Antonio di Padova
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Il romanzo di una vita

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Il romanzo di una vita

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Antonio da Lisbona cercò a lungo la sua strada: prima fra gli agostiniani e poi fra i francescani, dove finalmente trovò il suo percorso spirituale. Dal Portogallo all'Italia, inseguendo la passione dei martiri francescani del Marocco, senza lasciarsi scoraggiare dall'esperienza di una lunga malattia, ma soprattutto scoprendo, a poco a poco, la forza della Parola di Dio e della predicazione.Dopo Francesco e Chiara (ripubblicati da Edizioni Terra Santa rispettivamente nel 2018 e nel 2019), il terzo romanzo della trilogia di un grande autore religioso del Novecento.La scrittura di Fabbretti è trascinante.Il racconto della vita di uno dei santi più amati nel mondo. La raffinatezza narrativa dell'autore trascina al cuore di una storia affascinante e rocambolesca, un'autentica vocazione mistica.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788862409896

Capitolo I

Da quando, alcuni giorni fa, ho visto quei cinque frati assassinati, ho perduto la pace. O forse, senza rendermene conto, ne ho trovata una diversa che non conoscevo né immaginavo?
Non erano belli a vedersi, quei morti. Il loro saio a brandelli era ancora insanguinato, sui corpi, e anche sul volto, c’erano ferite asciutte e livide, malamente rimarginate. Mi sono però stupito che non si vedessero segni di decomposizione, né si sentisse il solito lezzo di cadavere. Sotto i fiori che quasi li nascondevano agli occhi della folla, interrogavo quei volti muti e sfigurati che non finivano di sconvolgermi. Erano i volti di chi ha finalmente raggiunto la pace.
Ma il loro era un trionfo o insieme una sconfitta? Era il viaggio di chi torna perché ha fallito lo scopo o perché lo ha raggiunto? Tutta Coimbra è scesa per le strade, costringendo il corteo a procedere molto lentamente nella grande calura. Tutti volevano entrare nella povera chiesetta di Sant’Antonio de Olivares, fuori della città, sembrava che le cellette dei frati minori dovessero essere travolte da un momento all’altro dalla fiumana del popolo. Era gente che non piangeva dei morti ma che pregava dei vivi, che già l’invocava come santi e martiri. Il corteo era un omaggio che nemmeno il Papa o l’imperatore avrebbero potuto sperare uguale. Re Alfonso e la regina Urraca procedevano davanti ai cinque feretri su cui i martiri venivano portati a spalla da nobili, prelati, frati e cavalieri.
Il corteo ha sostato solo brevemente presso la chiesetta dei frati minori, per proseguire verso la mia chiesa, molto più ampia, ma neanch’essa in grado di contenere la gente. C’è voluto molto tempo prima che i sovrani, i nobili, il vescovo e i prelati fossero al loro posto e il rito, insieme di suffragio e quasi di canonizzazione, avesse inizio.
Mi sono appartato in un angolo per pregare indisturbato. Ma in realtà mi sono limitato a pensare, a ricordare, a far tornare le tessere di questo mosaico vivo di fede e di martirio. Questi morti, questi frati, questi martiri li ho visti partire. Ora mi rendo conto che il solo vederli mi aveva già prima costretto a pensieri inquietanti e allo stesso tempo esaltanti. Vederli tanto poveri, vederli vivere in capanne di frasche, lavorare in aiuto a chiunque per guadagnarsi il pane, dare anche il necessario ai poveri più poveri di loro, tutto questo era stata, quando li conobbi prima che partissero, una grande lezione di Vangelo. Come un pugno nello stomaco, devo ammetterlo.
Chi erano? Erano seguaci di frate Francesco d’Assisi, un piccolo uomo illetterato del quale si parla in tutta la Chiesa e la cristianità con ammirazione e amore. Anche lui, mi hanno detto, circa un anno fa è giunto sino in Spagna, sperando di poter partire di lì per i paesi africani dei saraceni, per il Marocco o l’Egitto o la Siria. Francesco però non voleva andare così lontano guidando o incoraggiando un esercito di crociati, per combattere i nemici di Cristo e della Chiesa, ma semplicemente per predicare il Vangelo e convertirli. Ma credo anche, non so perché ma lo credo, che frate France co avesse una speranza ancora più profonda e segreta: d’essere martirizzato per Gesù Cristo. Non è stato però esaudito; s’è ammalato, non ha potuto partire. Ha dovuto tornarsene in Italia, facendo felice il suo grande amico, il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, che non vedeva di buon occhio la sua partenza in un momento che sembra già critico per questo giovane Ordine di poveri.
I frati minori infatti vanno crescendo ogni giorno a vista d’occhio: sono già vicini al migliaio. Sento in giro, e anche nel mio Ordine, un’ammirazione sincera, ma non di rado mescolata a perplessità e anche a invidia.
La rinunzia al viaggio fra i saraceni dev’essere costata a frate Francesco moltissimo. Dicono che, pur obbedendo, sul suo volto è rimasta la tristezza.
In questo momento, fra i canti e gl’incensi che onorano qui, nel mio monastero, i suoi primi frati morti per Cristo, mi rendo conto che il Signore lo ha esaudito nei suoi figli. Infatti, appena ha saputo della loro morte, ha esclamato: «Ora finalmente posso dire d’avere cinque veri frati minori!». Frate Berardo, Pietro, Adiuto, Accursio e Vitale hanno preso il suo posto. A lui, credo, è riservato un altro martirio, senza spargimento di sangue ma non per questo meno doloroso. Non oso confessare a me stesso che quello è anche il mio desiderio. Un desiderio fino a oggi confuso, inespresso, ma che da pochi giorni ha preso forma e chiarezza dentro di me. Ogni tanto, come adesso, quando quel pensiero mi torna, è come se una spada mi spaccasse il cuore. Perché so benissimo di non esserne degno in alcun modo. Mi vergogno d’essere un monaco circondato da tanti agi, e anche con qualche privilegio che mi viene offerto anche se l’ho sempre rifiutato. Sono pur sempre il figlio di don Martino de Bulhoes e di Maria Teresa di Taveira, due nobili e ricchi signori discendenti da principi e gloriosi crociati. Mi vergogno di vivere in chiesa, in cattedra e a mensa, all’altare e nei congressi come un principe più che come un servo. Però una cosa so di certo: che sono nato e sono entrato in questo monastero per servire i fratelli, per essere l’ultimo di loro.
Prima che questi cinque morti mi togliessero la pace, pensavo spesso che basta vivere ogni giorno con purità d’intenzione e con zelo la propria vocazione. Ora ho capito che non mi basta «amare il prossimo come me stesso», per «adempiere ogni giustizia», come dice il Signore: mi occorre amarlo «più di me stesso». Ma che cosa significa “più di me stesso”? Sono teologo, studio e insegno la sacra dottrina, so di rettorica e di grammatica, eppure mi sfugge spesso la misura di questa parola. Do la mia vita giorno per giorno, come mi è chiesto. Ma saprei darla tutta in un istante, chiudendo gli occhi, senza pensarci su, del tutto accesa e concentrata in un momento d’amore? È questo il martirio?
Sì, forse è questo. Ma io non ho il diritto di desiderarlo. Sarebbe il più grave peccato di presunzione. Che la scienza mi stia dando alla testa, che l’orgoglio del mio casato e del mio sangue si camuffi da umiltà, ribaltandosi in un orgoglio spirituale ancora più protervo e perverso?
No, se voglio vincere questo orgoglio non devo pensare al martirio, ma soltanto all’annunzio del Vangelo. Ho cercato di guardarmi allo specchio dell’anima, senza presunzione, per capire di quali talenti devo rispondere a Dio. Ho annotato, come se parlassi di un estraneo: «Ottimo ingegno, lingua sciolta, vita austera, assiduo nella preghiera e nella contemplazione, impegnato a essere nel monastero il più mite e obbediente, sempre pronto ai servizi liturgici, ma anche a tutti gli altri più umili; scevro d’albagia e d’ostentazione; debbo essere tanto umile da apparire, sebbene dotto, quasi un ignorante». Appena ho riletto ciò che avevo scritto ho avuto paura. Paura di me. Ma poi mi è scesa dentro quella grande pace che dicevo.
Scrivendo quello che ho scritto ho fatto semplicemente l’inventario di ciò che debbo mettere al servizio del Vangelo. Ma dove annunziarlo? In Portogallo, in Spagna, in Italia? O anch’io in terra saracena, in Marocco, in Egitto, in Siria? Predicare ai cristiani o agli eretici che vanno crescendo ogni giorno? O anche al clero, che in larga misura peggiora in simonia e corruzione? Signore, fammi vedere la tua luce e conoscere la tua volontà.
Non ho ancora venticinque anni, ma ho vissuto sempre fra gli agi, in casa e in monastero. Ora fammi conoscere la tua croce; solo in essa posso dare un senso alla mia scelta religiosa, alla mia giovinezza, alla mia vocazione, per essere meglio uomo, monaco, maestro.
Su quale strada debbo incamminarmi? Signore, perché non dovrebbe essere la stessa di questi cinque martiri?
Ieri ho incominciato a vedere più chiaro in me stesso. Ma questo non è successo perché stessi pregando o mi flagellassi con la “disciplina”. È stata una tentazione a darmi questa chiarezza, non una penitenza.
È una tentazione frequente. Più d’una volta, nei primi mesi che ero in monastero, ha minacciato di travolgermi e soffocarmi, ma ho sempre vinto. È la tentazione dei sensi, sempre nuova e sempre vecchia in un giovane sano come me.
I miei parenti e antenati sono sempre stati uomini e donne di gagliardi amori, di facili soddisfazioni carnali. Anche in questo del resto sembra consistere, persino a giudizio di molti maestri spirituali, la forza terrena d’una razza, d’una famiglia, d’una classe. Dio mi ha voluto al suo servizio, ma senza togliermi questo sangue concitato, questa prontezza di sensi, questo fuoco di fantasia e di desideri. In casa mia sono stato lusingato, qualche volta anche aggredito, da fanciulle formose e simpatiche. Ho scoperto presto che non erano angeli, e che avevano il sangue caldo come me, e la stessa fantasia tessuta di sogni e desideri. Prima d’entrare in monastero ho sempre faticato molto a liberarmi di queste seduzioni. Però non ho mai pensato seriamente di sposarmi e creare una famiglia, avere una donna per me e dei figli.
Anche se non l’ho detto spesso ai genitori e ai fratelli, questo è sempre stato il mio desiderio: essere di Dio e dei suoi poveri. Per questo la forza di resistere alle seduzioni dell’amore terreno mi è sempre parsa una preparazione necessaria alla vita religiosa. Ora non mi costa più fatica, o me ne costa sempre meno. E tuttavia, ogni volta che conseguo una vittoria in questo campo, in fondo al cuore, insieme alla gioia sento anche una certa tristezza nel vedere una bella fanciulla che si riduce, come questa mattina, a fare da esca e prova della mia virtù.
Penso che questa fantesca che viene a fare pulizia nella nostra chiesa, e che mi ha circuìto con occhi accesi e con voce suadente e tremante (ma era paura o desiderio?), non l’abbia fatto di sua volontà ma per incarico di qualcuno. Povero padre mio, ridotto a questi trucchi per distogliermi dalla mia strada! Non voglio pensare a mia madre: per quanto abbia profondo il culto della famiglia e dell’amore, mi ama troppo per volermi felice in modo diverso da quello che ho scelto. No, anche se per donna Maria Teresa de Taveira il culto del lignaggio è grande, non si abbasserebbe mai a questi stratagemmi.
Il volto e il corpo della fantesca, da ieri non sono ancora riuscito a cancellarli dal mio cervello. Il sangue no, il cuore nemmeno, essi sono in pace: è il cervello che arde ancora, e non trovo la briglia da mettergli. Perché? Che siano gli agi, le comodità di cui godo anche in monastero? Non sono affatto morto al mondo come dovrei essere, anche perché qui è una continua processione di parenti e amici, uomini e donne, che vengono a salutarmi, ma anche a distrarmi. Il loro silenzio sulla mia scelta, dopo le prime volte, è più eloquente di qualsiasi parola. È una riprovazione che rischia di diventare molto più insidiosa della fresca bellezza della fantesca.
Quella è stata facile da vincere. Mi rivedo ancora, con un cero acceso in mano, puntarlo contro la giovane come un esorcismo, con gli occhi ardenti d’ira, la voce vibrante... Ma ho detto davvero qualcosa a quella povera donna? Che c’entra lei?
Signore, abbi pietà del mio cervello più che della mia carne.
I cinque martiri sono stati sepolti. Non vedrò più i loro volti sfigurati e radiosi. Finirà così il sogno che al vederli è divampato tanto ardente in me? No, non credo. I santi escono di scena nella loro carne, per restarci però più che mai vivi col loro spirito. Eppure mi sorprendo ad aspettarli ogni giorno, come se dovessero davvero tornare.
Ogni giorno, verso il tramonto, sosto a lungo, nell’ora della ricreazione, sulla terrazza del monastero che dà sulla strada e la campagna. Non so perché, ma oggi ho scoperto chi doveva arrivare. Non i martiri, bensì i loro più umili fratelli, i due frati minori questuanti del “luogo” di Sant’Antonio de Olivares. Tornano pregando o cantando, benché gravati dalle bisacce, dal loro giro di aiuto nel lavoro a chi e dove capita, dopo la questua che fanno per i poveri e per le loro m...

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