Incontri libertari
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Incontri libertari

  1. 272 pagine
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Incontri libertari

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Fuori da ogni religione, ma a suo modo profondamente religiosa, fuori da ogni partito, ma sempre socialmente e politicamente impegnata, Simone Weil è un personaggio unico, difficile da far rientrare nelle grandi categorie che hanno segnato il Novecento. Ed è proprio questa sua «estraneità» che la rende oggi molto più in sintonia con il pensiero e la sensibilità contemporanei. Questa breve antologia ne offre una lettura specifica: la Weil degli anni Trenta consonante con il sindacalismo radicale e allarmata dalla generale deriva tecno-burocratica, la Weil della dura denuncia di ogni forma di totalitarismo, comunismo di Stato compreso, la Weil volontaria in Spagna nel 1936 come miliziana nella Colonna Durruti. Una Weil meno nota ma già tutta dentro alla fase centrale della sua riflessione filosofica, del suo essere e del suo fare.

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Informazioni

Editore
Eleuthera
Anno
2021
ISBN
9788833021614
capitolo diciassettesimo
Prospettive: andiamo verso
una rivoluzione proletaria?
Non ho che disprezzo per il mortale
che si infiamma con speranze vuote.
Sofocle1
È giunto il momento, già da tempo previsto, in cui il capitalismo sta per assistere all’arresto del suo sviluppo a causa di limiti insuperabili. Comunque si interpreti il fenomeno dell’accumulazione, risulta chiaro che il capitalismo significa essenzialmente espansione economica e che l’espansione capitalista non si trova lontano dal punto in cui si scontrerà con i limiti stessi della superficie terrestre. E tuttavia mai il socialismo è stato annunciato da così pochi segni precursori. Ci troviamo in un periodo di transizione; ma transizione verso che cosa? Nessuno ne ha la minima idea. Ancor più sconvolgente è la sicurezza con la quale ci si colloca nella transizione come in uno stato definitivo, al punto che le considerazioni concernenti la crisi del regime si sono trasformate un po’ dappertutto in luoghi comuni. Certo, si può sempre credere che il socialismo giungerà dopodomani e fare di questa credenza un dovere o una virtù; fino a quando di giorno in giorno si intenderà per «dopodomani» il dopodomani del giorno presente, si sarà sicuri di non essere mai smentiti; ma un simile atteggiamento mentale ben poco si distingue da quello delle brave persone che credono, per esempio, al Giudizio universale. Se noi vogliamo attraversare virilmente questa epoca oscura, ci asterremo, come l’Aiace di Sofocle, dall’infiammarci con delle vuote speranze.
Lungo l’intero corso della storia gli uomini hanno lottato, hanno sofferto e sono morti per emancipare gli oppressi. I loro sforzi, quando non si sono rivelati vani, non hanno condotto a qualcosa di diverso dalla sostituzione di un regime di oppressione con un altro. Marx, che lo aveva sottolineato, ha ritenuto di poter stabilire scientificamente che le cose vanno in modo diverso ai giorni nostri e che la lotta degli oppressi condurrebbe al presente a una vera emancipazione, non a una nuova forma di oppressione. È questa idea, radicata tra noi come un articolo di fede, che dovrebbe essere analizzata di nuovo, a meno di non voler chiudere sistematicamente gli occhi sugli avvenimenti degli ultimi vent’anni. Risparmiamoci le disillusioni di coloro che hanno lottato per Libertà, Eguaglianza, Fraternità e che si sono ritrovati un bel giorno – come afferma Marx – Fanteria, Cavalleria, Artiglieria. E quelli hanno potuto estrarre qualche insegnamento dalle sorprese della storia; ben più triste è la sorte di coloro che sono periti nel 1792 o nel 1793 nelle strade o alle frontiere, convinti che pagavano con la loro vita la libertà del genere umano. Se proprio dobbiamo morire in battaglie future, facciamo del nostro meglio per prepararci a perire con una visione chiara del mondo che abbandoneremo.
La Comune di Parigi ha fornito un esempio non solo della potenza creatrice delle masse operaie in rivolta, ma anche dell’incapacità radicale di un movimento spontaneo quando si tratta di agire contro una forza repressiva organizzata. L’agosto del 1914 ha segnato il fallimento dell’organizzazione delle masse proletarie sul terreno politico e sindacale all’interno del regime. Da quel momento è stato necessario abbandonare una volta per tutte la speranza riposta in questo modo di organizzazione non soltanto da parte dei riformisti, ma anche da parte di Engels. In compenso, l’Ottobre 1917 giunse a delineare nuove e radiose prospettive. Era stato finalmente trovato il modo di legare l’azione legale all’azione illegale, il lavoro sistematico dei militanti disciplinati all’agitazione spontanea delle masse. In ogni parte del mondo dovevano costituirsi dei partiti comunisti ai quali il Partito bolscevico avrebbe trasmesso il suo sapere; dovevano semplicemente rimpiazzare la socialdemocrazia qualificata da Rosa [Luxemburg] come «cadavere puzzolente» e che non avrebbe tardato a uscire dalla scena della storia; dovevano impadronirsi del potere a breve termine. Il regime politico creato spontaneamente dagli operai di Parigi nel 1871, quindi a Pietroburgo nel 1905, doveva instaurarsi rigidamente in Russia ed estendersi rapidamente su tutta la superficie del mondo civilizzato. Certo, l’annientamento della Rivoluzione russa attraverso un intervento brutale dell’imperialismo straniero poteva azzerare queste brillanti prospettive; ma a meno di un simile annientamento, Lenin e Trockij erano sicuri di introdurre nella storia proprio questa serie di trasformazioni e non un’altra.
Quindici anni sono trascorsi. La Rivoluzione russa non è stata fatta a pezzi. I suoi nemici esterni sono stati vinti. Tuttavia, da nessuna parte sulla superficie della Terra, compreso il territorio russo, esiste un partito comunista che meriti il suo nome. Il «cadavere puzzolente» della socialdemocrazia ha continuato per quindici anni a corrompere l’atmosfera politica, cosa che non corrisponde all’atteggiamento di un cadavere; se, da ultimo, è stato in gran parte spazzato via, questo è stato per mano del fascismo e non da parte della rivoluzione. Il regime uscito dall’Ottobre, e che doveva estendersi o perire, si è assai bene adattato, nel corso di quindici anni, ai limiti delle frontiere nazionali; il suo ruolo all’estero consiste attualmente – come gli avvenimenti tedeschi si incaricano di mostrare con evidenza – nello strangolare la lotta rivoluzionaria del proletariato. La borghesia reazionaria ha finito con l’accorgersi che tale regime ha ormai perso ogni forza espansiva e si interroga se poterlo utilizzare al presente per contrattare, in vista di guerre future, alleanze difensive e offensive (cfr. la «Deutsche Allgemeine Zeitung» del 27 maggio). A ben vedere, questo regime assomiglia al regime che Lenin credeva di instaurare nella misura in cui esclude quasi interamente la proprietà capitalista; per tutto il resto, ne è esattamente il contrario. Al posto di una libertà effettiva di stampa, l’impossibilità di esprimere un giudizio libero sotto forma di documento stampato o dattilografato o manoscritto o anche attraverso la semplice parola senza rischiare la deportazione; in luogo del libero gioco dei partiti nel quadro del sistema sovietico, «un partito al potere e tutti gli altri in prigione»; al posto di un partito comunista destinato a raccogliere, in vista di una libera cooperazione, gli uomini dotati del più alto grado di spirito di sacrificio, di coscienza, di cultura, di spirito critico, una semplice macchina amministrativa, strumento passivo nelle mani del Segretariato e che, a dire di Trockij stesso, non ha del partito che il nome; al posto di soviet, sindacati e cooperative che funzionano democraticamente e dirigono la vita economica e politica, degli organismi che si fregiano in verità dello stesso nome, ma ridotti a semplici apparati amministrativi; al posto del popolo armato e organizzato in milizie per assicurare la difesa all’esterno e l’ordine all’interno, un esercito permanente, una polizia fuori da ogni controllo e cento volte meglio armata di quella dello zar; e soprattutto, al posto di funzionari eletti, sottoposti a continuo controllo, revocabili in ogni momento e in grado di assicurare il governo nell’attesa del momento in cui «ogni cuoca avrebbe imparato a governare lo Stato», una burocrazia permanente, irresponsabile, reclutata per cooptazione e in possesso, data la concentrazione nelle sue mani di tutti i poteri economici e politici, di una potenza fino a ora sconosciuta nella storia.
La novità di un simile regime ne rende difficile l’analisi. Trockij insiste con il dire che si tratta di una «dittatura del proletariato», di uno «Stato operaio» anche se con «deformazioni burocratiche» e che, in rapporto alla necessità di un tale regime di estendersi o perire, né lui, né Lenin si sono sbagliati, se non sui tempi. Ma quando un errore di quantità raggiunge tali proporzioni, è lecito credere che si tratta di un errore che verte sulla qualità, cioè sulla natura stessa del regime di cui si vogliono definire le condizioni di esistenza. D’altra parte, definire uno Stato «Stato operaio» quando peraltro si chiarisce che ogni operaio vi si trova, economicamente e politicamente, alla mercé di una casta burocratica, assomiglia a un cattivo scherzo. Per quel che concerne le «deformazioni», questo termine, singolarmente mal applicato a uno Stato i cui caratteri sono esattamente all’opposto di quelli che comporta teoricamente uno Stato operaio, sembra indicare che il regime staliniano costituirebbe una sorta di anomalia o di malattia della Rivoluzione russa. Ma la distinzione tra il patologico e il normale non ha valore teorico. Cartesio affermava che un orologio che non funziona non costituisce un’eccezione alle leggi dell’orologio, ma un meccanismo differente obbediente a leggi proprie; allo stesso modo bisogna considerare il regime staliniano non come uno Stato operaio non funzionante, bensì come un meccanismo sociale differente, definito dagli ingranaggi che lo compongono e operante in conformità della natura di questi ingranaggi. Mentre gli ingranaggi di uno Stato operaio sarebbero le organizzazioni democratiche della classe operaia, gli ingranaggi del regime staliniano costituiscono esclusivamente i pezzi di un’amministrazione centralizzata da cui dipende tutta quanta la vita economica, politica e intellettuale del paese. Per un tale regime il dilemma «estendersi o morire» non soltanto non è più valido, ma è del tutto privo di senso; il regime staliniano, in quanto sistema di oppressione, è così poco contagioso quanto poteva esserlo l’Impero per i paesi vicini alla Francia. La tesi secondo cui il regime staliniano costituirebbe una semplice transizione sia verso il socialismo sia verso il capitalismo si presenta non meno arbitraria. L’oppressione degli operai non può essere evidentemente una tappa verso il socialismo. La «macchina burocratica e militare», che costituisce – agli occhi di Marx – il vero ostacolo alla possibilità di un progresso incessante verso il socialismo per semplice accumulazione di riforme successive, non ha perduto senza dubbio questa sua proprietà dal momento che, contrariamente a ogni previsione, essa sopravvive all’economia capitalista. Per quel che concerne la restaurazione del capitalismo, che potrebbe realizzarsi solo nella forma di una sorta di colonizzazione, essa non è affatto impossibile, a causa dell’avidità caratteristica di tutti i regimi imperialisti e della debolezza economica e militare dell’urss. Le rivalità che contrappongono fino al momento attuale i diversi imperialismi impediscono, tuttavia, che il rapporto di forza sia disastroso per la Russia. In ogni caso, la burocrazia sovietica non è in alcun modo disposta alla capitolazione, cosicché l’uso del termine «transizione» risulta del tutto improprio. Nulla suffraga la tesi che la burocrazia di Stato russa prepari il terreno per un potere diverso dal suo, né per quello del proletariato né per quello della borghesia. In realtà, le spiegazioni imbarazzate con le quali i militanti formati dai bolscevichi tentano di sottrarsi al riconoscimento della radicale falsità delle prospettive poste dall’Ottobre 1917 si basano sullo stesso pregiudizio che fonda queste stesse prospettive, cioè sull’affermazione, assunta a titolo di dogma, che non si possono dare attualmente che due tipi di Stato, lo Stato capitalista e lo Stato operaio. Questo dogma riceve la più brutale smentita dallo sviluppo del regime uscito da quell’Ottobre. Uno Stato operaio non è mai esistito sulla faccia della Terra, salvo nel corso di alcune settimane a Parigi nel 1871 e qualche mese forse in Russia nel 1917 e nel 1918. In compenso, su un sesto del globo regna, da quasi quindici anni, uno Stato tanto oppressivo quanto qualsiasi altro e che non è né capitalista, né operaio. Marx certamente non aveva potuto prevedere nulla di simile. Ma neppure Marx ci è più caro della verità.
L’altro fenomeno capitale della nostra epoca – faccio riferimento al fascismo – non è inquadrabile più facilmente dello Stato russo negli schemi del marxismo classico. Anche in questo caso, ben inteso, esistono dei luoghi comuni adatti a sottrarci dal doloroso obbligo di riflettere. Come l’urss è uno «Stato operaio» più o meno «deformato», il fascismo è un movimento di masse piccolo-borghesi, fondato sulla demagogia e che si presenta come «l’ultima carta della borghesia prima del trionfo della Rivoluzione»2. La degenerazione del movimento operaio ha infatti condotto i teorici a configurare la lotta di classe come un duello o un gioco tra partner coscienti e ogni avvenimento sociale o politico come una manovra di uno di essi. Una simile concezione ha con il materialismo una relazione non diversa da quella che corre tra questo e la mitologia greca. Esistono dei circoli ristretti di grandi finanzieri, di grandi industriali, di politici reazionari che difendono coscientemente quelli che pensano essere gli interessi politici dell’oligarchia capitalista; tuttavia sono affatto incapaci di impedire quanto di suscitare un movimento di massa quale il fascismo, o anche di dirigerlo. In effetti, lo hanno ora aiutato, ora combattuto, ora tentato di farne docile strumento, e hanno finito per capitolare essi stessi davanti a lui. È evidente che la presenza di un proletariato esasperato rende ai loro occhi questa capitolazione il minore dei mali. Il fascismo tuttavia è tutt’altro che una carta nelle loro mani. La brutalità con la quale Hitler ha congedato Hugenberg3 come un domestico, e questo malgrado le proteste di Krupp, è indicativa a tal riguardo. Non bisogna neppure dimenticare che il fascismo pone radicalmente fine a questo gioco di partiti nati dal regime borghese e che nessuna dittatura borghese, anche in tempo di guerra, aveva ancora soppresso; e che ha installato al suo posto un regime politico la cui struttura è all’incirca quella del regime russo quale l’ha definita Tomskij4: «un partito al potere e tutti gli altri in prigione». Aggiungiamo che la subordinazione meccanica del partito al capo nei due casi è la stessa e che viene assicurata, in entrambi i casi, dalla polizia. La sovranità politica, tuttavia, non è nulla senza la sovranità economica; pertanto il fascismo tende a combaciare con il regime russo anche sul terreno economico in rapporto alla concentrazione di tutti i poteri economici ma anche politici nelle mani del capo di Stato. Su questo terreno, nondimeno, il fascismo si scontra con la proprietà capitalista che non intende distruggere. Esiste qui una contraddizione di cui è difficile prevedere i risultati. Ma, così come il meccanismo dello Stato russo non può essere spiegato in base a semplici «deformazioni», analogamente questa contraddizione essenziale del movimento fascista non può essere spiegata semplicemente in riferimento alla demagogia. La cosa certa è che se il fascismo italiano non ha ottenuto la concentrazione dei poteri politici se non dopo lunghi anni che hanno esaurito lo slancio, il nazionalsocialismo al contrario è giunto al medesimo risultato in meno di sei mesi, concentra in sé ancora una grande energia e tende a proiettarsi molto più lontano. Come mostra in particolare un rapporto di una grande società anonima tedesca che «L’Humanité» ha citato senza rendersi conto del suo significato, la borghesia vive con ansia la minaccia dello strapotere dello Stato. E in effetti Hitler ha dato vita a organismi dotati del potere sovrano di condannare gli operai o i padroni a dieci anni di lavori forzati e di confiscare le imprese.
Si tenta invano, al fine di far rientrare a ogni costo il nazionalsocialismo entro gli schemi del marxismo, di trovare all’interno stesso del movimento una forma mascherata della lotta di classe tra la base, istintivamente socialista, e i capi che dovrebbero rappresentare gli interessi del grande capitale e dovrebbero avere come compito quello di raggirare le masse grazie a una ben calcolata demagogia. Innanzi tutto, nulla consente di affermare con certezza che Hitler e i suoi luogotenenti, quali che siano i loro legami con il capitale monopolistico, ne costituiscano dei semplici strumenti. E soprattutto, l’orientamento delle masse hitleriane, per quanto violentemente anti-capitalistico, non ha in alcun modo un carattere socialista, non più di quanto l’abbia la propaganda demagogica dei suoi capi; perché si tratta di porre l’economia non nelle mani dei produttori raggruppati in organizzazioni democratiche, bensì nelle mani dell’apparato dello Stato. Ora, per quanto l’influenza dei riformisti e degli stalinisti l’abbia fatto dimenticare da molto tempo, il socialismo equivale alla sovranità economica dei lavoratori e non della macchina burocratica di Stato. Pertanto, ciò che viene qualificata come l’ala «nazional-bolscevica» del movimento hitleriano non ha un carattere socialista. In base a ciò nessuno dei due fenomeni politici che dominano la nostra epoca può essere collocato nel quadro tradizionale della lotta di classe. Ciò vale anche per tutta una serie di movimenti contemporanei nati nel dopoguerra e particolarmente significativi per le loro affinità tanto con lo stalinismo che con il fascismo. Tale è, per esempio, la rivista tedesca «Die Tat», che raggruppa una pleiade di giovani e brillanti economisti e che si situa estremamente vicino al nazionalsocialismo; questa considera l’urss come il modello di Stato futuro, eccezion fatta per l’abolizione della proprietà privata, e preconizza attualmente un’alleanza militare tra la Russia e la Germania hitleriana. In Francia abbiamo dei circoli intellettuali, come quello della rivista «Plans»5, dove si riscontra un’analoga ambiguità. Il movimento più emblematico a questo riguardo è, tuttavia, quello tecnocratico che si è diffuso, come si dice, in un breve lasso di tempo in tutti gli Stati Uniti; si sa che esso auspica, nei limiti di un’economia nazionale chiusa, l’abolizione della concorrenza e dei mercati e una dittatura economica esercitata in piena sovranità da parte dei tecnici. Questo movimento, più volte accostato allo stalinismo e al fascismo, ha una così ampia portata da non sembrare ininfluente sulla cerchia di intellettuali di Washington che in questo momento fungono da consiglieri di Roosevelt.
Simili correnti di idee rappresentano qualcosa di assolutamente originale che imprime un carattere specifico alla nostra epoca. Del resto, il periodo attuale, per quanto confuso e ricco di correnti politiche di ogni tipo, vecchie e nuove, sembra essere privo solo di quel dinamismo che, secondo le previsioni, dovrebbe costituirne il carattere distintivo, vale a dire la lotta per l’emancipazione economica e politica dei lavoratori. È vero che ci sono, sparsi qua e là, disuniti da oscure dispute e in piccolo numero, vecchi sindacalisti rivoluzionari e comunisti sinceri; esistono anche alcune piccole organizzazio...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Colophon
  3. Introduzione
  4. Nota biografica
  5. Parte prima
  6. Prima nota del curatore
  7. Capitolo primo
  8. Capitolo secondo
  9. Capitolo terzo
  10. Capitolo quarto
  11. Note della prima sezione
  12. Parte seconda
  13. Seconda nota del curatore
  14. Capitolo quinto
  15. Capitolo sesto
  16. Capitolo settimo
  17. Capitolo ottavo
  18. Capitolo nono
  19. Capitolo decimo
  20. Capitolo undicesimo
  21. Capitolo dodicesimo
  22. Capitolo tredicesimo
  23. Note della seconda sezione
  24. Parte terza
  25. Terza nota del curatore
  26. Capitolo quattordicesimo
  27. Capitolo quindicesimo
  28. Capitolo sedicesimo
  29. Note della terza sezione
  30. Parte quarta
  31. Quarta nota del curatore
  32. Capitolo diciassettesimo
  33. Capitolo diciottesimo
  34. Note della quarta sezione
  35. Parte quinta
  36. Quinta nota del curatore
  37. Capitolo diciannovesimo
  38. Capitolo ventesimo
  39. Note della quinta sezione
  40. Bibliografia essenziale
  41. Titoli affini nel catalogo di elèuthera