E se tornasse Gesù?
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E se tornasse Gesù?

La domanda al cuore del Cristianesimo

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E se tornasse Gesù?

La domanda al cuore del Cristianesimo

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Se Cristo tornasse oggi? Ecco la domanda che si è posto padre Enzo Fortunato. La domanda al cuore del Cristianesimo, del nostro vivere, del nostro amore, del nostro agire. Padre Fortunato ci propone una riflessione profonda, attraverso storia e letteratura. Cosa possiamo imparare dal modo in cui grandi autori hanno immaginato il ritorno di Cristo sulla terra? Prima di tutto che la modernità e la contemporaneità ci mettono di fronte a ciò che la teologia ha sempre chiamato le questioni ultime o le domande essenziali. Flaiano, Michelstaedter, Tolstoj, Dostoevskij e altri, ciascuno a suo modo, ci dicono che nonostante tutte le apparenze contrarie, nonostante tutte le ironie e le demistificazioni, la verità evangelica mantiene per noi tutta la sua forza e la sua attualità. Quando Cristo batte alle nostre porte – e questo avviene molto più spesso di quanto crediamo – noi ci limitiamo a far entrare nelle nostre case il suo nome e lasciamo fuori le sue verità che sono la pazienza, il perdono, l'amore. In fondo è soltanto l'amore che le raccoglie e le riassume tutte.

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Informazioni

INTRODUZIONE

E se Cristo tornasse oggi? Ecco la domanda che mi sono posto leggendo un articolo sul Foglio. Mi sono fermato a pensare a lungo. La prima reazione è stata quella di guardare la porta dell’ufficio. Ho provato per un attimo a immaginare che qualcuno bussasse: «Io sto alla porta e busso, se qualcuno ode la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me», ci ricorda il libro dell’Apocalisse (3,20). Ho provato a visualizzare Gesù sulla scorta delle immagini e dell’iconografia che in questi anni ho immagazzinato. La più spontanea: vestito di bianco, con la tunica rossa di traverso. Apro la porta e ci guardiamo negli occhi, in un silenzio senza precedenti. Le reazioni nel mio cuore sono diverse, la prima è: «Ho cercato di seguirti…», ma anche: «Ho sbagliato tutto? Ti ho compreso?», e scoppio in lacrime; come in un bagliore quelle domande mi riportano al cuore del cristianesimo, in quel cum prehendere che è anche un abbraccio. Poi ci guardiamo ancora negli occhi e capisco che non è qui per rimproverarmi ma solo per amarmi e rendermi capace di amare.
Ho provato a immaginare anche un’altra scena: che Lui bussasse alla porta ed entrasse e ascoltasse i miei pensieri e sperimentasse il mio modo di amare, le mie simpatie e le mie antipatie, i miei “vaffa” o i miei “vieni qui!”. Ho immaginato che osservasse il mio modo di lavorare, di fare le cose, di comunicare. In tutto questo, in alcuni momenti, ho immaginato la grande vicinanza, in altri la distanza. Non so dire fino a che punto potrebbe condividere ciò che faccio, però lo immagino ancora che mi sprona a continuare: «Qui cerca di fare meglio, qui vai avanti così, qui vedi che sotto sotto c’è il tentatore, cerca di smascherarlo».
E in tutto questo emerge la domanda decisiva che Lui mi porrebbe: «Io dove sono?». La domanda al cuore del Cristianesimo, del nostro vivere, del nostro amore, del nostro agire, del nostro pensare.
Come afferma il cardinal Ravasi, Gesù è «un instancabile provocatore di domande». Spesso nella domanda è contenuta una forza profetica. La domanda, scrive ancora Ravasi, «è l’anima della religione».
Papa Francesco alla viglia di Pasqua è tornato su un tema fondamentale della predicazione di Gesù e sulle domande che essa suscita nei nostri tempi. Originariamente il suo essere «segno di contraddizione» (Lc 2,34), la semplice presenza e la parola di Gesù risultano dirompenti.
Ma oggi, dice papa Francesco, Gesù sarebbe relegato fra le notizie di un giornale di provincia. Implicitamente Francesco ci mette di fronte alla domanda del Vangelo di Luca: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (18,8).
La domanda è terribile, e terribile che la risposta possa essere consegnata all’indifferenza. È come se il Vangelo ci spingesse a immaginare non solo che Cristo tornerà, ma che sia tornato, che sia qui e ora, e che a noi spetti corrispondere alla sua presenza tangibile.
La domanda non è cosa fa l’umanità? La vera domanda che non possiamo eludere è: Cosa faccio io?

I

SE TORNASSE GESÙ

Sulle spalle di giganti

Mi capita spesso di ripetere la massima di Bernardo di Chartres: siamo nani sulle spalle di giganti. Intendo dire che abbiamo la fortuna di poterci confrontare con scrittori, pensatori e uomini di fede che prima di noi si sono posti domande decisive per le nostre vite. In questo caso la domanda circa il senso e la possibilità del ritorno di Gesù.
Sulla scorta dell’articolo di Adriano Sofri sul Foglio, «Se Cristo tornasse oggi»1, cui accennavo poco fa, vorrei ora ripercorrere con voi alcuni autori cruciali. Come vedremo la grande letteratura tocca aspetti fondamentali e lo fa in una forma più diretta rispetto alla filosofia o alla teologia.
Quando Dostoevskij dovette immaginare un personaggio cristico, perfettamente buono, perfettamente libero da ogni violenza e ambizione, immaginò L’idiota. In Dostoevskij, l’idiota conserva ancora la potenza messianica del “folle di Dio” della tradizione ortodossa. Scrive il cardinal Ravasi: «Se Cristo tornasse tra noi, la gente non lo metterebbe più in croce. Lo inviterebbe a cena, lo ascolterebbe e gli riderebbe dietro le spalle»2. Oggi, dice il cardinal Ravasi, Gesù sarebbe semplicemente associato a qualcuno di ridicolo, a un idiota da osservare, se va bene, con compassione.
Molti ricordano un colloquio del 1977 di Paolo VI con Jean Guitton. Il papa, riproponendo la stessa domanda del Vangelo di Luca, si interroga sul senso della fede nella contemporaneità e sui rischi cui il nostro tempo la espone. Uno dei rischi è proprio quello ricordato da Ravasi: la fede scompare perché il segno di contraddizione è diventato un segno ridicolo. Ecco un modo per disinnescare la forza delle parole di Gesù.
Un altro modo è quello di considerarle frutto di una specie di esaltazione: «Le sue parole, se ridotte a dialogo di società», dice ancora Ravasi, «si spengono, perché esse in realtà hanno il fuoco dentro e vorrebbero accendersi nelle menti e nelle anime. Non si può solo lasciarlo parlare e poi irriderlo perché “esagerato”. Eppure è questo il rischio che stiamo correndo nel grigiore dei nostri giorni». Qualcosa di simile aveva pensato Carlo Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica: «Se Cristo tornasse oggi non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario di un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente – e avrebbe la soddisfazione di essere un bel caso per frenologi e un gradito ospite dei manicomi». Insomma, un esaltato da rinchiudere.
Oppure Gesù potrebbe essere accolto come una specie di attore a cui tributare applausi e da cui mendicare condiscendenza. Scrive Tolstoj: «Se Cristo venisse e desse alle stampe il Vangelo, le signore gli chiederebbero l’autografo, e niente più»3.
Eppure persino in questo generale fraintendimento, in questa completa disillusione che ridicolizza o “psichiatrizza” tutto, si può anche immaginare che, come una specie di folgore, riaffiori la gloria redentrice di Gesù.
Qualcosa di simile accade nel Cristo torna sulla terra di Ennio Flaiano:
Cristo torna sulla terra e viene assalito dai fotografi e dai cacciatori di autografi. Tra costoro si mischiano spie della Questura, provocatori, ruffiani, agenti del fisco, maniaci sessuali, giornalisti, le solite prostitute, un comitato internazionale e alcuni sindacalisti. Nonché sociologi, psicologi, strutturalisti e cibernetici, che accompagnano biologi, fisici e attori del cinema. La televisione trasmette le scene dei vari incontri. Pregato di fare alcune dichiarazioni sulla stampa, Gesù dice: “Chi ha orecchie per udire, oda; occhi per vedere, veda”. Gli chiedono se si tratterrà per molto: “Il tempo di essere rimesso in croce o di morire di freddo”. E aggiunge: “E adesso chi mi ama ancora mi segua”. “Lasciate che i morti seppelliscano i morti; sono venuto per mettere la spada tra di voi, chi non lascerà la sua famiglia per seguirmi perderà il Regno dei Cieli, porgete l’altra guancia, date a Cesare quello che è di Cesare, il tempio è il tuo cuore, niente profeti in Patria”. Eccetera. La folla cominciò a gridare: “Il miracolo!”. Gesù prese cinque pani e cinque pesci, e con essi sfamò la folla. “Un altro miracolo”, gridarono dopo il pasto. Gesù sanò vari nevrotici, convertì un prete. “Ancora”, continuava la folla. “Noi non abbiamo visto!”. Gesù continuò a fare miracoli. Un uomo gli condusse la figlia malata e gli disse: “Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami”. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli4.
Nel brano di Flaiano, le sentenze, i miracoli, il dolore di Gesù e quello speculare degli uomini sembrano anestetizzati dal brusio mondano, da riti insignificanti di cui spesso noi tutti siamo attori. Eppure alla fine le parole di Gesù ribaltano tutto e sembrano fare tabula rasa di ciò che non è essenziale. Gesù è venuto per amare – questo è l’essenziale, e a questo dobbiamo essere in grado di corrispondere.
Prima di Flaiano e con una potenza teologica e psicologica incomparabile Dostoevskij, con la Leggenda del grande inquisitore, contenuta ne I fratelli Karamazov, immagina che Cristo ritorni sulla terra. Appare a Siviglia, negli anni dell’Inquisizione, mentre si bruciano gli eretici «con grandiosi autodafé». Dostoevskij immagina che Gesù scelga di tornare proprio quando il cardinale grande inquisitore «ad majorem Dei gloriam aveva fatto bruciare quasi un centinaio di eretici».
Gesù è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco – cosa strana – tutti Lo riconoscono. […] Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione. Il sole dell’amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare. Ecco che un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: “Signore, risanami, e io Ti vedrò”, ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede. Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa. I bambini gettano fiori dinanzi a Lui, cantano e Lo acclamano: “Osanna!”. “È Lui, è Lui”, ripetono tutti, “dev’essere Lui, non può esser che Lui”. Egli si ferma sul sacrato della cattedrale di Siviglia nel preciso momento in cui portano nel tempio, fra i pianti, una candida bara infantile aperta: c’è dentro una bambina di sette anni, unica figlia di un insigne cittadino. La bimba morta è tutta coperta di fiori. “Egli risusciterà la tua bambina”, gridano dalla folla alla madre piangente. Il prete della cattedrale uscito incontro alla bara guarda perplesso e aggrotta le sopracciglia. Ma ecco risonare a un tratto il grido della madre della bambina morta. Essa si getta ai Suoi piedi: “Se sei Tu, risuscita la mia creatura!”, esclama, tendendo le braccia verso di Lui. Il corteo si ferma, la bara è deposta sul sacrato ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà e le Sue labbra pronunziano piano ancora una volta: “Talitha kum”, “e la fanciulla si levò”. La bambina si solleva nella bara, si siede e guarda intorno sorridendo con gli occhietti sgranati, pieni di stupore. Ha nelle mani il mazzo di rose bianche col quale era distesa nella bara5.
Tutti riconoscono il Cristo, dice Dostoevskij, anche il grande inquisitore che si trova a osservare la scena della resurrezione. Fa immediatamente imprigionare Gesù, e non perché lo consideri un millantatore, una specie di prestigiatore che ha ingannato chissà come la folla, ma proprio perché è convinto che sia il redentore.
La stessa notte, angosciato ma risoluto, il grande inquisitore entra nella cella dove Gesù è stato rinchiuso e dice:
“Sei Tu, sei Tu?” – Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: “Non rispondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? […] io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici6.
Qual è la colpa che il grande inquisitore imputa a Gesù? Gesù ha chiesto che gli uomini fossero liberi, che l’amore fosse segnato dalla libertà. Questo è, agli occhi del grande inquisitore, il delitto del Cristo. Ma gli uomini non possono essere liberi, devono essere condotti alla felicità con la forza. La libertà conduce all’autodistruzione, solo la servitù può guidarli verso il bene. Ecco infatti cosa afferma il grande inquisitore:
Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. […] Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi!7
Per Dostoevskij il ritorno del Cristo si scontra con una particolare forma di incredulità. Non che Egli non sia il redentore, ma che gli uomini non siano in grado di sostenere la libertà che è venuto a portare. Alla domanda di Luca, Dostoevskij dà una risposta sconcertante: Cristo troverà la fede – “tutti lo riconoscono” dice il romanziere – ma non tutti accetteranno la libertà che è venuto a portare. Ma per Cristo, solo attraverso la libertà, è possibile l’amore.

Le domande della vita

Cosa possiamo imparare dal modo in cui questi grandi autori hanno immaginato il ritorno di Cristo sulla terra? Prima di tutto che la modernità e la contemporaneità ci mettono di fronte a ciò che la teologia ha sempre chiamato le questioni ultime o le domande essenziali. Flaiano, Michelstaedter, Tolstoj e Dostoevskij, ciascuno a suo modo, ci dicono che, nonostante le apparenze contrarie, nonostante le ironie e le demistificazioni, le verità evangelica mantiene per noi tutta la sua forza e la sua attualità.
Chi si avvicina ai Vangeli lo fa perché cerca delle riposte sensate, fondate e convincenti ai dubbi e alle domande che ogni uomo è costretto ad affrontare. Pensiamo oggi ad esempio alle domande che ci suscita la tragedia della pandemia. O più in generale a questa nostra contemporaneità la cui accelerazione e frenesia sembra toglierci il fiato e allontanarci da ogni domanda radicale sulla fede e sul senso stesso della nostra vita.
Sembra che il nostro tempo sia dominato dall’idea dell’uomo macchina e dell’uomo funzione. «On n’échappe pas de la machine» (“non si sfugge alla macchina”), scriveva sconsolato Gilles Deleuze più di trenta anni fa pensando alle forme oppressive della società tecnologica e capitalistica occidentale. Ho letto di recente il bel libro di Miguel Benasayag, Funzionare o esistere, in cui il saggista e psicoanalista franco-argentino si domanda se esista una via di fuga verso un’idea non strumentale dell’uomo. La grande macchina tecnologica, infatti, sovrasta orma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Introduzione
  8. I. SE TORNASSE GESÙ
  9. II. IL CAMMINO
  10. III. APPENDICE