Non scrivo commenti: i fatti del mio regno sono sufficientemente noti e io non sono tenuto ad alimentare la pubblica curiosità. Li riassumo perché il mio carattere e le mie intenzioni rischiano d’essere stranamente distorti e perché intendo apparire, agli occhi di mio figlio e a quelli dei posteri, quale sono effettivamente stato.
Ecco lo scopo di questo scritto. Per farlo apparire debbo ricorrere a una via traversa. So per esperienza che se cadesse nelle mani dei ministri inglesi resterebbe nei loro archivi.
Di fronte a una vita così sorprendente gli ammiratori del mio potere hanno pensato che anche la mia infanzia fosse stata straordinaria. Si sono ingannati. I miei primi anni non hanno nulla di singolare. Ero soltanto un ragazzo ostinato e curioso. La mia prima educazione è stata meschina, come tutto in Corsica allora. Ho appreso il francese abbastanza facilmente dai militari della guarnigione con cui passavo il tempo.
Se intraprendevo qualcosa riuscivo perché volevo: la mia volontà era forte, il carattere deciso. Non esitavo mai; e questo mi ha sempre dato su tutti un margine di vantaggio. La volontà, del resto, dipende dalla tempra dell’individuo: non tutti sono destinati a diventare padroni a casa loro.
Istintivamente detestavo le illusioni. Ho sempre intuito la verità di primo acchito. E ho sempre visto, meglio degli altri, l’essenza delle cose. Il mondo, per me, è sempre stato nei fatti, non nel diritto. Per questo, non v’è nessuno, credo, a cui sia stato somigliante. Per natura sono sempre stato isolato.
Non ho mai capito quale vantaggio avrei potuto trarre dagli studi, e in effetti essi mi sono serviti esclusivamente a imparare un metodo. Soltanto la matematica mi ha procurato qualche beneficio. Il resto non m’è stato di alcuna utilità. Ma studiavo egualmente, per amor proprio.
Le mie facoltà intellettuali si sviluppavano comunque senza che io me ne dessi pena. Esse consistevano semplicemente in una grande mobilità delle fibre del cervello. Pensavo più rapidamente degli altri. E avevo sempre più tempo per riflettere. In questo consistette la mia profondità.
La mia mente era troppo attiva perché io potessi divertirmi con le distrazioni abituali della gioventù. Non mi lasciavano completamente indifferente, ma cercavo altrove i miei interessi. Questa disposizione mi collocava in una sorta di solitudine in cui m’erano compagni soltanto i miei pensieri. Questo modo d’essere m’è stato abituale in tutte le circostanze della vita.
Mi dilettavo a risolvere problemi: li cercavo nelle scienze matematiche; ma ne fui presto stanco perché l’ordine materiale è estremamente limitato. Li cercai allora nell’ordine morale: è il lavoro in cui ho dato il meglio di me stesso. Questa ricerca mi è divenuta abituale. Debbo ad essa i grandi progressi che ho impresso alla politica e alla guerra.
La nascita mi destinava alla carriera delle armi: frequentai quindi le scuole militari. Ebbi una tenenza all’inizio della Rivoluzione. Mai un titolo mi procurò altrettanto piacere. Una spallina a sbuffi sulle spalle era allora il massimo delle mie ambizioni: un colonnello d’artiglieria mi appariva il nec plus ultra dell’umana grandezza.
Ero troppo giovane allora per considerare la politica con interesse. Le masse non m’ispiravano alcun giudizio. Il disordine che regnava in quel periodo non mi sorprendeva né mi spaventava perché non avevo termini di confronto. Mi adattai a ciò che trovai. Non ero ancora difficile.
Fui destinato al corpo d’armata delle Alpi. Un esercito che non faceva ciò che un esercito deve fare. Né disciplina né guerra. Pessima scuola. Vero è che non avevamo nemici: dovevamo impedire ai piemontesi di attraversare le Alpi; nulla di più facile.
Negli accantonamenti regnava l’anarchia: il soldato non aveva rispetto per l’ufficiale e l’ufficiale non ne aveva per il generale; l’uno e l’altro venivano destituiti ogni mattina dai rappresentanti del popolo, gli unici che incarnassero agli occhi dell’esercito l’idea del potere, quella che maggiormente esercita la sua forza sullo spirito umano. Ho avvertito da allora il pericolo dell’influenza del potere civile sul militare: ho saputo guardarmene.
La loquacità, non il talento, conferiva autorevolezza in seno all’esercito: dal favore popolare, che si ottiene vociferando, tutto dipendeva.
Non ho mai avuto con la folla quella comunanza di sentimenti che genera l’eloquenza della piazza. Non sono mai stato capace di agitare il popolo. E non ebbi mai in quell’esercito una parte di spicco. Tanto meglio: avevo il tempo di riflettere.
Studiavo la guerra: sul terreno, non sulla carta. Fui al fuoco per la prima volta in una scaramuccia di fucilieri dalle parti del Monginevro. Qualche palla qua e là: qualcuno dei nostri fu ferito. Non provavo emozioni, non ne valeva la pena. Esaminai l’azione. Mi parve evidente che nessuna delle due parti intendeva dare un senso a quella sparatoria. Tiravano per debito di coscienza e perché così usa in guerra. Questa inanità mi spiacque, la resistenza m’irritò. Perlustrai il terreno, presi il fucile d’un ferito e dissi al capitano che ci comandava – un brav’uomo – di fare un fuoco di sbarramento mentre me ne andavo con una dozzina d’uomini a tagliare la ritirata dei piemontesi.
M’era parso facile raggiungere un’altura che dominava la loro posizione passando per un boschetto di abeti su cui si appoggiava la nostra ala sinistra. Il nostro capitano si scaldò; i suoi uomini presero un po’ di terreno e spinsero il nemico verso di noi; non appena questi vacillò feci uscire i miei allo scoperto. I nostri colpi intralciarono la sua ritirata. Ne ammazzammo qualcuno, ne prendemmo venti, il resto fuggì.
Non ho raccontato il mio primo scontro perché mi procurò il grado di capitano, ma perché m’iniziò ai misteri della guerra. Mi accorsi che battere il nemico era più facile di quanto non credessi e che il segreto di questa grande arte è semplice: non esitare nell’azione e intraprendere soltanto movimenti decisivi. Così si trascinano i soldati.
Avevo conquistato gli speroni, credevo d’essere esperto. A partire da quel momento mi sentii attratto da un mestiere che mi si conveniva. Non ebbi altro pensiero e mi consacrai a risolvere tutti i problemi che sorgono sul campo di battaglia. Avrei voluto studiare la guerra sui libri, ma non ne avevo. Cercai di ricordare quel poco che avevo letto nelle storie e confrontai quei racconti con il quadro che avevo sotto gli occhi. Mi sono fatto in tal modo una teoria della guerra che il tempo ha sviluppato senza mai smentire.
Tirai avanti così fino all’assedio di Tolone. Comandavo allora un battaglione e può essere che come tale abbia avuto una certa influenza sul successo dell’assedio.
Mai esercito fu diretto peggio del nostro. Nessuno sapeva chi lo comandasse. I generali non osavano per paura dei rappresentanti del popolo; e questi avevano una paura ancor maggiore del Comitato di salute pubblica. I commissari predavano, gli ufficiali bevevano, i soldati morivano di fame; ma erano spensierati e coraggiosi. Il disordine, più della disciplina, li rendeva audaci. Ne ho tratto la convinzione che gli eserciti, quando si muovono meccanicamente, non servono a nulla: ne abbiamo avuto la prova.
Al campo tutto si faceva con mozioni e acclamazioni. Questo modo di fare m’era insopportabile, ma non potevo farci niente, e tirai dritto senza curarmene.
Ero forse il solo in tutto l’esercito che avesse uno scopo: ma desideravo che tutto avesse uno scopo. Non ebbi altra occupazione fuor che quella di esaminare la posizione del nemico e la nostra. Confrontai i suoi mezzi morali e i nostri. Vidi che tutti erano dalla nostra parte, nessuno dalla loro. La sua spedizione era un’impresa miserevole e avventata di cui aveva certamente previsto la catastrofe; e chi prevede la propria sconfitta è debole.
Cercai i punti migliori per l’attacco: valutai la portata delle nostre batterie e indicai le postazioni in cui occorreva collocarle. Gli ufficiali esperti le considerarono troppo pericolose, ma l’esperienza non vince le battaglie. M’intestardii, esposi il mio piano a Barras: era stato in marina, gente per bene che non capisce nulla di guerra, ma intrepida. Barras l’approvò perché voleva farla finita. La Convenzione, del resto, non gli chiedeva il conto delle braccia e delle gambe, gli chiedeva successo.
I miei artiglieri erano coraggiosi e non avevano esperienza: nei soldati, la miglior disposizione possibile. I nostri attacchi dettero buoni risultati: il nemico s’intimidiva e non osava prendere iniziative. Si limitava a mandarci qualche palla, stupidamente, che cadeva qua e là e non serviva a niente. I miei colpi invece andavano a tiro. Ci mettevo molto zelo perché speravo di trarne una promozione: il successo d’altro canto mi attraeva in quanto tale. Ero sempre in batteria, dormivo sui rialzi delle trincee. Riescono bene soltanto le cose che hai fatto tu stesso. Dai prigionieri apprendevamo che nella piazzaforte tutto andava al diavolo. Fu evacuata, finalmente, in modo spaventoso.
Avevamo diritto alla riconoscenza della patria. Divenni generale di brigata. Fui impiegato, denunciato, destituito, sballottato dagli intrighi e dalle fazioni. Cominciai a detestare l’anarchia che toccava allora l...