Il Nebo, monte della pace
Padre Michele imparò la pace al Monte Nebo. Se ne lasciò plasmare. E da lì la insegna a quanti, gente di buona volontà e di cuore aperto, si lasciano conquistare da una prospettiva lungimirante, aperta, che guarda lontano, oltre le contingenze e le divisioni sempre presenti, nella storia personale di ciascuno come in quella dei popoli. «Da una montagna dalla quale Mosè gettò uno sguardo di speranza sul futuro, anch’io provo a guardare avanti vedendo tanti giovani pronti a vivere in pace in un mondo che non ne può più di guerre e di odio» era il pensiero di Piccirillo.
Il Nebo è un luogo senza tempo, trasversale. “Nasce” su una narrazione biblica colma di nostalgia, perché è l’ultimo atto del grande Mosè, colma di speranza, perché è l’ultima profezia della guida del popolo di Israele, colma di spiritualità, perché vi avviene l’ultimo dialogo a tu per tu con Dio. Ecco le poche righe che il Deuteronomio (34,1-8) dedica all’episodio: «Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. Il Signore gli disse: “Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: ‘Io la darò alla tua discendenza’. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”.
Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. Mosè aveva centoventi anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè».
È una fine scandalosa per Mosè, una “scomparsa” addirittura, in terra straniera e senza che neppure sia possibile piangerlo su una sepoltura conosciuta, due circostanze abominevoli per un ebreo. Carlo Maria Martini, con l’incedere tipico dei gesuiti, come abbiamo imparato a scoprire da papa Francesco, individuava di questo brano tre parole fondamentali: «È senz’altro morte in solitudine; infatti Mosè non muore in mezzo al popolo, bensì lontano da quel popolo che aveva tanto amato, per il quale si era addirittura consumato davanti a Dio. (…) Poi, muore in obbedienza, come il testo dice con tanta semplicità (…): il Signore ha ordinato e lui è morto! Infine egli muore nella sofferenza» di non poter entrare nella terra promessa, espiando così a nome di tutto Israele la colpa della mancata fiducia in Dio, come racconta ancora la Bibbia nel libro dei Numeri (20,3-13). Evidenti i punti di contatto con la vicenda di Gesù, cui si applicano le stesse parole, in un parallelismo fecondo esplorato fin dai tempi antichi dai padri della Chiesa, che scorsero nel profeta – san Mosè per i cristiani – un prefiguratore del Cristo. Sì, c’è tutto questo al Nebo, spazio sacro che è insieme Golgota della solitudine, luogo dell’incontro con Dio, Sua profezia potente di una pace e prosperità possibile in una terra che è promessa a ogni pellegrino e a tutta l’umanità.
«Le prime comunità cristiane della regione – spiega padre Michele – vollero perpetuare questo ricordo con la costruzione di un santuario. Una pellegrina romana della fine del IV secolo, Egeria, scrive nelle sue memorie che visitò in una piccola chiesa costruita sul monte e tenuta da monaci egiziani la memoria o il cenotafio di Mosè. Nel secolo successivo un altro pellegrino, Pietro l’Ibero, che venne due volte al santuario, ricorda di aver visto la memoria in una grande chiesa o basilica». I francescani archeologi hanno individuato sia la primigenia chiesetta a tre absidi, sia il suo ingrandimento, ovvero la successiva basilica a tre navate del VI secolo: è questo il principale monumento che possono apprezzare quanti salgono oggi al Nebo, e più precisamente sulla cima Siyagha, toponimo parlante arabo proveniente dall’aramaico che significa “monastero”, quello bizantino i cui resti sono visibili ai lati della basilica.
Stiamo parlando di “monte” e di “cima”, ma chi si lascia alle spalle la città di Madaba e viaggia lungo la comoda strada asfaltata – è questo in genere il percorso dei pellegrinaggi contemporanei – fino al santuario può trovarsi spiazzato, fuori contesto. Al primo impatto, non ha davvero l’impressione della salita, né la percezione della montagna. Succede perché il Nebo è uno sperone roccioso, ultima propaggine dell’altopiano transgiordanico, di cui condivide grossomodo l’altitudine: cima Siyagha è a 710 metri sul livello del mare, Madaba, per dire, a 763, il non distante aeroporto internazionale di Amman a 730. Questa circostanza, se può disorientare, in realtà sembra fatta apposta per preparare allo straordinario ed emozionante panorama che si squaderna, superata la basilica, sulle steppe di Moab, e di là da quelle sulla Valle del Giordano, e di là da quelle sul deserto di Giuda, e di là da quelle sulle montagne di Giudea e Samaria. I 710 metri della cima sembrano molti di più, perché il sottostante fiume Giordano scorre in una profonda depressione che raggiunge anche i 400 metri sotto il livello del mare.
Chiunque di qui può vivere l’esperienza della visione di Mosè, quella ammirata anche da Egeria, la pellegrina spagnola del IV secolo che, Bibbia alla mano, aveva percorso per tre anni le strade della Terra Santa muovendo da Gerusalemme. Così racconta, non nascondendo l’emozione, nel suo diario: «Coloro che conoscevano i luoghi, sacerdoti e santi monaci, ci dissero: “Se volete vedere i posti di cui si parla nei libri di Mosè, venite fuori sulla porta della chiesa e da questa cima, dalla parte in cui si possono scorgere, guardate con attenzione e noi vi indicheremo i singoli luoghi, quali sono quelli che si possono vedere da qui”. Noi allora, tutti contenti, subito uscimmo fuori. Dalla porta della chiesa vedemmo il luogo in cui il Giordano entra nel Mar Morto; questo punto appariva sotto di noi, rispetto al posto in cui ci trovavamo».
Un altro pellegrino famoso, uscito dalla porta della chiesa, si è affacciato al balcone naturale del Nebo e si è fatto aiutare da quanti «conoscevano i luoghi, sacerdoti e santi monaci» a interpretare il paesaggio. È san Giovanni Paolo II, il 20 marzo del 2000. Ecco il racconto di padre Piccirillo: «Era lì, come Mosè a contemplare la Terra Promessa, la Terra di Gesù, il paesaggio dell’anima cristiana e di ogni uomo in cerca di patria. (…) Solo, il Papa è salito sulla piattaforma e ha contemplato il panorama. Ad un certo punto il Papa ha fatto un cenno e sono salito a mostrargli il panorama: il Mar Morto, la foce del fiume Giordano, Gerusalemme (“ma che ora non si vede… questa mattina era uno splendore, Santità!”), Gerico, il tracciato della strada percorsa dai pellegrini fino a Hesban…». L’episodio dura pochi minuti, ma ne bastano anche meno per scattare la più famosa fotografia di padre Michele, sulla pedana, di tre quarti, il dito puntato verso l’orizzonte, a indicare forse Gerusalemme all’illustre ospite che segue il gesto del frate, spingendo lo sguardo più in là. Giovanni Paolo II lascia al Nebo ben più che qualche foto: lascia la sua preghiera «per tutti i popoli che abitano le terre della promessa: Ebrei, Musulmani, Cristiani, memori delle parole di Mosè, pronunciate su questo monte: “Certo egli il Signore, ama i popoli, tutti i suoi santi sono nelle sue mani” (Deuteronomio 33,3)». Un auspicio che trova poi il suo segno nell’ulivo piantato per l’occasione, come ricorda padre Michele: «Il Papa ha versato la terra da una ciotola e ha versato l’acqua sull’alberello simbolo della nuova era di pace per l’umanità dopo il diluvio».
Oggi anche un altro monumento – un monolite alto 6 metri scolpito da Vincenzo Bianchi – ricorda la storica visita, come sottolinea padre Michele: «Il Grande Giubileo del 2000 per noi culminato con la visita di preghiera di papa Giovanni Paolo II al Memoriale di Mosè ci ha permesso di realizzare alcune opere al servizio del santuario e dei pellegrini, come il viale lastricato di ingresso, una ideale Via della Pace che ha nel messaggio ripetuto in tre lingue sul monolito in pietra dell’Amore tra i Popoli il suo fulcro, e il Mount Nebo Interpretation Center inaugurato il 15 Marzo del 2001 dal presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi», ovvero un piccolo museo didattico grazie al quale il visitatore può orientarsi tra pietre, mosaici, ambienti ed età diverse. È qui che anche il più disattento dei turisti può afferrare un aspetto fondamentale del Nebo: la discontinuità. La premessa è che probabilmente in Italia siamo abituati troppo bene: diamo per scontato che un sito importante per la cristianità sia stato presidiato da sempre, fin dal suo sorgere. Così non ci stupisce per esempio che sul luogo del martirio e della sepoltura di Pietro a Roma sia stato costruito prima un memoriale, poi una chiesa paleocristiana, poi una basilica sempre più grande, senza cesure. È così per tutti i luoghi più significativi dei grandi santi. La tradizione ci ha tramandato dove è salito al cielo san Paolo, san Francesco, sant’Antonio, e via dicendo, perché c’è sempre stato qualcuno che su quei luoghi ha continuato a vivere, trasmettendo la memoria di generazione in generazione, in forma orale, scritta e con le architetture. Sul Nebo no. Dopo la fase delle chiese bizantine, che pure sono rimaste attive ancora durante la prima occupazione musulmana, non c’è nulla. Il sito è andato in decadenza, dimenticato: per circa mille anni è rimasto una pietraia, buona per farci pascolare le capre e poco più. Fino alla seconda metà del XIX secolo, e precisamente al 1864, quando per la prima volta in età moderna un occidentale, il Duca de Luynes, descrive le rovine. Per identificarle con il santuario di Mosè bisognerà attendere il 1886, quando viene rinvenuto e pubblicato il diario di Egeria, e il 1895, con l’analogo ritrovamento della Vita di Pietro l’Ibero. Ma sarà necessario arrivare fino al 1933 per la prima spedizione archeologica, intrapresa dai frati francescani di Terra Santa. Vale a dire: il santuario del Nebo, con il suo incredibile bagaglio di antiche evocazioni e di moderne suggestioni, è una novità recentissima, che non ha nemmeno un secolo di vita.
Alla luce di questa così breve storia del sito, si accresce ancor più il ruolo che nello scavo e valorizzazione Piccirillo ha avuto. Così padre Michele scriveva a proposito del suo incarico al Nebo: «Dall’estate del 1973, in modo praticamente ininterrotto, è toccato a me e a chi con me ha condiviso gli entusiasmi, le preoccupazioni e la fatica, continuare il lavoro dei pionieri che componevano la prima missione francescana animata dalla vitalità operosa di fra Girolamo Mihaic, archeologi, architetti, fotografi, muratori, fabbri e semplici operai, di cui, a cominciare dal 1935, fece parte anche padre Bellarmino Bagatti che per me ha significato nei lunghi anni di convivenza nello Studium Biblicum Franciscanum la memoria storica di quegli anni.
Rovistando tra le sue carte, dopo la morte di padre Bellarmino avvenuta serenamente il 7 ottobre 1990, ho trovato un quadernetto, di quelli usati dai ragazzini nelle scuole della Custodia, nel quale, a cominciare dal 15 luglio 1935, giorno del suo arrivo sulla Montagna di Mosè, l’archeologo scrisse le sue note, insieme impressioni e diario di scavo. Sulla copertina a matita padre Bellarmino aveva scritto: “Monte Nebo ridiventato cristiano Salve!”».
Abbiamo già visto nel primo capitolo quali successi – in particolare lo splendido mosaico nel diaconicon-battistero – fin da subito il Nebo abbia riservato a padre Michele. Ma quando vi arrivò, la situazione era disastrosa: «La basilica di Mosè, scopo primario della presenza francescana sulla montagna, è stata la mia prima preoccupazione fin dall’arrivo. Quando vi entrai nella nuova veste di responsabile la trovai nello stato precario di abbandono di un lavoro interrotto imposto dagli eventi bellici. La protezione dei mosaici era stata assicurata da una ringhiera in ferro a punte acuminate e da una fitta rete di ferro spinato, una barriera che i più spericolati riuscivano anche a ...