadi sublimi dell’illuminazione sapienziale proprio mediante il totale distacco dalla propria fisicità, in un abbraccio con l’assoluto. Quella dimensione del cuore che i saggi cinesi chiamavano Tao e Castaneda ha fatto conoscere con il nome di Nagual.
Eppure è inevitabile pensare a noi così come ci immaginiamo, per ciò che vorremmo essere, per come ci imponiamo di essere e per quello che gli altri dicono di noi, rimandandoci un’immagine della nostra forma alla quale, per molti versi, arriviamo a credere e ad aderire. Un habitus mentale destinato a diventare costume d’abitudine e dunque “vestito” da indossare a piacimento, con minore o maggiore coscienza nell’altalena inarrestabile di queste permutazioni.
Immaginiamo un uomo qualsiasi, un professore di liceo, mettiamo. Mi rendo conto di formare nella mia mente l’iconasimbolo raccontata da Heinrich Mann nel romanzo L’angelo azzurro…
Ok. Professore di liceo di età matura, integerrimo nella professione come nei tratti del carattere che si riflettono sul suo volto, nel gestire con sobrietà il corpo, nello sguardo severo, nel comportamento generale che fa di lui “il professore per eccellenza”: uno stereotipo come tanti, forte ed espressivo nella declinazione di tutte le possibili caratteristiche legate all’immaginario più consolidato. Un bel giorno il nostro uomo entra in un pub, un locale dove si beve, in cui le donne disponibili non mancano e la gente che lo frequenta non appartiene alle categorie più raccomandabili.
Probabilmente la prima volta il nostro terrà un atteggiamento prossemico da medico della peste, indosserà la classica maschera metaforica con il becco e guarderà con la curiosità distaccata dell’entomologo quel simpatico bestiario. Il suo contatto verrà mediato da un velo di intellettualizzazione estetica che lo farà sorridere di sé, tutto sommato indulgente con quella genia a lui così estranea. Ma se il nostro professore, attratto da qualcosa o qualcuno, roso all’improvviso da un tarlo che sonnecchiava in una zona ignota del suo cervello, comincia a diventare prima sporadico avventore, poi assiduo cliente di quel locale, è inevitabile che anche al più disattento dei suoi conoscenti non passerà inosservato un cambiamento, prima sottile e quasi impalpabile, presto deciso e assolutamente radicale. Probabilmente sarà incline alla risata crassa, mentre prima increspava appena le labbra nel sorriso, vestirà in modo eccentrico mandando in pensione abiti dal taglio classico, userà un linguaggio che prima gli era del tutto sconosciuto e proibito.
Ma osserviamo anche in che misura la sua mimica facciale apparirà mutata mentre la spacconeria dei modi avrà sostituito la quieta timidezza. Il professore de L’angelo azzurro incontra Lola Lola, ma il nostro, supponiamo, ha fatto un altro incontro: quello con un gangster di periferia, simpatico e a suo modo seduttivo, come certi personaggi della mala creati da Hollywood.
Cos’è scattato nella mente del tranquillo professore di liceo, che gli ha fatto cambiare addirittura faccia ed espressione? Semplice: uno dei processi metamorfici più frequenti e meno studiati. L’adesione a uno stereotipo. Perdita di identità della propria fisicità fenomenica in cambio di un’altra: Lowen ci sarebbe diventato pazzo o si sarebbe divertito come un matto.
Un insensibile, graduale e probabilmente irreversibile mutamento del proprio habitus corporale dovuto a una specie di “virus” nascosto da qualche parte del profondo sé, così aggressivo da rendere ben efficace questa trasformazione. Il nostro timido insegnante vedrà presto indurirsi i tratti del viso, perfino la voce, un tempo pacata e modulata secondo codici di una educazione “classica”, tenderà ad assumere una timbrica non solo arrochita dal fumo di sigarette mai toccate prima, ma dalla pratica continua con persone arroganti, dalle maniere sbrigative e piuttosto rudi.
Poi entrerà in gioco magari un’insolita disponibilità di denaro che, in cambio di un qualche servizio poco pulito, comincerà a entrare come ottimo extra nelle tasche quasi vuote del prof. Ed ecco un uomo totalmente mutato fino a essere irriconoscibile solo per aver aderito a un modello, in questo caso poco edificante, ma ugualmente seducente e capace di produrre una metamorfosi radicale.
Consideriamo adesso brevemente alcuni stereotipi capaci di influenzare l’immaginario e di portare nutriti gruppi di persone ad aderirvi. Non staremo qui ad analizzare le ragioni psicologiche o addirittura di ordine psichiatrico che possono condurre qualcuno a idolatrare modelli fino al punto di desiderare una completa adesione. Non è questo l’argomento, né potrei arrogarmene la competenza. Sembra invece interessante partire sul piano puramente speculativo da certe convinzioni personali, suggerite inevitabilmente anche da una serie di inavvertite sovrastrutture sociali, che tendono con determinazione a un medesimo obiettivo: l’impellente esigenza del trasformarsi in avatar di se stessi.
Prima ancora dell’avvento rivoluzionario della fotografia e del cinema, già la pittura può darci un’idea del fenomeno. Un faraone egizio si faceva ritrarre con le sembianze ideali riferite a un eccelso dio del panteon di quella religione, e lo stesso pretendeva per la sua sposa. Entrambi, ancorché dalle fattezze piuttosto ordinarie, venivano glorificati non solo in pose ieratiche e di grande solennità, ma ogni dettaglio dei loro tratti era un elogio alla perfezione che molto probabilmente, nella realtà, quegli “dei in terra” non avrebbero mai potuto sognarsi.
E dal canto suo nessun nobiluomo, decisamente incline ad aprire il suo generoso borsellino per quel pittore che lo ritraeva meglio, avrebbe sopportato di vedersi basso e grasso, oppresso da una calvizie devastante e involgarito da un couperose da villano. E invece, grazie alla magia di un pennello più pietoso che cortese, eccolo apparire, con la sua famiglia, austero, elegantemente barbuto, virile d’aspetto e imbalsamato nel rigor grottesco di un’inossidabile giovinezza.
Il quadro diventa allora speculus mirabilis e rimanda dalla sua cornice proprio l’immagine di come quel soggetto avrebbe voluto essere, l’interpretazione del modo esatto in cui egli avrebbe voluto consegnare quella immagine incorrotta ai posteri.
Oscar Wilde rende folgorante questa aspirazione e ci racconta forse il primo esempio di costruzione di un avatar fatto a propria immagine e somiglianza in termini ideali.
Nel caso di Dorian Grey non assistiamo a una manipolazione fisica del personaggio, ma a una ipostatizzazione, al cristallizzarsi di un’icona che diviene eterna consegnandosi all’incorruttibilità in forza di un patto che si immagina oltre e contro la natura, e quindi in odor di zolfo.
In realtà l’affronto contro l’ordine “normale” delle cose irrita i moralisti, gli ipocriti, i rassegnati e tutti coloro che sotto sotto, pur nel rifiuto ostentato, avrebbero voluto valersi di quel sortilegio. Dorian scopre di essere padrone di uno strano incantesimo capace di fermare il tempo e di trasferire i suoi insulti sulla tela, obiettivo stesso della vita scellerata del protagonista. Lui continua a essere bello e giovane, il quadro rivela i segni di un corpo e di un’anima in dissoluzione. La cifra romantica, che ancora ci appartiene tutta intera, non può ammettere che ci sia spasso senza condanna, esecrazione e fallimento di quell’onta contro il creatore. Wilde, da buon cattolico, non poteva concludere la sua “favola” privandola della quota moral-religiosa senza correre il rischio di attirarsi molte più grane di quelle già piovutegli addosso…
Pensate a chi ancora adesso decide di fare ricorso al bisturi per cambiare il corpo: una folla di benpensanti (Gianluca Nicoletti, citando Danilo Masotti, li chiama con un termine che amo: gli umarell) spareranno le loro sentenze, convinti di essere i dikaioi, i “giusti”, custodi, amministratori e sommi dispensatori di giustizia e verità.
Personalmente credo che quando le cose non vanno troppo bene lasciarle così come stanno non sia mai una buona idea: chi ha un problema grande o piccolo non deve considerarlo alla stregua di una palestra per espiare, quanto piuttosto un esercizio da risolvere.
Questo vale ovviamente anche per chi non si sente bene “nella propria pelle” o non tollera più i danni inflitti dal trascorrere del tempo e pensa di ritardare i danni. Poi ci sono anche quelli che sognano di apparire letteralmente trasformati, vestiti di una seconda pelle dopo aver spalancato le porte alle loro ossessioni, destinate a farli aderire a un modello costi quel che costi.
E qui il discorso si complica. Ci sono fior fior di chirurghi strapagati per usare il loro bisturi su persone somiglianti a star del cinema fino a rendere copia e originale uguali come gocce d’acqua. Cosa muova questo desiderio è difficile dirlo, anche se molte di queste controfigure finiscono per essere ingaggiate nei cast con ottimi contratti.
In realtà, senza arrivare a eccessi limite, l’immedesimazione in un idolo del rock, della letteratura, del cinema, è una delle debolezze della natura umana più comune al mondo, mentre il volere assomigliare a questo o quel personaggio in un processo più o meno identificativo potrebbe apparire degno solo degli adolescenti: eppure non è così.
Un tempo le nostre nonne leggevano i loro romanzi sognando di vivere le stesse avventure delle protagoniste: e per sentirle più vicine si vestivano come loro, si atteggiavano nel modo descritto dallo scrittore e intonavano la voce secondo quel che l’immaginazione andava loro suggerendo.
Lo stesso accadeva ai nostri avi che, testimoni o emuli di imprese guerresche, trovavano sempre qualche eroe da imitare nel piglio, nel gesto, nella generosità sprezzante del pericolo, oppure attraverso atti ispirati alla nobiltà dell’animo e all’eleganza squisita, ritenuta allora requisito irrinunciabile del vivere quotidiano negli ambienti della medio-alta borghesia.
Se avessero potuto avrebbero impresso nelle espressioni dei loro stessi volti quelle qualità o avrebbero immaginato che ogni tratto del viso fosse scolpito da un artista raffinato, da un demiurgo celeste, capace del miracolo. Eppure spesso quegli ideali potevano caricarsi di una coloritura etica non priva di valore allorché si rivelavano ottimo esempio per aspirare a cose alte: il parlare poteva diventare colto e raffinato, gli abiti eleganti, le maniere aristocratiche. Salvo il pericolo malaugurato di sfondare nel kitsch parodistico e nello snobismo da operetta, impiccio nel quale ogni avatar antico e moderno può sempre andare a cascare.
D’altra parte c’è da dire che un’infinità di scrittori ha usato l’arte della descrizione fisiognomica per meglio sottolineare una linea di congiunzione forte tra la metamorfica fisica e certi aspetti caratteriali, e questo soprattutto a partire dall’epoca romantica, in cui sembrano ormai esaurite le pretese del positivismo cartesiano di dare a tutti i costi un assetto scientista alla fisiognomica, intesa in senso meccanicistico e basata su modelli leonardeschi.
È questo il periodo in cui la frenologia e la patognomica, ovvero l’analisi dei moti dell’anima, si affiancano agli studi antropologici di Darwin e Mantegazza. Eppure di moti dell’anima aveva già discusso Juan Luis Vives, umanista spagnolo del Cinquecento che, in qualche misura, può dirsi precursore della psicologia intesa in senso moderno, anticipando quelli che sarebbero stati i fondamenti del cartesianesimo e i principi della filosofia di Spinoza: nel suo metodo, analisi leonardesca e moti dell’anima si fondono dando vita a una trattazione di straordinario vigore.
Se tracciamo una linea immaginaria che va da Leonardo da Vinci a Corman ci rendiamo conto come ogni espressione dell’arte – sia di tipo visivo che legata al mondo letterario – si impegni a raffigurare l’essere umano non tanto per quello che la sua superficie lascia trasparire, quanto piuttosto scrutandone l’essenza profonda, ben oltre i velami fenomenologici.
Da questa analisi sarebbe scaturita una serie complessa di indizi capace di comporre un mosaico di impressioni, suggestioni ed emozioni organizzati in modo tale da creare un’icona perfetta, un golem fatto di ossa, sangue e sentimenti.
Soffermarsi a indagare quanto l’artista potesse avvicinarsi alla realtà descritta poco importa, perché il suo atto di ricreare., pur ispirandosi a un qualche modello davvero esistente, avrebbe conferito, per forza di cose, vita e vigore del tutto autonomi e nu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Prefazione, di Gianluca Nicoletti
  6. Introduzione, di Marco Klinger
  7. Essere e apparire
  8. L’anima e il volto
  9. Gli stereotipi. Metamorfica dell’apparire
  10. Uno sguardo allafisiognomica classica
  11. Cenni di fisiognomica astrologica
  12. Cybermetamorfica
  13. Allo specchio dei neuroni specchio