IL PIL COME DOVERE, IL PIL COME PIACERE
Il PIL è reddito, e quindi consumo. La capacità di produrre e quella di consumare sono il binomio implicito nella sigla. Il PIL è la manifestazione della forza di produzione. E la conseguenza di tale forza è il consumo. Che è poi l’aspetto più rilevante del PIL, la sua faccia più visibile, quella cui si deve la «popolarità» della variabile e l’interesse di cui è diventata oggetto. Una nazione con un PIL elevato e in crescita è una nazione potente perché produce, virtuosa in quanto progredisce, e presumibilmente felice dal momento che consuma.
Il PIL ha invaso le nostre vite e ne detta le regole a partire dall’orientamento impresso alle politiche economiche nazionali. Non è un caso che due delle norme più importanti comprese tra i cosiddetti «criteri di convergenza di Maastricht» – quelli enunciati dall’articolo 127 del trattato che istituisce la Comunità europea e che gli Stati membri dell’Unione si sono impegnati a rispettare – trovino nel PIL il loro pilastro tecnico e ideologico. Tali principi sono stati fissati a favore della «sostenibilità della situazione della finanza pubblica» e sempre nel quadro della promozione di un elevato livello di «convergenza economica sostenibile» nell’area dell’Unione europea. Il primo principio concerne il rapporto tra disavanzo pubblico e PIL a prezzi di mercato, che non deve eccedere il 3%. Il secondo riguarda il rapporto tra debito pubblico e PIL a prezzi di mercato, che non deve essere superiore al 60% (come è noto, su questo punto l’Italia – il cui debito pubblico è abbondantemente superiore al 100% del PIL – si è avvantaggiata di una deroga, a fronte dell’impegno di portarsi in linea con il livello di riferimento a un ritmo adeguato).
Questi vincoli comportano che al PIL – alla sua dimensione – venga attribuito il significato di variabile cruciale, di vero e proprio parametro di libertà in materia di fisco e spesa pubblica. Perché se il PIL è piccolo, minuscolo sarà lo spazio per decidere e, paradossalmente, piccola anche la capacità di prendere provvedimenti per aumentarlo. Viceversa se il PIL è grande. La regola del 3% dice che, per rilanciare l’economia – per diminuire le tasse in modo da stimolare i consumi privati –, un governo potrà rinunciare alle entrate della pubblica amministrazione solo entro certi limiti (cioè non oltre la misura che mira a contenere il deficit entro la soglia prefissata). Quanto alla regola secondo la quale il debito pubblico non può superare il 60% del PIL – regola strettamente correlata a quella del deficit massimo, perché è quest’ultimo il flusso che alimenta l’ammontare complessivo (stock) del debito –, essa sancisce che la spesa pubblica deve essere tenuta sotto controllo e che, per quanto condivisibile possa essere l’obiettivo di aumentare il reddito (il PIL) mediante l’aumento della domanda globale, non potrà mai essere trascurata la necessità di contenere l’indebitamento dello Stato verso i propri cittadini al fine di salvaguardare il pubblico risparmio.
Il PIL è strumento ma anche obiettivo, parametro e simbolo per eccellenza del fatto macroeconomico. Ed è per questo che il PIL è soprattutto consumo: consumo successivo alla produzione, produzione che precede il consumo.
Perché, attenzione, il modo in cui il PIL è stato concepito e viene da sempre dibattuto – il fatto stesso che sia diventato specchio di un sistema economico nazionale – ha un che di calvinistico. Prima il dovere, poi il piacere. Prima ci si dedica a un compito che è quasi un castigo, poi ci si abbandona all’istinto. Questa è la logica del PIL.
Vorrei segnalare almeno tre difetti, in quest’impostazione (che poi, va detto, sembra più un atteggiamento che il frutto di un ragionamento, un’inclinazione criticabile a percorrere una vecchia strada più che la difficoltà di progettarne una nuova e più razionale).
COMPETIZIONE E CELEBRAZIONE DEL MIGLIORE
In un senso importante, il mondo del PIL – la sua logica, il suo significato, l’economia che ne alimenta il mito – è rappresentato dalla competizione. È una questione di clima, di atmosfera in cui può più facilmente sorgere e crescere un’«economia del PIL». Diciamo che il PIL sta alla competizione economica come una rana allo stagno: è possibile che una rana riesca a vivere altrove, ma lo stagno è il suo ambiente ideale.
La teoria economica non dubita del fatto che la concorrenza è il metodo ideale per stimolare l’efficienza, per abbassare i costi e accelerare il ritmo del sistema economico. Un’azienda è efficiente – veloce e razionale nell’uso delle risorse – solo se è indotta a esserlo, se c’è qualcosa che la costringe a muoversi, a uscire dal suo torpore. Altrimenti – sostiene sempre la teoria – l’azienda preferisce attendere in modo lento e burocratico ai propri compiti senza alcuna cura per il contenimento degli sprechi e senza una reale pulsione alla massimizzazione del profitto. Insomma, un’azienda ha bisogno di concorrenti, avversari, soggetti che la contrastino e non le lascino libero il campo, enti che rappresentino un pungolo a fare meglio e che, in assenza di una reazione vivace e organizzata, possano mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza: veri e propri nemici, se si considera che si tratta di organismi disposti a tutto per farla soccombere e rubarle lo spazio vitale.
Il principio di fondo è che la mia tranquilla e svogliata passeggiata nel parco debba diventare una corsa, e che solo un cane lanciato al mio inseguimento e visibilmente intenzionato a mordere possa risvegliare in me una vocazione da velocista. L’assunto è che la pigrizia, in mancanza di interventi esterni, sia il dato prevalente. Il monopolista – il produttore che rimane da solo sul mercato – non è in alcun modo stimolato a fare di più. Perché affannarsi per abbattere i costi, affrontare conflitti per ottenere il massimo dai dipendenti e cercare faticosi incrementi di quantità e qualità della produzione quando, per aumentare il fatturato, potrebbe bastare una correzione verso l’alto dei prezzi di vendita? Perché non usare il potere di imporre le proprie condizioni al mercato quando la decisione di farlo ci procurerebbe un incremento del profitto senza alcuna difficoltà?
Non si dimentichi che la regola del PIL ha un fondamento «etico» a tutto vantaggio del consumatore, la regola per cui a prezzi bassi devono corrispondere grandi quantità (quella per cui un grande PIL deve essere frutto della combinazione del maggior volume possibile di prodotti con il minore livello possibile dei prezzi). In sostanza, il PIL – attraverso il dogma della competizione (e per salvaguardare se stesso) – si occupa non solo del suo valore assoluto, ma anche della sua composizione. Fatto di per sé confortante.
Ma vediamo qual è la contraddizione implicita nell’imperativo della competizione, quali le incertezze da essa insinuate nell’interpretazione del concetto di mercato, quali i problemi che ne conseguono per la credibilità del PIL come misuratore del benessere. Abbiamo detto che è un buon mercato quello in cui le forze concorrenziali si esprimono liberamente, cioè quello rappresentato da uno spazio – una specie di ring – in cui le imprese combattono e fanno appello a tutte le loro energie per vincere, o almeno per sopravvivere. La battaglia è cruenta, e c’è chi muore. Resistono i più dotati – i più intelligenti, o anche i più scaltri –, perché la regola del mercato vuole comunque che la battaglia continui. Accadrà che da una struttura di mercato caratterizzata da una moltitudine di imprese appartenenti a un certo settore – si pensi, per esempio, a quello automobilistico – si passi a una situazione in cui rimangono le poche imprese sopravvissute. Da un mercato perfettamente, o altamente, concorrenziale si passa a quello che si definisce oligopolio. Ma se anche gli organismi oligopolistici lotteranno tra loro – con una battaglia sui prezzi o sulla qualità del prodotto, rubandosi quote di mercato, sbranandosi, fagocitandosi –, ecco che alla fine ne rimarrà uno solo sul campo. Il più forte, o anche solo il più furbo.
Possibile che il risultato della lotta concorrenziale sia un monopolio, un solo produttore di automobili? Sì, teoricamente sì, perché il diktat della competizione implica che la libera espressione delle forze di mercato inneschi un processo concorrenziale al termine del quale emerge un vincitore, cioè un monopolista. La cui presenza sappiamo essere in totale contraddizione con l’idea di un mercato favorevole al consumatore e, soprattutto, con il concetto stesso di competizione (essendo da escludere che il monopolista competa con se stesso). Si potrebbe obiettare che è ormai noto come i mercati – creature solo apparentemente robuste e avvantaggiate dalla libera manifestazione degli istinti imprenditoriali, ma in realtà assai fragili ed esposte a tutte le intemperie – abbiano bisogno di amorose cure, di molta attenzione da parte di un mondo politico che deve salvaguardarli, degli interventi di numerose authority che impediscano l’abuso di posizioni dominanti e così via. Ma, allora, dove e quando la regola della competizione dovrebbe attenuarsi o cessare di essere applicata? Quali le deroghe, quali le eccezioni? E quali garanzie dovrebbero assistere il meccanismo che individua tali eccezioni rendendole opportune e non arbitrarie?
La verità, almeno sul piano formale, è che suscita di per sé qualche perplessità una norma, come quella della competizione, cui si attribuisce un valore generale e alla quale si scopre poi di dover porre dei limiti. Ma sempre per la verità, e questa volta su un piano più sostanziale, la sensazione è che la norma stessa della competizione finisca per essere sistematicamente sopraffatta dalla regola del denaro, vera e propria regola delle regole. È al denaro che bisognerà riconoscere la capacità di individuare e architettare i casi «eccezionali» in cui il principio, pur così generale, della competizione deve cedere il passo. È forse troppo maliziosa l’ipotesi che un mercato ufficialmente affidato al denaro e letteralmente dominato da esso possa diventare preda di chi – più lesto e in modo più o meno lecito – usa il denaro per sollecitare decisioni, forzare situazioni, corrompere uomini o istituzioni? Certo è che il denaro è un’arma formidabile, ma non è altrettanto certo che chi la impugna sia il più meritevole e abbia il diritto di agitarla in ogni direzione ritrovandosela ogni giorno sempre più potente fra le mani.
Cos’ha a che fare questo con il PIL? Il fatto è che tutta la credibilità del PIL come strumento di politica economica è legata a doppio filo alla crucialità del ruolo della competizione. Un PIL elevato significa ricchezza e un PIL modesto povertà. Ed è giusto che i poveri si mobilitino, che si diano da fare, che partecipino al torneo dov’è in palio la ricchezza. Così va il mondo, la vita è una battaglia, l’economia ne è il campo d’elezione simbolico e fattuale – pur sempre preferibile a quello di una guerra reale –, e il PIL ne registra il risultato con tanto di punteggio.
Riassumiamo. È lecito sospettare che la competizione sia uno slogan, una moda, una formula più adatta di altre a un’epoca democratica come la nostra, in cui l’idea di dare un premio al più bravo e di celebrarne le doti appare non solo accettabile ma addirittura gradita, congruente con l’«etica» del momento, ipocritamente compatibile tanto con il principio delle pari opportunità quanto con il criterio dell’onore da tributare al merito. Insomma, un buon metodo per tranquillizzare le coscienze, per giustificare il fatto che c’è chi sta peggio, per trasferire e applicare alla prosaica durezza della vita di ogni giorno le nobili regole delle occasioni sportive. Ma la parola mercato, con l’idea che vi si associa di luogo aperto a tutti, evoca il concetto di partecipazione più che quello di competizione. Un vero mercato non è come quello attuale, cioè uno spazio accessibile solo a chi dispone di denaro, e comunque molto più confortevole e ricco di opportunità per chi ne ha tanto. In una famiglia non si gareggia ma si partecipa, con ciò che ciascuno può dare. E gli abitanti del nostro pianeta – nati per caso su questa terra, accomunati dallo stesso destino – assomigliano a una famiglia nel senso più neutrale e meno romantico del termine.
I fanatici della competizione, però, continueranno a sostenerne l’utilità e non si stancheranno di ripetere che è la concorrenza a garantire la produzione del meglio e del massimo per la comunità dei consumatori.