L'arte di riuscire
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L'arte di riuscire

Trovare la propria strada e andare fino in fondo

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L'arte di riuscire

Trovare la propria strada e andare fino in fondo

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Che cosa significa riuscire nella vita? E qual è il senso di una vita autenticamente riuscita se nell'economia dell'universo siamo meno di un'ombra che passa? È stato dimostrato che nella storia non è mai esistita una creatura umana identica a un'altra.Ogni persona è cosa nuova e per essere felice deve sentire di dare compimento alla propria natura in questo mondo per renderlo migliore. Per diventare quelli che siamo chiamati a essere, per trovare la nostra strada, dobbiamo accettare il rischio di una ricerca esistenziale che ci chiede di non scegliere solo tra alternative note e rassicuranti, ma di rischiare, mettendo in discussione il nostro modo di amare, di lavorare, di stare con gli altri, spalancando gli occhi sulla varietà di colori che la tavolozza della vita ci offre.Il segreto dell'arte di riuscire è un'alchimia fra azione e contemplazione. E non c'è vera riuscita che non sia costruita superando lacune, storture, errori, sconfitte, delusioni.

Domande frequenti

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788862407564
Dai sogni
alla realtà
Quando cerchi una strada
Conquistare autonomia
Vedo chiara la mia triste funzione: ubbidire ribellandomi e odiare conservando un po’ di pietà.
Herman Melville, Moby Dick
Nonostante il numero dei single, soprattutto nelle grandi città occidentali, sia ormai una condizione considerata normale, e non più un’eccezione guardata con compatimento e sospetto, come poteva essere trent’anni fa, agli albori del Terzo Millennio sono ancora troppe le persone sole, non sposate, divorziate, che ritengono di aver fallito o sciupato la loro vita.
Alcuni si struggono in un quotidiano pieno di sospiri e rimpianti, altri s’incattiviscono cercando di vendicarsi contro coloro che ritengono “i riusciti”, altri ancora si dedicano a riempire i loro giorni di piaceri in misura della loro fame o si rassegnano votando tutta la loro esistenza a una causa, a una professione, a una pratica spirituale, religiosa o sportiva, per farla diventare una sorta di ossessione mistica e morbosa. A tutti occorre dire chiaramente – sia pur con delicatezza – che la solitudine, senza accanto un’anima gemella o dei figli, non è un fallimento. Solo l’egoista fallisce la propria vita. È sterile solo chi vive senza amore. E l’amore è sempre portatore di energia e di fecondità.
La solitudine – temporanea o prolungata nel tempo – può fiorire e trasformarsi in un giardino accogliente, aperto a tutti. C’è un’altra fecondità oltre a quella fisica: è la fecondità spirituale.
Ne consegue che nessun destino può realizzarsi in pienezza se non è completamente accettato. E il processo di accettazione passa attraverso la consapevole pacificazione con la propria storia e la propria condizione: i genitori, la famiglia di origine, lo stato di salute, le opportunità socio-economiche e culturali di cui si è potuto o non potuto godere, gli eventi lieti e tristi disseminati lungo la parabola esistenziale.
La schizofrenia mentale nasce quasi sempre dal rifiuto di una parte di noi, degli altri, della nostra esperienza.
In molti casi non siamo stati noi a scegliere la solitudine. Le circostanze ce l’hanno imposta: la malattia, la disabilità, la morte improvvisa del coniuge, la difficoltà a instaurare rapporti amorosi duraturi.
La solitudine va accettata. Fintanto che la subiremo, non la trasformeremo in fecondità.
Non c’è, infatti, vicenda umana che sia definita in partenza: i talenti che abbiamo ricevuto, le opportunità lungo il cammino e gli accadimenti orientano le nostre esistenze; se sapremo guardare in profondità, non sarà difficile decifrare le lettere d’amore disseminate nella trama del nostro romanzo quotidiano.
Quando siamo curiosi e disponibili ad abbracciare tutto ciò che la sorte ci porta, ogni giorno diventa un buon giorno in cui ci innamoriamo della totalità della vita; siamo aperti alle sorprese positive e facciamo continuamente esperienze meravigliose di gentilezza, di amicizia, di complicità.
La solitudine accettata ci rende finalmente creature libere e autonome, capaci d’intuizione, finalmente aperte all’amore. La solitudine accolta ci rende infine capaci di dire «sì» a qualunque persona ci risvegli dai pensieri negativi per aiutarci a scorgere la bellezza che ci circonda.
«Si nasce soli e si muore soli», recita una massima buddista1. Imparare ad abitare la solitudine è il primo passo per il raggiungimento di un’adultità sana ed equilibrata. Perché diventare grandi significa diventare autonomi. Anzitutto, tagliando i legami filiali.
A 25 anni occorre infatti smettere di essere figli.
Il dovere di onorare il padre e la madre non ci impone l’obbligo di immolare la nostra esistenza al ritmo di quella dei nostri genitori già avanti in età, rendendoci schiavi di un dovere mal compreso verso chi ci ha generato.
Ci sono rami che bisogna spezzare, legami che bisogna sciogliere.
Restare a vivere con i propri genitori, dopo i 25 anni, non è amarli, è autocondannarsi per sempre a una condizione infantile e di terribile vigliaccheria.
Abbiamo paura di lanciarci nell’ignoto? Abbiamo timore di far soffrire mamma e papà? Non sopportiamo le loro incomprensioni e le lacrime nel vederci andare via dalla casa che ci ha visti crescere? Sono tutti alibi per le nostre debolezze, camuffate da amore filiale e pietà. Rimandare all’infinito la decisione di lasciare il nido genitoriale – per raggiungere una prima indipendenza economica e vivere in una casa propria – paralizza lo sviluppo psichico, privando i nostri genitori di una maturità, la nostra, a cui essi stessi hanno diritto.
Conquistare la propria indipendenza significa amare i propri genitori come li deve amare un adulto e non un bambino, vuol dire aiutare i propri cari a riconoscere i figli come persone pienamente autonome. Ciò non vuol dire trascurare gli anziani, che vanno aiutati materialmente, se ne hanno bisogno, ma si può stare loro vicini senza lasciarsi fagocitare; li si può certamente accudire, ma conservando la propria libertà interiore di uomo e donna adulti con il proprio lavoro, il proprio tempo libero, i propri affetti.
Non è per loro stessi che i padri e le madri generano i figli, ma per donarli agli altri, al mondo, al destino, a Dio. Fintanto che continueranno a disputarseli, tenendoli al guinzaglio e incutendo deleteri sensi di colpa, sarà segno che non li amano abbastanza.
E i genitori davvero riusciti, che hanno adempiuto la loro missione, sono quelli che “mollano la presa”, lasciando che i loro pargoli seguano finalmente il loro personalissimo percorso, assumendosi le proprie responsabilità. Può essere molto doloroso spingere fuori di casa un figlio a trent’anni e smettere di aiutarlo economicamente, ma è necessario affinché si costruisca finalmente una vita, una vita vera. In caso contrario, si avrà la tentazione costante di “organizzargli” il tempo e lo spazio, privandolo della sua libertà.
Di fronte ai propri genitori non si diventa pienamente adulti finché non si è conquistata l’indipendenza economica e affettiva. Nei limiti del possibile, occorre vivere in una casa propria, fosse anche solo una soffitta, magari condividendola con un collega o un compagno di studi. È importante avere almeno una stanza tutta per sé. E ci si sente davvero a casa propria quando si sa che quei pochi metri quadri sono stati conquistati con il proprio lavoro e la propria fatica. Se la casa l’abbiamo ricevuta in dono, sarà facile sentirsi sempre ospiti, perennemente in debito con chi ce l’ha regalata.
La crisi economica del 2008 ha lasciato strascichi pesanti, soprattutto sull’occupazione giovanile. Il lavoro è per i trentenni di oggi un impiego a singhiozzo, sempre più flessibile e precario, eppure anche in tempi come questi i genitori non possono astenersi dall’incoraggiare i figli ad accettare inquadramenti lavorativi non definitivi, scomodi e poco soddisfacenti, per aiutarli a maturare, a crescere, a cogliere il valore del denaro, a gestire i rapporti con i superiori e i datori di lavoro. E questo può accadere solo se si abbandona il tetto di mamma e papà, facendo i conti con l’affitto mensile, la spesa al supermercato, il costo dei propri legittimi svaghi.
Diventare autonomi – più che si può – è il primo passo verso la riuscita della propria vita: favorisce la scomparsa di attaccamenti, dipendenze, paure e compulsio...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. L’età dello smarrimento
  3. Dai sogni alla realtà
  4. Dal dubbio alla risolutezza
  5. Dalle idee ai progetti
  6. Dai legami alle relazioni
  7. Dalla sconfitta alla vittoria