Le prove
Uno strano malcontento cominciava a manifestarsi non solo nella comunità ebraica, ma anche in quella islamica. Non tutti i musulmani dell’oasi, infatti, avevano aderito all’Islam con fede sincera. Alcuni, in particolare, lo avevano fatto per calcolo politico, sperando col tempo di strumentalizzare la situazione a loro favore. Così alimentavano contrasti e divisioni, fomentando gli antichi odi tra le diverse tribù.
Anche le epidemie contribuirono non poco a mettere alla prova la comunità islamica. Tuttavia, grazie alle indicazioni del Libro Sacro, ai consigli del Profeta, e al recupero delle tradizioni antiche, cominciò a svilupparsi nell’oasi anche una medicina islamica, che con l’andare dei secoli avrebbe dato vita a grandi canoni medici, come quello di Avicenna, vissuto a cavallo dell’anno Mille. Due secoli dopo, l’opera del famoso filosofo e medico persiano fu tradotta in latino da Gherardo da Cremona, ed è stata alla base della medicina occidentale fino a tutto il XVI secolo.
Come in autunno le giornate di sole si alternano a quelle grigie e tristi, così a Medina le gioie e i dolori presero a rincorrersi tra loro. Tra le cose liete vi fu la costruzione della moschea, i cui lavori erano iniziati nell’entusiasmo generale. Le difficoltà cominciarono invece quando la tribù dei Quraysh della Mecca usò tutta la sua influenza per escludere Medina dalle vie commerciali, provocando una crisi economica che presto divenne drammatica. L’oasi, infatti, era lungi dall’essere autosufficiente. Il suo benessere dipendeva dalle carovane che si spostavano incessantemente tra lo Yemen e la Siria e che rifornivano gli abitanti di tutto ciò che non era possibile trovare nell’oasi.
Poche settimane dopo l’arrivo del Profeta a Medina, il blocco imposto dai meccani cominciò a farsi sentire. Le riserve alimentari dell’oasi si esaurirono in fretta e presto il cibo si poté acquistare solo a prezzi altissimi da quelle poche carovane che non rispettavano il blocco. La popolazione dell’oasi, inoltre, era notevolmente accresciuta per l’arrivo degli esuli dalla Mecca, per lo più molto poveri, anche se i musulmani di Medina cercavano di aiutarli come meglio potevano. Ogni famiglia dell’oasi si era fatta carico di una famiglia di musulmani meccani, dividendo con loro la casa e il lavoro. Ma quando cominciarono a scarseggiare i viveri, molti di loro non poterono condividere altro che la fame. Si arrivò a un punto in cui lo stesso Profeta riusciva a procurarsi solo sedici datteri al giorno, che divideva a metà con il suo giovane cugino ’Ali, il quale lo aveva raggiunto dopo aver sistemato tutti i suoi affari in sospeso.
La carestia ebbe un riflesso diretto anche sulla famiglia di Zayd, tanto che Burayda fu costretto a rinviare i suoi progetti matrimoniali con Nawar. La tribù degli Aslam ebbe l’incarico di pattugliare il deserto tra Mecca e Medina, con il duplice scopo di prevenire attacchi dei meccani e di individuare le carovane che andavano da nord a sud, evitando Medina. L’intenzione era quella di assaltarle. Seguendo l’esempio delle più povere tribù di beduini, ormai gli abitanti dell’oasi per vivere erano costretti a darsi alla razzia, anche se le prime e disperate sortite alla ricerca di bottino non diedero i risultati sperati. Per gli uomini dell’oasi, con pochi cavalli, muovendosi solo a dorso di cammello o addirittura a piedi, intercettare una carovana nel deserto era come cercare di vincere una corsa correndo all’indietro.
Come se non bastasse, a Medina si dovette affrontare un’altra grave sventura. Il clima era molto diverso da quello della Mecca, e il caldo e l’umido, insieme, favorivano la diffusione di malattie sconosciute ai meccani. Molti di loro furono colti da una febbre forte e prolungata, che li debilitava mortalmente.
Nawar, aiutata da Karima, si prodigava nell’aiutare gli ammalati, ma non sapevano cosa fare, poiché si trattava di un’epidemia insolita per gli abitanti dell’oasi. Si rivolsero così ad ’Aisha, la sposa di Muhammad, chiedendo se il Profeta aveva detto qualcosa in merito a una possibile cura.
«L’Inviato di Dio mi ha detto che bisogna bagnare i malati con acqua il più possibile fredda, così che la febbre non salga troppo, e farli bere molto.»
Le donne di Medina si diedero da fare per mettere in pratica quelle indicazioni e, con loro grande soddisfazione, videro che almeno qualcuno dei più giovani riusciva a migliorare. Questo non bastava, però, ad allontanare lo spettro della morte dall’oasi. Nonostante il prodigarsi delle donne, infatti, la situazione rimaneva grave. Tra i Compagni molti continuavano a essere così prostrati da non avere la forza di alzarsi. Abituati per anni a combattere un nemico visibile, si trovavano ora ad affrontarne uno sottile e sfuggente, ma più pericoloso.
Uno dei più gravi era Abu Bakr, che aveva accompagnato il Profeta durante il viaggio dalla Mecca. Era anche il padre di ’Aisha. Quando le donne andarono a visitarlo, l’uomo giaceva in un angolo della casa, senza aver quasi la forza di parlare. Appena vide sua figlia cominciò a recitare, cantilenando:
Ogni uomo deve essere salutato dalla sua famiglia la mattina,
quando la morte gli è ormai più vicina che i lacci dei suoi sandali!
Poco distante dall’abitazione di Abu Bakr, vi era quella del grande uomo di colore, che per la sua voce tonante era stato incaricato di fare la chiamata per la preghiera. Anch’egli si lamentava in continuazione. Parlando da solo, ripeteva i nomi dei quartieri della Mecca, ormai quasi del tutto rassegnato al fatto che la morte, mai sentita così vicina, gli avrebbe impedito di rivedere l’amata Città Santa. La scena era commovente e fece nascere un intenso desiderio di vedere la Mecca anche nelle persone che non vi erano mai state.
Le donne non potevano fare altro che continuare a bagnare i malati con acqua fresca, cosa che era possibile solo fino alle prime ore del giorno, poiché dopo il calore era tale che l’acqua, anche quella dei pozzi più profondi, si scaldava troppo rapidamente per essere utile. Quel giorno il sole era ormai alto, così che Nawar e Karima si misero a pregare in silenzio in un angolo della casa.
Proprio in quel momento furono raggiunte da Zayd. Il suo volto era congestionato, gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime.
«Abu Umama sta male. Venite da lui!»
Nawar gli rivolse uno sguardo stupito:
«Ma se fino a ieri non aveva nulla.»
Zayd era talmente sconvolto che le donne faticarono non poco a calmarlo, almeno quel tanto che bastava per riuscire a spiegare che cosa fosse successo.
«Ogni giorno era sempre il primo a cominciare i lavori per la moschea, così quando lo vedevamo accaldato, con gli occhi arrossati, pensavamo che fosse per lo sforzo. Invece era la malattia! Doveva essere malato già da tempo.»
«Adesso dove si trova?», chiese Karima.
«Questa mattina, quando non l’ho visto in moschea, mi sono insospettito. Allora sono andato a cercarlo a casa. Si era trascinato fin sulla terrazza, come se volesse morire all’aria aperta. Era su di un tappeto, non parlava e non si muoveva.»
Nawar si affrettò a consolare Zayd anche se sapeva che, purtroppo, quei sintomi indicavano una malattia arrivata alla fine del suo tragico decorso. Ormai era chiaro che in quelle condizioni molti degli ammalati avrebbero seguito la stessa sorte del vecchio Abu Umama.
Fu a quel punto che ’Aisha decise di andare a parlare ancora una volta con suo marito Muhammad. Era una donna molto giovane, aggraziata e gentile, ma estremamente decisa. Non esitava a esprimere la sua opinione in merito alle faccende della comunità ed era ascoltata anche da molti Compagni. Poiché poteva giovarsi degli insegnamenti di Muhammad anche nell’intimità della vita quotidiana, erano in molti a rivolgersi a lei quando il Profeta era lontano. Quella volta decise di interpellare direttamente suo marito.
Zayd seguì ’Aisha e le altre donne, ma si tenne a una certa distanza. Il Profeta stava aiutando gli altri a piantare i pilastri per la copertura della parte dell’edificio rivolta verso Gerusalemme, mentre per il resto era previsto un porticato aperto. Quando vide ’Aisha, scese dalla corta scala sulla quale era salito e ascoltò con attenzione le parole della moglie. Zayd non riusciva a sentirle, ma udì chiaramente quelle del Profeta, quando levò le braccia al cielo.
«Oh, Dio, fa sì che Medina ci sia cara come la Mecca e anche di più! Benedici per noi il suo cibo e allontana la sua febbre fino a Mahya’a!»
Mahya’a era un villaggio, chiamato anche al-Juhfa, distante tre giorni di viaggio verso sud in direzione della Mecca. La notizia di quella particolare preghiera si pr...