De André. La buona novella
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De André. La buona novella

La vera storia di un disco capolavoro

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De André. La buona novella

La vera storia di un disco capolavoro

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Che cosa si nasconde dietro la genesi poetica di un disco, pietra miliare della cultura musicale del Novecento? Da cosa nasce quello sguardo poetico sugli "scartati del mondo" in cui risuonò il vangelo laico di De André? Il pianeta Faber, pur così frequentato, è ancora suscettibile di scoperte e merita di essere continuamente rivisitato.Ogni sua raccolta discografica, infatti, è a tal punto ricca di riferimenti letterari e musicali da rendere il suo repertorio un'«opera aperta», come la definì Umberto Eco.Valeva dunque la pena riprendere in mano, a quasi mezzo secolo di distanza dalla sua uscita, un capolavoro come La buona novella, assumendo come punto focale la preziosa, appassionata, e in gran parte inedita, testimonianza di don Carlo Maria Scaciga, presbitero della diocesi di Novara, che costituisce il cuore di questa nuova esplorazione. Don Carlo conobbe Fabrizio De André nel 1969, poco dopo la pubblicazione di Tutti morimmo a stento, e favorì – in che modo e con quale ruolo lo si scoprirà nel libro – la nascita de La buona novella così come la conosciamo.L'album fu fortemente influenzato dal clima sociale e culturale dell'Italia degli anni Settanta, all'indomani di due eventi cruciali del secolo scorso, il Sessantotto e il Concilio Vaticano II, tuttavia, ancora oggi, quell'opera indimenticabile non smette di affascinare le giovani generazioni ed è ancora capace di interrogare le coscienze.

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Informazioni

Prima, attorno e dentro La buona novella
«Penso che dopo il disco che uscirà in questi giorni, La buona novella, non dovrei più farne altri. Non ho più niente da dire…»1
Fabrizio De André
Tornare su De André, ancora una volta. Sfidando mode e abitudini, ma soprattutto il rischio di santificare post-mortem un artista autentico che – va detto da subito – non ha mai accampato pretese di interpretare il ruolo di un guru. D’altra parte, è innegabile che, nei due decenni che ci separano dalla sua prematura scomparsa (l’11 gennaio 1999), il cantautore di Marinella e Creuza de mä abbia acquisito, piaccia o no, lo status di classico. Secondo Italo Calvino, i classici sono quei libri che, quanto più si crede di conoscerli almeno per sentito dire, tanto più, se si leggono davvero, si trovano nuovi, inaspettati, inediti: cosa che, a nostro avviso, vale anche per l’universo solo apparentemente leggero delle canzonette2. E se – ancora Calvino – di un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima, anche per La buona novella (album uscito quasi mezzo secolo fa, nel 1970), diremmo, si dà lo stesso. Poco più di mezz’ora di musica e parole il cui ascolto, magicamente, è sempre inedito e mai scontato. Provare per credere.

Homo Faber

«Ci voleva un anarchico-rivoluzionario, per mettere in piedi il disco a tema più coraggioso di sempre, politico ed etico in senso altissimo, laico eppure spirituale. Con al centro l’anarchia vera del ribellarsi alla banalità gretta del potere umano, in un concept album… su Dio. Insomma, ci voleva Fabrizio De André»3. Difficile dirlo meglio… «Uno dei primi temi è la religione cristiana, intesa come tradimento del suo significato delle origini»: così, in riferimento agli esordi discografici deandreiani, lo scrittore Roberto Cotroneo4. Che ha ragione due volte: non solo perché, come appare evidente ripassandone la biografia, l’humus da cui nascono i primi suoi lavori è da contestualizzare nel rigetto del cattolicesimo d’ordinanza, preconciliare e di stampo sostanzialmente bigotto, respirato in gioventù a pieni polmoni da Faber; ma anche perché, appunto, fra i principali obiettivi polemici di quei brani arcinoti – da La guerra di Piero a La ballata del Miché, per citare solo due titoli – ci sono il militarismo, l’ipocrisia, la stupidità dell’istituzione religiosa, più che il messaggio evangelico in sé. Su cui, peraltro, egli ha parecchio da dire, e in effetti dirà, ma in maniera originale e per nulla depositaria.
Un primo dato, dunque: nel vocabolario di Fabrizio De André la parola Gesù occupa uno spazio piuttosto ampio. E non solo ampio, per la verità, ma anche centrale e strategico, tanto per il numero di suoi brani che ruotano attorno alla figura chiave del cristianesimo, quanto per il peso specifico che essi ricoprono nell’insieme del suo canzoniere5. Cosa che – varrà la pena di sottolinearlo da subito una volta di più, a scanso di spiacevoli equivoci oggi spesso in agguato – non equivale in alcun modo a inserirlo nell’alveo di una confessione religiosa ufficiale, e tanto meno a eleggerlo, ci mancherebbe!, ad ateo devoto ante litteram. Anche se, purtroppo, nella congerie di materiali editi a lui dedicati, qui e là spuntano autori che invece (infischiandosene delle sue dichiarazioni, e di una posizione coerentemente agnostica da lui gelosamente custodita) se ne appropriano malamente, strumentalizzando sia l’opera di Fabrizio sia la fede cristiana, artatamente tirata in ballo.
Dall’anarchico-cristiano De André la religione, soprattutto nella sua dimensione istituzionale, in effetti, è sempre stata guardata con sospetto, fino a fargli ragionare così: «Ogni volta che l’uomo ha voluto rendere comprensibile ciò che non lo è, come per esempio l’animo umano, allora sono sorte le scuole, le religioni, le filosofie. Tutti tentativi di chiarificazioni che partono da assiomi, cioè da certezze o regole precostituite ma non spiegate, da cui poi nascono quelle ossessioni comportamentali che noi siamo soliti chiamare fondamentalismi»6. E ad arrivare a dichiarare, convintamente, in riferimento a La buona novella: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo»7.
Non è un mistero che Faber coltivasse con la religione un rapporto complesso, o meglio, decisamente conflittuale; conseguenza indiretta del suo rifiuto della classe borghese e della borghesite, vera e propria malattia che egli stesso, come rivela un manoscritto conservato presso l’Università di Siena, definisce come “tendenza dell’uomo ad assumere un atteggiamento remissivo nei confronti di grandi organizzazioni come lo Stato e la Chiesa”8. La dimensione religiosa, ai suoi occhi, è quindi una delle forme assunte dal Potere per assicurarsi l’obbedienza e la sottomissione degli uomini, finendo per diventare il simbolo del Potere stesso. Come rileva Federico Premi, il cantautore genovese «ritiene che la religione legalizzata e formalizzata sia la tomba della vera spiritualità: “Dio scomparve dall’immaginario dell’uomo quando qualcuno pensò che avesse bisogno di un seguito per poterlo sfruttare”9. L’istituzionalizzazione del rapporto con il mistero, per cui il mistero non è più considerato tale ma diventa un semplice quesito di cui si pretende di possedere la chiave, comporta il sacrificio di Dio, la sua uccisione… cantata, in un celebre brano, anche da un altro raffinato cantautore, Francesco Guccini»10. Tanto che in De André sembra affiorare una sorta di religiosità laica, che, «come nel cristianesimo delle origini, fa – pasolinianamente – dell’uomo vituperato, vilipeso, violentato dal potere e dai potenti, l’oggetto di un amore infinito»11. Beninteso, «non ci sono chiese o preti per questo culto dell’uomo; o meglio, ogni spazio, sia esso un bordello, un campo rom, la cella di una prigione, possono diventare i luoghi dove celebrare l’umanità dei perdenti; ogni prostituta, ogni furfante, ogni suicida può diventarne l’officiante»12. E Puny, la sua prima moglie, ai giornalisti che le chiedevano chi avesse scelto di tenere i suoi funerali in chiesa, rispondeva un po’ meravigliata: «Fabrizio ateo? Ateo a modo suo. Poteva risultare un mangiapreti perché era sempre critico con il potere costituito. Ma io posso assicurare che pregava»13. Mentre il cardinal Gianfranco Ravasi, riferendo di quello che definisce l’ateismo mistico di De André, ha sostenuto qualche anno fa che egli sarebbe stato l’ospite ideale del Cortile dei Gentili14.

Si chiamava Gesù…

La prima canzone deandreiana in cui compare un riferimento esplicito a Gesù di Nazaret è racchiusa nel suo 33 giri d’esordio, Volume 1 (1967), ed è la più diretta al riguardo: s’intitola infatti Si chiamava Gesù, colui che «sulla croce sbiancò come un giglio». È la terza traccia del disco, mentre la prima è la delicata Preghiera in gennaio, composta ripensando all’amico collega suicidatosi a Sanremo pochi mesi prima, Luigi Tenco; nello stesso album c’è poi Spiritual, mentre nel 1968 Fabrizio adatterà una poesia del sodale Riccardo Mannerini per Senza orario senza bandiera, album d’esordio dei New Trolls. Il pezzo s’intitola Signore, io sono Irish, dove la bicicletta di cui ha bisogno il protagonista per recarsi al lavoro – e per la quale rivolge la preghiera a Dio – è una metafora della ricerca della fede. Tre anni più tardi uscirà uno dei pezzi più noti, Il pescatore... Di lì a poco toccherà a La buona novella (1970), dove, com’è stato opportunamente notato, “con un procedimento che ricorda il regista Pasolini di Il Vangelo secondo Matteo (1964), le figure della narrazione, perdendo l’aura della musica tradizionale, riacquistano la loro dimensione umana di precarietà ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. Prima, attorno e dentro La buona novella
  4. Tra il Concilio e il ’68
  5. Nella playlist di Radio Vaticana
  6. La Bibbia vista dal basso
  7. Le canzoni del disco
  8. I commenti
  9. Appendici
  10. Bibliografia