IL GIARDINO INCANTATO
Nostòs, viaggio dell’anima tra le montagne che avvolgono da nord a sud la mia città e la mia terra: simili a una muraglia intorno a un giardino, così le vide Jean-Jacques Rousseau nell’Émile, libro che inizia con un atto di fede nella natura e nel «buon selvaggio». Sull’idea si continua a discutere: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo». «Giardino murato» apparvero anche allo sguardo di Horace-Bénédict de Saussure, che nei Voyages dans les Alpes scorse dalla collina di Superga la magnificenza delle Alpi, del Monviso e del Rosa, la catena di montagne che si innalza al fondo della pianura.
Montagne incantate, disegnano un’ansa che corre via come acqua di fiume, «come il curvone di una mandria in fuga» direbbe l’amico Paolo Rumiz nella Leggenda dei monti naviganti. Il fiume porta con sé la mia e le nostre vite; roccia e Alpi sono scritte in noi, che stiamo ai loro piedi. Abitudine, presenza costante, quasi malattia, delizia del vivere, ogni giorno, al fondo di una via, di una tangenziale, di un’autostrada; eccole nei nostri ritorni, in aereo, in auto, in treno: vediamo Superga, la Sacra di San Michele, la piramide del Monviso e sentiamo di essere a casa.
Sono nei nostri ricordi, negli oggetti che ci circondano, in una vecchia boîte à mémoires lasciata fra gli zaini, sui ripiani per la montagna, di quando si esce a camminare. Nostòs intermittente, che torna come una febbre quartana.
Ci torniamo ogni volta che la nostra casa ci pesa sulle spalle – così scrisse Flaubert – imprigionandoci. Come in questi tempi infausti: troppe volte siamo entrati e usciti dalla stessa camera, troppe volte, scrive l’autore di Madame Bovary, alziamo gli occhi allo stesso punto, sul soffitto, che ormai dovrebbe essersi consumato. Misuriamo i passi della nostra tana, spiando dalla finestra. Sogniamo di tornare nelle pieghe di quelle montagne.
Lo scrigno delle memorie somiglia a quello che Andreas Kartak, clochard beone, anima bella e assassina per amore, conserva gelosamente nel suo vagabondare sotto i ponti della Senna nella Leggenda del santo bevitore, capolavoro di Joseph Roth, il piccolo, caro ebreo galiziano. Naufragio felice, onda su onda, di un profugo austro-ungarico che conclude l’esistenza fra ondate di ricordi, a cominciare dall’orologio da taschino donatogli dal padre, in grado di resuscitare l’immagine dei genitori.
Anche i miei sono lì, fra onde di montagne e colline. Gli oggetti e i simboli del mio scrigno – una piuma di ghiandaia, una croce valdese, una scheggia di giadeite, la pietra verde del Monviso – suscitano memorie. Non si consumeranno, non saranno rottamati e dispersi tra mille cose superflue. «Conceda Dio a tutti noi – è l’ultima frase di Roth, della Leggenda – a noi bevitori, una morte così lieve e bella!».
Segni, talismani, visioni maturate nell’ombra, come il milodón di Bruce Chatwin, dal quale germoglia il desiderio di Patagonia. Il mio camminare nelle valli e nelle terre alte, ai bordi del giardino e della pianura che si affaccia sull’Altrove di misteriose montagne, nasce da loro. È un reportage sentimentale nel Nord-ovest italiano fra una borgata, un villaggio e un disco solare occitano inciso nel cembro, una cartolina, bossoli e brandelli di stoffa del Ladakh, frammenti di mattone e di bandiera italiana, schegge d’osso e di pietra, soldatini di stagno e sacchetti di sabbia del lago, uno specchio d’acqua dell’Asia, a 5000 metri di quota.
Ho tra le mani due ciuffi di spighe intrecciate: lavanda che conserva il tenue profumo di un giorno lontano alla Sacra di San Michele e strigonella, l’erba delle streghe; arriva da Triora, dalle Alpi Marittime. Sa ancora di pietraia e di rupi. Ha un profumo intenso, imparentato con la salvia e il timo, con il rosmarino. Sa di estate. Era una calda giornata di pioggia, salivo da Arma di Taggia, vento di mare e odore di salmastro, sentivo il Medioevo dell’entroterra.
Strana la natura dei luoghi: i numi che li abitano si risvegliano e ci possiedono, ci interrogano con domande sempre più creative delle risposte.
Catiorà è l’“erba della paura”, Stachys recta: cresce sulle montagne liguri, affiora come la gioia e la malinconia nelle nostre vite. È panacea contro l’insonnia, è la “pianta della Madonna”, bizzarro accostamento fra il Male estremo e ciò che esiste di più immacolato.
Rimedio per streghe buone che sa di amaro, di filastrocche e litanie. Aiutava i bambini nell’acqua del bagno, a lavare le paure.
Quel giorno abbandonavo i bagni delle spiagge liguri – l’infanzia l’ho lasciata anche a Spotorno, a Noli, ad Arma di Taggia – e salivo in un entroterra di menta, iperico e genziana; lenitivi a riviere bagnate di caldo e di noia, vuoti passaggi di tempo.
L’aria si faceva più sottile e le montagne sempre più vicine. Nella mia mappa – ognuno ha la sua, deve tracciarla da sé – risalivo la Valle Argentina, interrogandomi su cosa ci fosse da scoprire, sempre più lontano dalla malìa delle creme solari e delle discoteche, delle “risate delle signore” e dei cinema all’aperto.
Tuffi e rumore d’acqua diventavano la pace dei boschi di Triora, il villaggio delle streghe – ancor prima di Salem, prima di Fulda – dove oggi fra aromi di gelato e di vacanza, voci di turisti stranieri francesi, tedeschi e olandesi, nel silenzio profondo di larici e abeti, faggi e betulle, aleggia il ricordo dell’odio; queste furono le valli dei processi alle streghe e dei rastrellamenti nazifascisti, nell’alta Valle Argentina la luna ha un’altra luce, più enigmatica e dura, meno languida che nelle notti davanti al mare.
Salgo. Tornante dopo tornante, lungo curve e controcurve della memoria: tra le dita ho la cartolina che mi spedì Fosco Maraini, ringraziandomi per «la benevola accoglienza nubignostica». Avevo scritto un articolo sul suo meraviglioso Nuvolario. «Grazie, caro Grande – diceva – le mando una splendida foto d’iponti, presa recentemente in Dolomiti».
Fosco Maraini è l’Oriente, l’esplorazione. Ormai lo so, ci si salva solo muovendosi, mettendo chilometri nelle gambe e aria azzurra negli occhi, distillando, al ritorno, le illusioni nate in ogni viaggio.
Leggo – come Fosco Maraini – i disegni delle nuvole sopra le cime. Tra le mani ho un mare, un tappeto soffice di nubi (la Marmolada vista dal Sass Pordoi) e dietro alle palpebre, nel retrocoscienza, la sua voce mentre parla al telefono. Ne intravedo il sorriso zen, acuto e gentile: «Tutto merita di essere visto con un sorriso sulle labbra – raccontava – per ristabilire l’equilibrio fra le cose». Era stato in Tibet, in Nepal e sul Karakorum; era convinto che «il più serio, scrupoloso e fecondo apporto alla scienza sia un temperato dileggio». Passaggio lieve di Nuvole, quelle di Aristofane.
È ragionevole condannare le donne, gli ebrei, gli immigrati, i più deboli a soccombere? L’innata propensione al pregiudizio e alla prepotenza, coltivata dalla malapianta dell’umanità?
Maraini mi ringraziava con una cartolina, mi mandava nuvole: «Se vuoi vedere le valli – consiglia Kahlil Gibran – sali in vetta a una montagna; se vuoi vedere la vetta di una montagna, sali su una nuvola; se invece aspiri a comprendere la nuvola, chiudi gli occhi e pensa».
ALL’INCROCIO DEI VENTI E DELLA STORIA
Sulle Alpi Liguri lungo l’Alta Via del Sale
La Provinciale si è fatta serpentina. Salgo contromano rispetto alla canzone di Fabrizio De André, di Ivano Fossati e Francesco De Gregori – che miracolo, cantavano insieme – lascio alle spalle le spiagge variopinte e sanificate, le belle gambe nude che hanno passo di pianura ed ecco Triora, borgo fortificato alla confluenza di quattro torrenti in un panorama di foreste selvagge e vallate profonde, di borghi aggrappati alla roccia tra castagni, conifere e faggi.
Le montagne la circondano e mi fermo ancora, per qualche minuto, a contemplare il vasto orizzonte, prima di inoltrarmi fra i carruggi e gli antichi portali. Cerco un punto di sintesi del mio cammino, per muovermi con più consapevolezza. I luoghi, le cose e le persone devono essere pensati e compresi, non inghiottiti in un boccone, senza assaporarne il gusto. Ci sono sempre due o tre cose che è bello sapere, prima di salire o di scendere a valle – prima di un’altra tazza di caffè, direbbe Bob Dylan – solo allora il percorso diventa pura realtà aumentata.
Fin dal mare, fin da Arma di Taggia ho percepito queste rupi e il Medioevo della Valle Argentina, questo covo di boschi e di storia. Sono sul confine piemontese e sulla frontiera francese, qui comincia il mio viaggio. Sui sentieri degli uomini e su crinali sempre più sottili che separano la natura dalla cultura.
Nelle vallate delle Alpi occidentali voglio ascoltare le voci della montagna, le anime e gli spiriti rimasti impigliati quassù, nel silenzio cupo fra i tronchi; donne e uomini che hanno camminato e camminano su viottoli e mulattiere. I sentieri, le strade più strette, hanno un’anima e raccontano sempre. Offrono rarità, pepite.
Il Ponente ligure è landa di frontiera, incrocio di venti: siamo sullo spartiacque di epoche storiche, sul limes del concetto di umanità. Le Alpi Marittime-Liguri videro i processi alle streghe; ci fu odore di roghi, qui, di persecuzione dell’antica sapienza femminile. E ci furono rappresaglie naziste: sono terre di partigiani e resistenti, Triora e Molini di Triora subirono incendi ed eccidi. Qui è ancora tempo sbandato di migranti, sulle loro miserie aleggia lo spirito millenario di un’altra miseria, la civiltà del secchio e del castagno. Come ricorda “la diagonale del vuoto” francese, linea che va dalle Ardenne ai Pirenei atlantici e taglia in due il Paese, attraversa regioni spopolate, dall’anima rurale profonda.
Passeggio fra bellissime case medievali – Palazzo Borelli, Palazzo Capponi, Palazzo Stella – con lo sguardo dello scrittore Riccardo Bacchelli che scrisse in Italia per terra e per mare (le sue parole sono incise su una lapide): «Vi fui sul far della sera, mentre estive caligini sciroccali accrescevano sui monti il senso di remota lontananza e solitudine. E anche la cortesia degli abitanti, cortesi come sanno esserlo i liguri austeri e ritenuti, parlava al cuore. Alto sullo sprone di monte, e dominante sul paese e sulle valli precipiti e profonde, il camposanto di Triora è simile a un fortilizio destinato all’ultima difesa. Ed anche la stupenda invenzione che l’ha collocato lassù, è un’invenzione d’amore».
Triora sembra un fortilizio sul crinale della montagna, è un cammino fra cielo e terra che ha conosciuto il rancore e il disprezzo, la violenza bruta. Ha un destino tenebroso fin dal nome: in latino ...