PARTE QUARTA
IL TEATRO ELISABETTIANO
85. Il “masque” e l’interludio tudoriani.
1. Come si è detto 1 le moralities non sono esattamente abbandonate e soppiantate nel Cinquecento; sono però affiancate e sopravanzate da altri generi teatrali, non più popolari ma nati e gestiti nell’ambito dell’intrattenimento di corte; come tali segnano le prime linee termometriche di quello che sarà un febbrone drammatico della durata di quasi mezzo secolo. Se la Scozia s’inceppa di colpo dopo Lyndsay, in Inghilterra l’epoca di Enrico VIII, seguace dei modelli continentali, semina questo contagio. Il masque 2 era nato sin dai primi del Cinquecento come divertimento privato in maschera, coinvolgendo gli aristocratici di corte che offrivano uno spettacolo al sovrano in ricorrenze prefissate durante l’anno. Con Elisabetta fu sfruttato per puntellare l’ideologia del potere e attaccare il cattolicesimo. Come spesso si riscontra in fenomeni analoghi, dapprima i libretti sono meno importanti e non sono sopravvissuti; poi sopravanzano le scenografie. Con Giacomo I il masque andò incontro a un revival, e i testi furono affidati a letterati di vaglia, e gli allestimenti scenografici e la costumistica a dei professionisti. Quasi tutti i drammaturghi e i poeti in versi ne scrissero sino all’avvento di Cromwell, segnatamente Campion, Daniel e il sommo Ben Jonson, a cui – come meglio vedremo trattandolo – si dovette l’introduzione, nella forma base del genere, di un antimasque, ovverosia di episodi incidentali in forma di contrasto con la trama principale.
2. Il punto fermo della storia del dramma inglese secolare è che John RASTELL (1475-1536) è il suo iniziatore, e ne fissa lo spartiacque e il terminus a quo; e che subito dopo di lui viene John HEYWOOD (1497-1579), il genero di Rastell. Con questi due praticanti l’interludio si stabilizza per un mezzo secolo con sue proprie leggi strutturali: è allestito a corte o nelle dimore dei nobili per il loro intrattenimento; conserva inizialmente la forma di un’allegoria dell’Ognuno stretto nella morsa del vizio e della virtù, con una pletora medievale di pleonastiche personificazioni; è tutto pervaso da uno scrupolo didattico; segue pedissequamente la falsariga di un dibattito tra opinioni contrarie personificate, e viene risolto da un arbitro della disputa. È un divertimento breve, chiuso entro il migliaio di versi; fa infine balenare lo humour ma è sprovvisto di intreccio drammatico. È anche possibile vedere l’interludio, per il fatto stesso di aver toccato il suo zenit nel regno di Maria, come genere cattolico e coperta revanche cattolica al teatro protestante e riformato 3. È e non è allora un’anticamera diretta della commedia inglese di fine secolo.
Rastell, che aveva sposato la figlia di Tommaso Moro, fu col figlio William anzitutto stampatore, e gli si deve il merito di aver salvato dall’oblio drammi che venivano scritti e prodotti entro la metà del secolo, dunque come un secondo Caxton. Personalità versatile, ricevette nomine amministrative fra le più varie, e fu anche un ardimentoso propugnatore di riforme nei campi amministrativi ed ecclesiastici; divenuto in tal modo un soggetto “pericoloso”, fu messo da Enrico VIII in galera dove morì in povertà. Il suo The Nature of the Four Elements 4, pubblicato anonimo ai primi del Cinquecento, ripete l’impostazione dell’agone tra vizi e virtù per il possesso dell’anima umana, edotta sui benefici dell’apprendimento della geografia e di quella che Donne avrebbe chiamato la “nuova filosofia”. Questo insegnamento è dato da Natura naturata, ma Umanità è distolta da Appetito sensuale e da Ignoranza 5.
Rastell è ancora dunque autore didattico; Heywood si libera da quest’obbligo, e il suo pregio è di aver radiato il fine edificante per farsi un drammaturgo realista rappresentatore non di incarnazioni allegoriche ma di esseri umani tratti dalla vita con tutte le loro idiosincrasie, anche se gli rimane una certa simmetria medievale nel comporre scene per coppie, terzetti, e quartetti di figure. Musico, corista, cantore e strumentista di corte, sotto Edoardo e Maria mise in scena interludi suoi e di altri; incriminato per trame contro Cranmer, fu perdonato, ma sotto Elisabetta abbracciò saggiamente la strada dell’esilio in Belgio dove morì ottuagenario. Gli si ascrivono gli interludi Witty and Witless 6, The Play of Love 7, The Play of the Weather 8, The Pardoner and the Friar 9, The Play called The Four P. P. 10 e Johan Johan, di cui si conosce la data di stampa (anni Trenta) ma non di stesura ed eventualmente di rappresentazione.
Heywood riprende nel primo la formula del dibattito su tema assegnato tra due personaggi senza alcuno svolgimento drammatico, facendo alla fine scendere in campo un arbitro. La disputa tra sanità e follia risale a Moro e attraverso Moro a Erasmo. Quattro sono le possibilità combinatorie del secondo: l’amante non riamato, l’amata non riamante, l’amato riamato e l’amante non amante e non riamata. Entrambi gli interludi sono appesantiti dalla rigida e fissa formula dibattimentale e dall’assenza di un minimo di situazionamento scenografico. In The Play of the Weather Giove manda invece un suo messaggero sulla terra per conoscere quale sia il tempo che i mortali desiderano immutabile, e ognuno dei dieci rappresentanti adduce argutamente davanti a lui una sua opinione personale e interessata, e Giove alla fine mantiene lo status quo. Per la varietà della sua impostazione e per l’esuberanza verbale questo è il lavoro più fresco e frizzante di Heywood.
I “quattro P” sono personaggi i cui ruoli iniziano con questa lettera e che gareggiano fra loro a chi dica la panzana più grossa, che fuoriesce dalla bocca del “pellegrino” ed è una facile e tipica battuta misogina. È qui all’opera il revival di un umorismo un po’ grasso di tipo chauceriano, anche perché a volte ambiguo e malizioso di doppi sensi: un’intertestualità seconda, ammiccata anche nell’ulteriore commedia di due figure per antonomasia chauceriane, come un indulgenziere e un frate che nell’omonimo interludio addivengono a un battibecco di strada, trasformando il genere del dibattitto in quello della rissa. Johan Johan, la cui fonte francese fu scoperta nel 1949, è ormai una farsa (sul classico triangolo del marito geloso, della moglie e del prete corteggiatore) in cui l’azione drammatica non latita ma inizia a farsi sentire 11.
Fuori dal dramma Heywood fu praticamente l’inventore dell’epigramma inglese, e può ritenersi un presagio, perché lo spirito e il gusto relativo poterono essere recepiti da Tommaso Moro e trasmettersi geneticamente a John Donne 12. Anche la satira di una mosca caduta nella tela di un ragno, in ben 98 canti 13, non è estranea allo spirito di un cattolico, sia pure apostata, come Donne, il Donne fulmineo di The Flea 14. Sul finire della satira la domestica della dimora entra in scena a soccorrere la mosca imprigionata nella tela, e dopo qualche esitazione uccide il ragno “schiacciandolo col piede”. Ma l’obiettivo era quello di colpire l’inviso Cranmer. Ma tutti o molti dei lavori di Heywood, in versi e drammatici, racchiudono un sottofondo di allegoria politica, perché si aprono su una situazione di potenziale anarchia facendo poi intervenire una superiore istanza di ordine che concilia e pacifica le varie divergenze.
Entro la fine del regno di Elisabetta l’interludio si ramificò in varie direzioni (attualità, satira sociale, pedagogia, storia antica e sacra, romance) rendendo labili i suoi confini con la commedia e soprattutto la farsa elisabettiana, con l’unica, fissa legge strutturale dell’assenza della divisione in atti, della schematicità dell’azione e della tipicità e anche allegoricità dei personaggi, tra i quali il Vizio, che, a partire dal messaggero di Heywood, divenne sempre di più un simpatico diavoletto anziché l’incarnazione della potenza delle tenebre: verbalmente funambolo, il Vizio dell’interludio confluirà nel fool del dramma maturo d’autore.
86. Istituzioni del teatro elisabettiano.
1. L’elisabettiana era diventata una civiltà letteraria a dominante drammatica per il concorso di svariate circostanze, e hanno ragione gli storiografi e gli studiosi della comunicazione letteraria nel postulare una continuità “cromatica” tra i cicli dei mystery plays e le moralities, e tra queste ultime e l’imporsi del teatro secolare. La contrapposizione tra i vizi e le virtù, che ne era il congegno, poté piano piano trasfondersi nello scavo psicologico del dramma puro e tout court, saltando il principio o l’ingombro allegorico della personificazione. Ma c’è d’altro canto pronta una spiegazione di squisito carattere antropologico, perché lo spettacolo era divenuto, nelle sue gamme e nei suoi vari livelli artistici, un fenomeno intersociale di punta della compagine nazionale. Mai come in Inghilterra si era consolidata una corrispondenza di antica matrice medievale tra le feste del calendario e le manifestazioni popolari di grosso concorso, come sagre, fiere e processioni; gli stessi sovrani compivano visite fuori dalla reggia, e che si snodavano come solenni parate araldiche, o pageants; e la corte stessa era la sede di intrattenimenti che acquisirono un carattere sempre più ufficiale.
Il teatro spontaneo, mai morto, continuava a essere praticato nella periferia del regno, nelle città, nelle strade, nelle piazze, nelle locande, sotto forma di spettacoli improvvisati, mimi, pantomime, numeri di baraccone, di prestigio e di circo, musiche di coro e di bande. Nel mercato del lavoro, anzi, una professione o occupazione indotta divenne per forza di cose quella dell’attore, la cui reputazione e il cui status è utile studiare. Il dilagare dell’attività drammatica formò una fascia sociale prima inesistente, la cui preparazione professionale fu alle origini essenzialmente pragmatica. A metà Cinquecento l’attore aveva fama di vagabondo; e la borghesia benestante vi guardava con sospetto e le autorità cittadine lo bandivano. L’ostracismo si perpetuò sinché non si costituirono delle compagnie teatrali sotto la protezione dei nobili. Si venne perciò ad avere per qualche tempo uno strano attrito tra i regnanti, come la regina Elisabetta innamorata del teatro, e le autorità comunali che non vedevano il teatro di buon occhio.
La passione della recitazione riguardava d’altra parte anche la gioventù studentesca, in quanto i programmi scolastici e universitari includevano nei curricula lo studio dei drammi classici e anche l’allestimento di recite curate e dirette dai docenti e fatte dagli allievi attori, adattate dai classici o scritte ex novo. La regina stessa fece istruire i giovani coristi della Cappella reale come attori e favorì la nascita di vere e proprie compagnie di fanciulli – tra le quali fu celebre quella della scuola di San Paolo – che divennero rivali di quelle adulte. Drammi per queste compagnie furono commissionati anche a Lyly e Peele per esempio, ma il grosso è andato perduto.
Dal 1580 al 1642 si contano in mille – o secondo altre stime duemila o anche tremila 15 – i drammi scritti e rappresentati, cifra destinata a oscillare tenuto conto dei perduti. Fu un flusso che non cessò per interna inanizione o decadenza fisiologica del genere, piuttosto troncato di netto da fuori con la chiusura dei teatri del 1642, data dopo la quale i drammi poterono essere stampati, ma non più rappresentati. In sede di bilancio si calcola che 50 milioni siano stati gli spettatori di quella lunga stagione, 25000 gli spettatori settimanali in media (cifre strabilianti tenuto conto delle stime della popolazione londinese e nazionale 16), e 214 i giorni dell’anno in cui si erano tenuti degli spettacoli teatrali. Un sessantennio non può naturalmente presentare caratteri immutati e invariati. Dopo il 1603 Giacomo I ebbe un’influenza lievemente frenante favorendo un teatro d’imitazione di modelli classici e tratto da fonti lontane, come Seneca e Plutarco, o a esse ispirate. A Cambridge nacque un teatro di e per universitari rigorosamente in latino, con l’aggiunta proibizione di recitare in inglese in un rag...