Il Vangelo secondo TikTok
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Il Vangelo secondo TikTok

Usare i social e restare liberi

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Il Vangelo secondo TikTok

Usare i social e restare liberi

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Il sacerdote star di TikTok, con oltre 130.000 follower e 2 milioni di Mi Piace, firma un vademecum brillante e documentatissimo sulle potenzialità e le insidie dei social. Per imparare a usarli senza farsi usare.I social sono aziende con l'obiettivo di fare business raccogliendo le nostre informazioni. Ci sono certamente dei rischi, ma nono-stante tutto essi ci permettono di comunicare con il mondo e di essere creativi. E allora? Come sopravvivere agli algoritmi usandoli a nostro vantaggio?Da questo dilemma attualissimo prende le mosse la coinvolgente e più che mai urgente riflessione di un sacerdote 2.0, che ha superato su TikTok i 2 milioni di Mi Piace.Ci sono grandi possibilità nella nostra era ipertecnologica sempre più interconnessa e le piattaforme del web hanno aperto nuove frontiere per condividere contenuti positivi, educativi e, perché no, anche evangelici.Per don Mauro Leonardi c'è un metodo efficace per usare i social in modo intelligente e restare liberi di pensare con la propria testa, senza lasciarsi plagiare nei pensieri e nelle azioni. Ha scritto questo manuale – traboccante di dati, di case history e di esempi – per i tantissimi fan che lo seguono e per coloro che desiderano muoversi da protagonisti nell'universo social, sopravvivendo al diluvio di immagini e informazioni, di hater e fake news, di challenge e furti di identità, di consumismo indotto e narcisistica ostentazione di sé. Perché c'è il bello di TikTok, ma bisogna sapere come trovarlo.

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788862409049
Argomento
Business

Cosa ci fa un prete
su TikTok?

La domanda che mi viene rivolta più frequentemente dagli utenti di TikTok – in gergo creators – è: «Che ci fa un prete qui?» e io, con un pizzico d’ironia, rispondo: «Come si può essere prete e non essere qui?».
Sono “sbarcato” su TikTok il 4 luglio 2020. A fine giugno, un amico sacerdote che presagiva la mia imminente iscrizione alla piattaforma, mostrandomi un video mi chiese scherzando: «Non finirai anche tu per andare a fare lo scemo su TikTok, vero?».
Non gli risposi, ma subito mi ricordai delle parole di Gesù: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!» (Lc 7,32). Gesù, pur di condividere la nostra vita, oltre a insegnare la strada della Croce non aveva disdegnato di ridere e ballare con noi uomini: perché io, dopo aver pubblicato diversi libri “seri” ed essermi iscritto a tanti social “seri”, non avrei dovuto fare lo stesso?
La Chiesa svolge molte missioni e i suoi sacerdoti hanno compiti diversi: io probabilmente non saprei fare il professore di teologia, il direttore spirituale in un seminario o il cappellano di un ospedale, capisco quindi che la presenza su TikTok sia lontana dalla sensibilità di molti preti diversi da me; in linea di principio, però, non capisco come un cristiano – e a maggior ragione un sacerdote – che senta echeggiare dentro di sé le parole del Vangelo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15) possa decidere di non essere presente su una app frequentata da più di due miliardi di utenti, quasi tutti giovanissimi. Lo stesso papa Francesco afferma che «l’ambiente mediale oggi è talmente pervasivo da essere ormai indistinguibile dalla sfera del vivere quotidiano. La rete è una risorsa del nostro tempo. È una fonte di conoscenze e di relazioni un tempo impensabili»1.
Quando iniziai, per qualche giorno, nella biografia che campeggia sul profilo, mi definii “parroco di TikTok”, ma poi preferii tornare a quel “costruire ponti, abbattere muri” che racconta non solo il mio stare sulla piattaforma di origine cinese ma anche il mio modo di essere in generale, sui social come nella vita.
Ogni volta che me lo chiedono, cerco di spiegare che sono un prete “normale” e tra me e me rifletto su quanto sia significativo che ancora venga percepito come “non normale” un sacerdote che, oltre a fare ciò che fanno tutti, si impegna anche nella comunicazione secondo i canoni della vita di oggi.
Fino al secondo dopoguerra, il sacerdote “normale” era quello che stava in tutte le relazioni, sane o malate, del suo territorio, che in genere era quello della parrocchia, più o meno sovrapponibile al paese (o al quartiere se si era in città). Con la diffusione di massa dell’auto, del treno e in genere dei mezzi di trasporto che non fossero i piedi, la carrozza o la bicicletta, le persone iniziarono a spostarsi lontano dal luogo dove vivevano, ma il prete continuava a rimanere nelle immediate vicinanze della chiesa. Nessuno però si accorgeva del divario che si stava creando. La vita si svolgeva altrove e nessuno ci pensava. Cresceva il lamento dei buoni cattolici perché alla Messa del mattino c’erano solo gli anziani, e nessuno capiva che c’erano solo loro perché il resto delle persone era altrove.
La nascita dei social ci ha improvvisamente dato la possibilità di essere ovunque, ci ha precipitato nella sfida di essere nuovamente con la nostra gente, ma questa semplice realtà è ancora lontana dall’essere percepita come vera e positiva: spesso è solo letta come una minaccia, e come tale viene combattuta. Il mio essere “social” deriva – è vero – dallo scrivere libri e articoli, dal mio andare in Tv, dal fare podcast o parlare alla radio: è vero che tutto ciò, come tutta le vita “reale”, è immerso nel mondo dei social, ma io sono su TikTok (e sui social in generale) semplicemente perché lì c’è la gente.
Dico “social” perché non mi voglio riferire solo a TikTok ma anche ai più classici Facebook, WhatsApp, Instagram e così via, passando per Telegram e LinkedIn. Però non mi fermo lì. Credo che un po’ tutto ormai sia “social”. Qualche tempo fa ho autopubblicato con Amazon il mio ultimo romanzo (Il diario di Paci) e mi sono chiesto in che misura anche Amazon non sia ormai “social”: e la stessa domanda sorge in me quando decido il ristorante con TheFork, consulto Booking per scegliere un albergo o guardo una serie su Netflix.
Senza ignorare ingenuamente che esiste anche una dimensione brutta e pericolosa del web (della quale parlerò soprattutto nella parte finale del libro) è importante sapere che “esserci”, oggi, significa lasciarsi affascinare e sfidare dalla meravigliosa possibilità offerta dai social. Credo sia l’unico modo di vivere in questa nostra epoca. Il resto è sopravvivere chiusi nell’angolino più buio della propria casa-caverna, ripetendosi: “È tutto sbagliato, è tutto sbagliato”.

La bacchetta del mago: l’algoritmo

TikTok non si riconosce nella definizione di “social” ma preferisce essere chiamata “piattaforma cinese” o semplicemente app. Questa precisazione nasce dal fatto che l’elemento caratterizzante di TikTok non è l’interazione attraverso i commenti ma la condivisione dei video.
In ogni caso TikTok ha in comune con i social “puri” l’utilizzo di un algoritmo.
Google è nato nel 1998, Wikipedia nel 2001, Facebook nel 2004, YouTube nel 2005, Twitter nel 2006, WhatsApp nel 2009, Instagram nel 2010, Telegram nel 2013, TikTok, inizialmente con il nome di musical.ly, nel 2016. Venuti al mondo per i motivi più diversi ma con l’intenzione comune di soddisfare un bisogno di relazioni sempre più grande in un mondo le cui componenti si andavano separando e allontanando, i social sono delle autentiche miniere d’oro per i loro proprietari.
Come riescono a produrre profitti dal momento che i loro servizi vengono forniti gratuitamente? Semplice. Come si racconta nel docufilm The social dilemma2, se usi un prodotto che non paghi vuol dire che il prodotto sei tu. Nel 2014, Facebook ha comprato per 14 miliardi di dollari WhatsApp, la app che tutti noi usiamo gratuitamente infinite volte al giorno: come mai, a fronte di una spesa simile, non chiede nemmeno un centesimo al miliardo e mezzo di persone che usufruiscono di un tale servizio? Perché l’enorme quantità di dati che WhatsApp fornisce ai proprietari serve per profilare in maniera pressoché perfetta ciascuno dei suoi utenti: e questa definizione è profumatamente pagata dalle aziende che vogliono vendere i loro prodotti. Se aggiungiamo poi che WhatsApp, Facebook e Instagram hanno un unico proprietario, e che lo stesso vale per YouTube e Google, ci renderemo conto da soli dei termini della questione.
Questa enorme possibilità di connessione ha tantissimi aspetti positivi ma contiene anche dei rischi. A parte l’ovvio problema della privacy, al quale le legislazioni di tanti Paesi stanno cercando di dare una soluzione, il caso Cambridge Analytica3 ha fatto capire a tutti che i social non solo sono in grado di conoscere i bisogni delle persone ma, in qualche modo, sanno anche pilotare i loro desideri, creare le loro suggestioni, formare i loro sogni, dare corpo e immagine alle loro paure.
È giusto però iniziare dalle cose belle e solo in un secondo momento guardare ai rischi.

Il “mercato” delle informazioni

Chiunque voglia far conoscere un’idea o vendere qualcosa, ha imparato che il modo migliore per farlo è pubblicizzare il prodotto attraverso un social. Fino ad arrivare all’operazione contraria, ovvero costruire un’azienda, un movimento politico o addirittura “una Chiesa” in base ai dati forniti dai social. Se qualcuno che possiede un trilione di informazioni (cioè un miliardo di miliardi di dati) dice che nel mondo esiste una certa domanda che non trova risposta, state pur certi che si troverà un investitore disponibile a occupare quello spazio “di risposta”, ovvero quel mercato.
L’anima di tutte le multinazionali che ho citato sopra si chiama “algoritmo”. Si tratta di una sorta di misterioso e onnisciente sistema nervoso che può essere descritto attraverso equazioni matematiche molto complesse. Per provare a cercare di capire qualcosa a proposito dei social, è indispensabile avere almeno una vaga idea di cosa sia un algoritmo e quale genere di enorme contesto comunicativo, positivo o negativo che sia, è in grado di generare.
Internet nasce negli anni Sessanta del secolo scorso ma si può dire che la svolta decisiva verso ciò che noi oggi chiamiamo “il web” si ha nel 1990 quando, presso il CERN di Ginevra, Tim Berners-Lee sviluppa il codice “www”, la sigla con la quale, in alternativa ad “http”, iniziano le definizioni di tutti i siti. La posta elettronica, ovvero le e-mail, sono uno dei primissimi e tuttora principali servizi di Internet: nascono nel 1971 e per spiegare cos’è un algoritmo vorrei partire proprio da lì.
Mario Rossi e Giovanni Bianchi sono due signori che abitano uno a Milano e l’altro a Roma; fino all’arrivo delle e-mail, per scriversi una lettera dovevano fornirsi i rispettivi indirizzi “fisici”. Da quando esiste la posta elettronica, però, il mittente Mario Rossi non scrive più a Giovanni Bianchi che si trova a Roma, né Giovanni Bianchi per rispondere scriverà a Mario Rossi che si trova a Milano. Il cambiamento è solo di tipo elettronico. Niente carta, niente postini, niente treni e furgoni ma solo un codice binario.
Tuttavia, il cambiamento nella qualità della comunicazione di cui voglio parlare in questo libro non c’è ancora. L’e-mail sarà recapitata a Mario o Giovanni non a Milano o Roma ma ovunque Mario e Giovanni dispongano di device, di strumenti capaci di riceverla. Non importa dove siano il mittente o il ricevente. Fino a qui l’e-mail rappresenta solo un’enorme facilitazione, in un contesto comunicativo che è il medesimo della lettera cartacea. Se proprio si vuole sottilizzare, un’interferenza esiste: è quella del luogo sullo schermo dove si dispongano le e-mail e di come vengono segnalate ed evidenziate, rispetto a quando si usavano carta e inchios...

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  1. Cosa ci fa un prete su TikTok?