Il mio viaggio in Palestina
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Il mio viaggio in Palestina

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Un ritratto della Terra Santa fuori dagli schemi, inedito e originale che farà sorridere, meravigliare, riflettere – e talora, forse, indignare – il lettore moderno.Nel 1867 Mark Twain salpa da New York per un viaggio che lo porterà in Europa e Medio Oriente. Dai resoconti che invia in patria, nasce The Innocents Abroad, uno dei libri di viaggio più diffusi del suo tempo. A oltre 150 anni di distanza, le pagine dedicate alla Palestina vengono riproposte in una nuova e appassionante traduzione in grado di restituire a pieno lo stile dello scrittore americano: ironico, scanzonato e spesso "politicamente scorretto".Ribaltando le entusiastiche descrizioni dei suoi predecessori, Twain stravolge il ritratto "romantico" della tradizione letteraria per abbandonarsi a descrizioni anticonvenzionali, tratte dall'esperienza diretta. Ne emerge un ritratto della Terra Santa fuori dagli schemi, inedito e originale, che farà sorridere, meravigliare e riflettere il lettore moderno.Traduzione dall'inglese: Francesca Cosi, Alessandra Repossi.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788862409247
Categoria
Viaggi
Premessa
Mark Twain compie il suo viaggio in Terra Santa nel 1867, come parte di un più lungo itinerario attraverso l’Europa e il Medio Oriente. A oltre 150 anni di distanza, è con grande piacere che ne riproponiamo al pubblico italiano il lungo resoconto, in una nuova e appassionante traduzione (corredata da utili note a cura delle traduttrici) in grado di restituire a pieno, in tutta la sua particolarità, lo stile dello scrittore americano: ironico, scanzonato e spesso “politicamente scorretto”.
Una premessa si rende quindi necessaria e forse doverosa. Twain, figlio del suo secolo, ritrae senza veli ciò che vede, senza preoccuparsi di smorzare i toni o di cedere, nel linguaggio, ai pregiudizi consolidati della sua epoca (a onor del vero, in vita adottò posizioni “anticonformiste” per il suo tempo, contro le discriminazioni e a favore dei diritti umani). D’altronde, non risparmia nessuno: né gli europei e le loro usanze in giro per il Vecchio Continente né, nel nostro caso, gli arabi e la loro arretratezza in Medio Oriente. Invitiamo quindi il lettore a sorriderne (a tratti la reazione sarà spontanea), anche di fronte a una lettura della religione cattolica e delle sue “superstizioni” per certi versi irriverente (o molto moderna, a seconda dei punti di vista), tipica di un protestante fortemente scettico. “Contestualizzare storicamente”, perciò, si rivela una pratica che il lettore non dovrà mai smettere di esercitare dall’inizio alla fine: questo non gli impedirà comunque di godere di un ritratto della Terra Santa fuori dagli schemi, senza dubbio inedito e assolutamente originale.
L’Editore
Le avventure (scanzonate)
di Mark Twain in Terra Santa
Se oggi Mark Twain (1835-1910) è ricordato soprattutto grazie ai suoi libri per ragazzi, in particolare Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884), ai suoi tempi fu invece noto come reporter dall’estero e in particolare per la pubblicazione di una serie di articoli scritti durante il viaggio compiuto in Europa e in Terra Santa nel 1867. I suoi resoconti furono riuniti in volume nel 1869 e fu così che The Innocents Abroad, da cui abbiamo tratto i testi contenuti in questa traduzione (capitoli XLIV-LVI nell’originale), divenne il best seller di Twain, oltre che uno dei libri di viaggio più diffusi del suo tempo, arrivando a vendere ben 70.000 copie durante il primo anno di pubblicazione.
Ma ecco come si svolse l’impresa. Subito dopo la fine della Guerra civile americana, Twain si imbarcò insieme ad altri sessantasei passeggeri sulla Quaker City l’8 giugno del 1867 per quello che sarebbe stato uno dei primi viaggi organizzati della storia, che in cinque mesi li avrebbe condotti in Europa e in Terra Santa. Il biglietto costava 1.250 dollari e lo scrittore convinse il giornale Alta California a versarli per lui in cambio dell’invio di cinquantuno articoli sulle sue esperienze di viaggio, che vennero pubblicati in un’apposita rubrica del quotidiano dal 2 agosto 1867 all’8 gennaio 1868.
Dopo avere visitato le Azzorre, Gibilterra, la Francia, l’Italia e la Grecia, i viaggiatori entrarono nell’Impero ottomano toccando Costantinopoli, poi raggiunsero la Russia (Odessa), dopodiché passarono da Smirne e Beirut per arrivare infine a Damasco e alle porte della Terra Santa, che raggiunsero il 18 settembre. A quel punto del viaggio, il gruppo si era appena diviso: la maggior parte dei partecipanti aveva scelto un percorso più agevole, mentre Twain aveva optato per l’iti­nerario più impegnativo, in compagnia di altri sette uomini, un dragomanno (antico nome con cui si designavano gli interpreti) di nome Abraham, che gli americani avevano ribattezzato “Ferguson”, numerosi servitori e i muli che dovevano trasportare tutta la comitiva e le sue vettovaglie. All’interno di quella ristretta cerchia erano sorte però ulteriori divisioni: se alcuni dei suoi membri avevano stretto amicizia con Twain, gli altri erano invece quelli che nel testo l’autore definisce “pellegrini”, ossia i discendenti dei Padri pellegrini che avevano fondato la nazione americana, figli della migliore borghesia newyorchese. Seri, devoti e rigorosi, questi signori non potevano certo vedere di buon occhio uno scrittore originario del Missouri, irriverente e sopra le righe, dalla battuta facile e dalla penna pungente.
Dall’incontro-scontro di Twain con i suoi compagni di viaggio, ma soprattutto con le usanze dei luoghi visitati, le aspettative coltivate in anni di frequentazione della Chiesa protestante e puntualmente deluse, i resoconti di viaggio per nulla fedeli lasciati da altri autori, le differenze religiose con musulmani e cattolici, nascono pagine dalla forte carica umoristica che meritano di essere riscoperte. E se in alcuni punti lo scrittore potrà sembrare blasfemo o razzista, la cosa non può che far riflettere su quanto, in soli 150 anni, sia mutata la sensibilità nei confronti delle differenze.
Francesca Cosi
Alessandra Repossi
Damasco, giardino dell’Eden
Damasco è bella, vista dalla montagna. È bella persino agli occhi degli stranieri abituati alla vegetazione lussureggiante, e non fatico a comprendere quanto sia stupefacente per chi è abituato a vedere soltanto l’aridità e la desolazione della Siria, un posto che sembra dimenticato da Dio. Mi viene quasi da pensare che, trovandosi davanti questo spettacolo per la prima volta, un siriano vada in un’estasi folle.
Dal punto sopraelevato in cui si trova, l’osservatore vede, davanti e sotto di sé, un muro di montagne tetre, prive di vegetazione, che risplendono crudeli sotto il sole; la parete racchiude un deserto piatto di sabbia gialla, morbida come il velluto, solcata in lontananza da linee sottili che fungono da strade e punteggiata da acari striscianti che sappiamo essere carovane di cammelli e viaggiatori. Nel bel mezzo del deserto si stende una chiazza fluttuante di fogliame verde, che al centro custodisce la grande città bianca, come un’isola di perle e opali che luccica in mezzo a un mare di smeraldi. Questa è la scena che si spalanca ai vostri piedi, attenuata dalla lontananza, glorificata dal sole, con forti contrasti che ne accentuano l’effetto, circondata e pervasa da un’atmosfera sonnolenta di quiete che la rende spirituale e più simile al bel solitario di uno di quei mondi misteriosi visitati in sogno che al ricco possidente del nostro globo volgare e noioso. E quando pensate alle leghe di paesaggio degradato, dannato, sabbioso, roccioso, arroventato, brutto, rozzo e ignobile che avete dovuto attraversare a cavallo per arrivare fino a qui, siete convinti che questo sia lo scenario più bello su cui occhio umano si sia mai posato in tutto il vasto universo! Se dovessi tornare a Damasco, mi accamperei sulla collina di Maometto per circa una settimana, poi me ne andrei. Non c’è bisogno di varcare le mura. Quando rifiutò di calarsi nel paradiso di Damasco, il Profeta si dimostrò saggio senza saperlo1. Secondo un’antica e onorata tradizione, l’immenso parco in cui sorge Damasco ospitava il giardino dell’Eden, e gli scrittori moderni hanno prodotto capitoli su capitoli per dimostrare che era davvero così, e che il Parpar e l’Abana2 erano i “due fiumi” che bagnavano il paradiso di Adamo. Sarà anche vero, ma adesso è tutt’altro che un paradiso, e fuori dalle mura si sta quasi meglio di quanto si possa stare al loro interno. Damasco è così sbilenca, angusta e sporca che non ci si capacita di trovarsi nella splendida città intravista dalla cima della collina. I giardini sono nascosti da alte mura di argilla e il paradiso di prima si è trasformato in una vera e propria fogna, sgradevole e inquinata. A Damasco, però, l’acqua abbonda, pura e limpida, e tanto basta a convincere gli arabi che la città sia bella e benedetta. C’è ben poca acqua, nell’arida Siria. Noi facciamo correre la ferrovia di fianco alle grandi città americane; in Siria costruiscono strade piene di curve, in modo che lambiscano le misere pozze che qui chiamano “fontane” e che, mentre si viaggia, si incontrano al massimo ogni quattro ore. Ma a Damasco scorrono i “fiumi” Parpar e Abana citati nelle Scritture (semplici ruscelli) e così ogni casa e giardino ha la sua fontana zampillante e i suoi rivoli d’acqua. Grazie alla foresta verde e all’abbondanza di acqua, Damasco dev’essere una meraviglia per il beduino che arriva dal deserto. La città è semplicemente un’oasi, né più né meno. Per quattromila anni le sue acque hanno continuato a sgorgare senza prosciugarsi e la sua fertilità non è mai venuta meno. Adesso si capisce come mai sia sopravvissuta tanto a lungo: non poteva morire. Finché le acque l’attraverseranno nel bel mezzo di quel deserto di sventura, Damasco sarà una benedizione per gli occhi del viandante stanco e assetato.
«Per quanto antica come la storia, sei fresca come un alito di primavera, rigogliosa come i tuoi stessi boccioli di rosa e fragrante come i tuoi fiori d’arancio, o Damasco, perla dell’Oriente!»3.
Damasco risale a prima di Abramo ed è la città più antica del mondo. Venne fondata da Uz, il nipote di Noè. «Le origini di Damasco sono velate dalle nebbie di un’antichità ancestrale». Se tralasciate i fatti citati nei primi undici capitoli dell’Antico Testamento, nel mondo non è accaduto niente che valesse la pena di essere ricordato senza che Damasco ci fosse già, pronta a riceverne notizia. Risalite quanto volete nel lontano passato e troverete sempre Damasco. Negli scritti di ogni secolo, per più di quattromila anni, è stato citato il suo nome e sono state cantate le sue lodi. Per Damasco gli anni non sono che istanti, e i decenni fluttuanti inezie temporali. La città non misura il tempo in giorni, mesi e anni, ma attraverso gli imperi che ha visto sorgere, prosperare e cadere in rovina. È un esempio di immortalità. Ha assistito alla fondazione di Baalbek, di Tebe e di Efeso; ha visto questi villaggi diventare città potenti e sorprendere il mondo con la loro magnificenza, ed è sopravvissuta tanto a lungo da vederli desolati, deserti e abbandonati a pipistrelli e gufi. Ha visto osannare l’impero israelitico e ha assistito al suo annientamento. Ha visto la Grecia sorgere, prosperare per duemila anni e poi morire. Era già vecchia quando ha assistito alla costruzione di Roma; l’ha vista oscurare il mondo con la propria potenza; l’ha vista scomparire. Per l’antica, austera Damasco, le poche centinaia di anni di supremazia e splendore di Genova e Venezia sono un insignificante sfavillio che a malapena merita di essere ricordato. La città è stata testimone di tutto ciò che è accaduto sulla terra, ed è ancora qui. Ha posato lo sguardo sulle ossa rinsecchite di mille imperi e prima di morire vedrà le tombe di altri mille. Anche se un’altra reclama il suo nome, solo l’antica Damasco è di diritto la Città Eterna.
Abbiamo raggiunto le sue porte proprio al tramonto. Dicono che di notte si possa entrare in qualunque città fortificata della Siria in cambio del bakshish4, ma non a Damasco. Con i suoi quattromila anni di rispettabilità, Damasco ha abitudini da parruccona. Qui non ci sono lampioni e la legge obbliga chiunque esca dalle mura di no...

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