Aphra Behn
L’incomparabile Astrea
(1640-1689)
Capitolo I
Il Suriname
1
Aphra Behn, quella signora affabile «che indossa una vestaglia slacciata, con il collo e i seni scoperti… Che fuoco ha negli occhi! Che passione nei movimenti! Quanta sicurezza nella sua espressione!».1 Quella signora nasce a Wye, vicino a Canterbury, nell’estate del 1640 e da giovanissima scompare dalle coste dell’Inghilterra e dalle pagine di una biografia rispettabile. Dal momento in cui, neonata, fu portata in braccio oltre i campi di luppolo nella chiesa ai piedi della collina verde di Wye, intraprese una carriera ricca di controversie e contraddizioni. La sua famiglia, il luogo di nascita, il ceto sociale del padre, la grafia del nome, i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, la grafia del cognome del marito, la stessa esistenza di un marito, sono tutti stati oggetto di discussione. Il che rende la questione particolarmente delicata e stimolante per il biografo. Dovrà chiamarla Aphra, Ayfara, Aphara, Aphora, Afra, Apharra, Afara o, ancor più fantasticamente, Aphaw o addirittura Fyhare? Dovrà chiamarla Amis o Johnson? Dovrà scrivere Behn, Bhen o Behen? Dovrà tenerla a Wye o spedirla in Suriname? Se la spedisce in Suriname, deve spedircela una o due volte? Deve credere a Van der Albert e a Van Bruin?2 Lei riposa sotto una lastra di marmo nero nell’Abbazia di Westminster e non può rispondere a queste domande.
Ma diciamo subito che Aphra Behn non è Shakespeare, a proposito del quale il più piccolo indizio su un particolare della vita sarebbe considerato prezioso e degno di essere indagato. Il biografo che si fa strada nel groviglio di date e di fatti, che si avventa con gioia su qualche inaspettata conferma, che fa a pezzi, distrugge e infine scarta definitivamente qualche teoria plausibile, dipanando una storia con la pazienza con cui si dipana un filo imbrogliato e lo si riavvolge in un gomitolo ordinato – il biografo potrebbe farsi tentare da analisi così minuziose da risultare solo noiose per il lettore comune. È già abbastanza se riuscirà a convincere il lettore a prendere per buono il suo bagaglio di conoscenze specifiche e a permettergli di tracciare un’immagine più nitida, l’immagine della signora Behn nella sua vestaglia slacciata, una donna magari un po’ trasandata e spesso un po’ volgare, ma sempre generosa, calorosa e gentile, che lavora sodo scrivendo in fretta i suoi dialoghi in una squallida stanza londinese. Ogni tanto è interrotta dai giovani scribacchini di Grub Street3 che bussano alla porta, certi di essere accolti da battute scherzose, solidarietà e buonsenso e – se necessario – dal soccorso di un borsellino di solito non troppo pieno. Una volta il nome di Aphra Behn si poteva a stento pronunciare, o lo si pronunciava solo scusandosene: quel nome era sinonimo di tutto ciò che di osceno vi era nella vita e nella letteratura. «Era solo una sgualdrina», afferma uno scrittore con tono irritato e altezzoso, «che danzava nel lerciume».4 Eppure, anche se ambienta le sue scene in bordelli e camere da letto, se il suo linguaggio non è consigliabile ai delicati di stomaco e se nella vita privata ha seguito i dettami della propria inclinazione piuttosto che quelli della morale convenzionale, nella storia della letteratura inglese Aphra Behn rappresenta qualcosa di molto più importante di una semplice sgualdrina. Il fatto che abbia scritto è molto più importante della qualità di ciò che ha scritto. Aphra Behn è importante perché è stata la prima donna in Inghilterra a guadagnarsi da vivere con la penna.
È vero, l’impareggiabile Orinda5 aveva preceduto l’incomparabile Astrea. Ma Orinda non era una scrittrice professionista. Non doveva guadagnarsi da vivere. Non era né romanziera, né drammaturga: era solo una ricca dilettante che si occupava a tempo perso di poesia, un’apostola dell’amicizia che ospitava un salotto letterario. C’era stata la duchessa di Newcastle,6 ma la duchessa di Newcastle era una gran donna, seppur eccentrica, la quale, anche se scrisse – e scrisse freneticamente – per la fama, non può essere considerata in alcun senso del termine una che si mise in competizione nel mondo concorrenziale delle gelosie letterarie. La signora Behn, invece, si gettò nella mischia. Stava a Grub Street insieme ai migliori scrittori, rivendicava gli stessi diritti degli uomini, fu un fenomeno mai visto prima e, quando fu notato, suscitò un’ostilità feroce. La rabbia dei suoi critici e dei suoi rivali fu eguagliata solo dalla sua rabbia per non essere giudicata in maniera imparziale. Era ben consapevole del proprio ruolo di pioniera e sicura di saper portare avanti il compito che aveva intrapreso: la sua lingua e la sua penna divennero taglienti di fronte all’ingiustizia degli attacchi sferrati contro di lei. «Un’opera penosa – dannazione! – perché è di una donna».7 Benché talvolta arrabbiata e spesso ferita, non si scoraggiò mai. Romanzi, traduzioni, poesie, opere teatrali sgorgarono dalla sua penna, insieme a ingiurie e rappresaglie contro i suoi detrattori. Dal momento in cui iniziò a scrivere fino al giorno della sua morte, non fu mai sconfitta. Con la sua ostinazione ha reso un servizio al suo sesso, e non fu un servizio da poco. Una schiera di donne seguì la strada da lei tracciata con tanta fatica: Elizabeth Rowe, Mary Pix, Eliza Haywood, Jane Barker, Penelope Aubin, Mary de la Rivière Manley, per nominarne solo alcune, furono le sue eredi dirette. Le sue opere forse non vengono lette, ma è in qualità di pioniera che, a sua eterna gloria, dovrebbe essere ricordata.
2
Inizialmente si pensava che suo padre fosse un barbiere di nome John Johnson, di Canterbury – un errore tramandato da molti scrittori. Se si esamina il registro della parrocchia di Wye si scopre la verità: non vi è alcuna menzione di Johnson né del fatto che fosse un barbiere, ma risulta che il 10 luglio del 1640 Peter e Ayfara, figli di John e Amy Amis, furono battezzati insieme nella chiesa dei Santi Gregory e Martin. Il documento del registro non è difficile da decifrare. Il testo riporta:
Peter figlio
&di John e Amy Amis. 10 luglio.
Ayfara figlia
Eppure anche in questo caso, man mano che ci si avvicina ai nostri giorni, cala la coltre di imprecisione e mistificazione che ha circondato ogni documento della vita di Aphra Behn. A quanto pare, per il Vicario di Wye nel 1884 fu impossibile leggere questo documento redatto in puro e semplice inglese che aveva davanti agli occhi. Sir Edmund Gosse8 era entrato in possesso di un manoscritto appartenuto ad Anne, contessa di Winchelsea, nel quale aveva letto un appunto che rivelava che Aphra Behn era nata a Wye. Scrisse quindi al Vicario per chiederne conferma sulla base degli archivi della parrocchia. Vi era forse, chiese, qualche traccia di un John Johnson o di sua figlia? Il Vicario fece una ricerca nei registri e rispose – Sì, Ayfara, figlia di John e Amy Johnson, battezzata il 10 luglio del 1640. Ora, sarebbe impossibile, anche per una persona ignorante, leggere il nome Johnson in quel documento. Inoltre, si affermò che la colonna riguardante «il ceto, l’occupazione e la professione» era stata lasciata vuota. Ora, in quel registro non vi è alcuna colonna su ceto, occupazione e professione. Si tratta, in effetti, di una stranissima maledizione che si è abbattuta sulla leggenda di Aphra Behn.
In ogni caso, il registro ci è utile per mettere fine alla storia del barbiere, della quale è responsabile solo Anne, contessa di Winchelsea, col suo manoscritto, e per stabilire che il cognome da nubile di Aphra non era Johnson, ma Amis. Le difficoltà che ne conseguono non sono facilmente risolvibili. In primo luogo, le fonti delle informazioni sono estremamente inaffidabili. Dobbiamo riporre la nostra fiducia nelle parole della stessa Aphra, ma queste troppo spesso sono le parole più di una romanziera nata che di chi ricerca la verità: le affermazioni riportate nel resoconto del suo primo biografo in alcuni casi sono a dir poco improbabili.
Aphra fu una bambina precoce, dedita prestissimo a scrivere versi, e la sua salute, come quella di molti bambini precoci, diede molte preoccupazioni ai genitori. Secondo me, il fatto che sia stata battezzata nello stesso giorno del fratello Peter potrebbe indicare che fossero gemelli,9 probabilità rafforzata dal fatto che la bambina era delicata di costituzione. Lei stessa ci dice che era «di salute cagionevole e soggetta ad ammalarsi gravemente per qualche attacco di strana malinconia». In altre parole, diremmo, una bambina irrequieta, la cui fantasia era perciò più incline a essere stimolata dalle scene e dagli eventi eccezionali di cui presto sarebbe stata testimone.
Secondo la storia generalmente accreditata, la famiglia Amis, di Wye, partì dall’Inghilterra per il Suriname, oggi Guyana Olandese, dove John Amis era stato nominato «luogotenente generale di trentasei isole, oltre che del continente del Suriname», onore conferitogli dal suo parente Lord Willoughby di Parham. Fin qui tutto bene: se solo John Amis fosse vissuto abbastanza da prendere servizio, molte questioni dibattute sarebbero state di certo risolte per noi dalla corrispondenza ufficiale e da altri documenti. Ma il proprietario terriero di Wye non era destinato a raggiungere quel lontano paese di Caribi e savane. «Mio padre morì in mare», dice la figlia succintamente. La signora Amy Amis e i suoi figli, tuttavia, non potevano tornare indietro: la nave inevitabilmente proseguì finché, dopo vaste distese di oceano, avvistarono, come Colombo e Raleigh, la costa del Sud America e sbarcarono più o meno come naufraghi dove avevano sperato di arrivare come governanti. Sarà stato un bel cambiamento rispetto a Wye.
A quanto pare – se dobbiamo fidarci di Aphra – furono ricevuti con onore, poiché, sebbene «non intendessero fermarsi in quel luogo», fu data loro la casa migliore del paese, chiamata St. John’s Hill, che «si trovava su una grande roccia di marmo bianco, ai piedi della quale scorreva profondissimo il fiume, che non si poteva raggiungere da quel lato. Le piccole onde che s’infrangevano e spruzzavano ai piedi della roccia producevano i mormorii e gorgoglii più dolci al mondo». Dopo di che, il resoconto diventa un po’ vago. Malgrado non intendesse fermarsi in quel luogo, sembra che Aphra si sia stabilita lì per godersi le bellezze del Suriname – e qui diventa evidente un’inevitabile discrepanza poiché, sebbene il suo biografo dica che vi andò da bambina, Aphra scrive di sé come di una persona adulta, che condivide la vita degli adulti.
Per il momento, tuttavia, lasciamo stare. La famiglia Amis è in Suriname, a seimila miglia da Wye. «Vi regna un’eterna primavera ed è sempre come nei mesi di aprile, maggio e giugno; l’ombra non manca mai, poiché gli alberi sono perennemente coperti di foglie e di frutti, dai boccioli fioriti ai frutti maturi dell’autunno; boschetti di aranci, limoni, cedri, fichi, noce moscata e deliziose piante aromatiche senza sosta diffondono nell’aria le loro fragranze. Gli alberi appaiono come tanti mazzolini di fiori di ogni colore: alcuni sono tutti bianchi, altri porpora, altri rossi, alcuni blu, altri gialli; alberi carichi allo stesso tempo di frutti maturi e di altri in procinto di maturare, o che ogni giorno ne producono di nuovi».10 Si abituarono alla vista dei campi di manioca, allo spettacolo dei macao, dei pappagalli, dei canarini che sfrecciavano sopra le ninfee selvatiche nelle lagune e nei canali, alle note del twa-twa, che canta come un gong d’argento. Ascoltavano il kiskadee che ripete «qu’est ce que dit? qu’est ce que dit?». Vennero a conoscenza del Gran Gado, il “grande dio”, sua moglie Maria e suo figlio Jesi Kist;11 incontrarono Indiani dall’aspetto strano, che scendevano dalle montagne portando sacchi pieni di polvere d’oro. Oltre a queste vi erano molte altre meraviglie: la famiglia Amis bruciava ceppi di cedro nel caminetto, illuminava le stanze con candele fatte di sostanze aromatiche che spandevano profumo tutt’attorno. Cenavano con carne di armadillo, una bestiolina simile a una specie di rinoceronte, tutta racchiusa in una corazza bianca, così aderente che si muoveva come se non avesse nulla addosso. Parteciparono a molte spedizioni per cercare giovani tigri nelle loro tane o per insegnare agli Indiani a baciare, tutte egualmente piacevoli e tutte molto diverse da ciò che avrebbero potuto sperare di trovare nelle vicinanze di Canterbury. Aphra si era fatta tagliare i capelli corti e portava un berret...