In una foglia di lattuga, il Buddha; in un pezzo di pane e in un calice di vino, il Cristo
Luciano Mazzocchi
Decine di migliaia di anni or sono, da quando l’evoluzione ha permesso all’ominide di assurgere a homo sapiens, il neo essere umano ha sempre più nobilitato il suo rapporto verso il cibo che alimentava la sua vita. Cominciò a scegliere tra i frutti spontanei della terra quelli più gravidi di energia nutritiva, dando inizio alla selezione dei semi, maturando all’arte dell’agricoltura.
L’homo sapiens, divenuto agricoltore, ingaggiò un rapporto sempre più solidale con la madre natura; così la natura con la sua energia primaria e l’essere umano con la sua progettualità, solidariamente, hanno provveduto all’umanità e agli altri viventi un’alimentazione sempre più varia, sostanziosa e delicata. La via dell’alimentazione assurse così a via del cammino umano.
Via dello stupore
Lontano nel tempo, avvenne che per la prima volta un neo essere umano, davanti a un frutto il cui profumo gli annunciava la squisitezza della sua polpa, trattenne l’istinto di addentare voracemente il frutto come aveva sempre fatto in precedenza, e per alcuni istanti in silenzio contemplò la finezza delle striature della mela che aveva fra le mani. Conobbe il sentimento della meraviglia. Si accordò con la madre natura che, in silenzio, gli aveva offerto un frutto così delicato, e alla delicatezza della natura aggiunse la sua. Gustò il frutto senza voracità, commosso.
Via della riconoscenza
L’uomo commosso davanti al cibo, «frutto della terra e del lavoro dell’uomo» – come recita una preghiera liturgica – avvertì il bisogno di ringraziare. Chi? Un po’ tutto e tutti, perché tutto fece la propria parte per la maturazione di un frutto, di un cereale. Un antico proverbio giapponese dice che in ogni chicco di riso c’è il peso di tutto l’universo. Infatti, cielo e terra, uomini e animali, tutti, direttamente o indirettamente, hanno collaborato alla maturazione di un chicco di riso. Così, prima di portare il cibo alla bocca, l’uomo sentì il bisogno di congiungere le mani, chinare il capo e significare la gratitudine attraverso il silenzio o la preghiera.
Tuttora, i giapponesi di ogni età e rango iniziano il pasto elevando all’altezza del proprio capo le due bacchette con cui porteranno il riso alla bocca. In quella posizione pronunciano una parola: Itadakimasu, che significa “accolgo”. Dalla forma verbale Itdakimasu, in italiano “accogliere”, hanno tratto il sostantivo Itadaki che usano per indicare la cima delle montagne. Infatti queste sono l’altare della madre terra più elevato per accogliere i doni del cielo. Chi ha visitato il padiglione giapponese dell’Expo 2015 ricorderà le istruzioni che le ragazze giapponesi davano ai visitatori al termine della visita: appunto, il gesto di alzare le bacchette e di dire Itadakimasu.
Ho condiviso la vita quotidiana con alcuni monaci dello Zen e assieme abbiamo formulato una preghiera comune, dove buddhisti e cristiani, prima di dividersi in differenti religioni, rammentano di essere viventi mantenuti in vita dal dono della natura e dal lavoro di tanti esseri umani e non solo. Ecco la preghiera:
Unisco le mani e il cuore
e ringrazio l’alimento che è giunto attraverso la via della fatica.
Questo cibo è vita e nutre la vita,
lo ricevo come offerta per offrire me stesso,
affinché non nutra i miei desideri, ma la vera salute di spirito e corpo.
Ecco, mangiamo il cibo che è ristoro alla fame
e alla sete del mondo.
Amen.
Via estetica del quotidiano: la cottura del pane
L’Unesco ha riconosciuto l’alimentazione mediterranea, di cui l’Italia è fisicamente e storicamente la culla, patrimonio dell’umanità. Il sottoscritto, figlio di contadini emiliani, negli anni della sua crescita ha beneficiato di questo patrimonio dell’umanità messo in atto in casa dalla madre e dalla nonna.
Ripropongo qui la descrizione della cottura del pane riportata in una mia pubblicazione. Il venerdì sera,
mia madre e mia nonna lavoravano fino a tardi per girare e rigirare quella massa di pasta che, sulle prime, si attaccava all’asse ma poi guadagnava in consistenza e alla fine assumeva la forma di una rotonda collina levigata, come quelle che facevano da cornice al nostro villaggio. Nell’impasto veniva immesso il lievito, che consisteva in una manciata di impasto del pane della settimana precedente, conservato in una scodella coperto da uno strato di acqua. L’acqua veniva cambiata ogni giorno. Nell’arco della settimana quel grumo di pasta fermentava, alzando delle bollicine sulla superficie ricoperta con l’acqua come fosse un vulcano in miniatura.
Quando l’operazione era finita, tutta la montagnola dell’impasto veniva coperta con uno spesso panno affinché lievitasse sotto lo stimolo di quella manciata di lievito che vi era stata immessa. Ovviamente, non ci si dimenticava di prendere una nuova manciata di pasta e metterla in una scodella affinché fermentasse in lievito per il prossimo impasto. Sulla montagnola veniva tracciata una croce con la punta di un coltello.
La mattina seguente mia madre e mia nonna si alzavano molto presto, ancora prima dell’ora in cui si alzava mio padre per mungere le mucche. La montagnola veniva scoperta ed eccola ulteriormente cresciuta in volume, da sembrare una vera montagna. La pasta veniva tagliata in tante porzioni, piccole e grosse, che nelle mani di mia madre e di mia nonna si trasformavano, miracolosamente, in pagnotte di pane. A volte noi ragazzi ordinavamo alle due artiste panettiere delle forme di pane fantasiose: un uccello, un coniglietto, ecc., e mia madre e mia nonna, talvolta, ci accontentavano. Forse lo facevano perché ci affezionassimo al pane. Mio padre quella mattina doveva fare dello straordinario. Infatti, prima di andare nella stalla, accendeva il forno a legna affinché fosse pronto ad accogliere le pagnotte dalle svariate forme.
A mezzogiorno tutta la casa profumava di pane, cui nel pomeriggio si aggiungeva il profumo di mele o pere cotte, e di patate, cipolle o altri vegetali cotti al forno. Infatti, dopo la sfornata del pane, il forno ancora caldo veniva usato per cuocere frutta e verdura. In ottobre vi si mettevano anche i grappoli di un certo tipo di uva che, diventata passa, veniva conservata per le kisele di Natale. La kisela, nel dialetto piacentino, è il pane con uva appassita che nelle feste di Natale sostituisce il pane comune.
Via estetica del quotidiano: la via del tè
Se la cottura del pane è stata una scuola dell’estetica quotidiana nel bacino del Mediterraneo, in Giappone l’estetica quotidiana ha raggiunto l’apice della finezza nel Chadō, la via del tè. Il tè è forse l’unico vegetale che può vantare di aver conservato la stessa radice in tutte le lingue del mondo: cha, chai, sha, shay, thè, tee, ecc.
Probabilmente la grande Cina vanta di essere la capitale del tè, ma solo per la quantità, perché il tè è patrimonio di tutti i paesi della terra. Ebbene, proprio su questa bevanda, la più comune e popolare in Giappone, il monaci dello Zen hanno riversato una vera devozione, perché proprio ciò che è umile è particolarmente gravido di quella bellezza che in lingua giapponese è chiamata Wabi. Wabi è la patina che fuoriesce dal legno e dalle cose attraverso l’uso quotidiano. Wabi erano i manici dell’aratro che mio padre tratteneva con forza nel terreno, allo scopo di realizzare un’aratura profonda e, quindi, ottenere un buon raccolto. Le sue mani incallite e sempre sudate avevano dato una forma tonda ai manici, che emettevano una pacata lucentezza, frutto dell’incontro della essenza del legno e del sudore delle mani callose. Chadō, la via del tè, è una vera scuola alla bellezza della vita dove la naturalezza e il sudore si mescolano.
In Giappone ho frequentato per otto anni la scuola della via del tè, nella versione detta Urasenke, la via del tè preparato nel retro della casa, sorella dell’altra versione detta Omotesenke, la via del tè preparato davanti alla casa. Le due espressioni provengono dal fatto che, mentre il maestro del tè Rikyū padre, nel XVI secolo, compiva il rito del tè dietro la casa, suo figlio, Rikyū junior, lo compiva davanti alla casa. La differenza tra i due stili è minima, ma significativa: Urasenke è più umile, Omotesenke più vistoso. Allo scopo, è opportuno evocare un episodio che mette in rilievo la differenza umana tra il padre anziano e il figlio giovane.
Al rito del tè era atteso nientemeno che lo shōgun Hideyoshi, per cui i...