L'ombra del predicatore
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L'ombra del predicatore

Le indagini dell'intendente Navarra

  1. 533 pagine
  2. Italian
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L'ombra del predicatore

Le indagini dell'intendente Navarra

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Dopo il Costa Rica, dove è stato coinvolto nel caso del "Patto dei Gentiluomini", l'intendente Navarra torna in Nicaragua. Ad attenderlo, la notizia di essere stato assegnato al piccolo distaccamento di polizia di Granada. I giorni nella cittadina turistica scorrono tranquilli e quasi insignificanti, finché la scomparsa di Maricruz, una ragazza quindicenne, agita improvvisamente le acque. Sulle prime si pensa a una fuga d'amore, ma l'omicidio della madre di Maricruz scompiglia le carte.Nel frattempo Rosa, una ragazza sequestrata e costretta a lavorare in un bordello gestito dai narcos in una località del Messico, riesce a fuggire e, dopo un viaggio rocambolesco, raggiunge Granada.Le indagini, intanto, si concentrano sul predicatore della chiesa evangelica frequentata da Maricruz e dalla madre, Agustín Pacas. Un uomo dalla personalità magnetica e dal passato oscuro. I sospetti contro Pacas trovano fondamento nell'accusa del suo assistente, Kendall Arana, finché anche questi non viene trovato morto. E di nuovo la soluzione del caso si allontana e le speranze di trovare Maricruz viva si riducono.Come sempre, attraverso le indagini dell'intendente Navarra Campisi ci racconta pezzi di storia del Centroamerica, di una società piena di contraddizioni dove ricchezza e povertà, bene e male si scontrano in una epica, serrata lotta quotidiana.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868992668

Prima parte

1

Gli avevano procurato un piccolo appartamento al secondo piano di una casetta con vista sul lago. Due camere, un bagno e una terrazza ad angolo che dava da un lato sulla Calle El Caimito e, dall’altro, sulle calme acque del Cocibolca. Uno spazio ristretto, soffocante quando il sole si infiammava, ma sufficiente per soddisfare alle sue poche necessità: dormire, guardare un film alla tivù, prepararsi qualcosa da mangiare se ne aveva voglia. A Navarra piaceva la sera abbandonarsi sulla sdraio in terrazzo, a godersi la brezza vespertina osservando le luci delle barche dei pescatori che tardavano sul lago mentre il vento gli portava discorsi spezzati dei passanti che sostavano sul Malecón. Ci aveva fatto l’abitudine appena arrivato a Granada, dove era stato inviato dopo che gli era stato detto che a Managua, al Palacio, non c’era più posto per lui.
Sulle prime si era infuriato. Non gli andava di lasciare Managua per dirigere la squadra investigativa di una città di provincia. Lo volevano degradare, lasciarlo fuori dai giochi, dichiararlo indesiderato. Poi, i discorsi dei superiori, le conversazioni molli nei tardi pomeriggi con i colleghi, gli avevano fatto vedere la cosa sotto un altro aspetto. Non era un castigo, tanto meno una punizione. Andava a dirigere una squadra investigativa, era pur sempre un onore. Che gli desse lui, quindi, il significato che preferiva. Per la maggior parte dei colleghi del Palacio Navarra era un uomo fortunato, perché con quell’incarico si toglieva di dosso tutta la merda di una città caotica, con i suoi giochi di potere, la pressione di una criminalità sempre più organizzata, la politica collusa. Che voleva di meglio? Granada era una località turistica, dove al massimo avrebbe dovuto occuparsi di furti ai villeggianti e di retate di giocatori d’azzardo e prostitute.
Poi, se gli fosse venuta nostalgia di Managua, delle bistecche al sangue del russo o del caffè nero di Neco, avrebbe sempre potuto prendere la macchina e mezzora dopo trovarsi dove voleva. La strada da Granada alla capitale era dritta, veloce, in buono stato e senza ombra di traffico, almeno fino a Masaya. Non lo avevano spedito né nelle paludi della Mosquitia, dove per investigare avrebbe dovuto pagaiare, né tra le montagne dell’Ocotal, dove avrebbe incontrato solo strade polverose e il silenzio dell’omertà. Non aveva perciò di che lamentarsi.
I colleghi avevano avuto ragione. Nei quattro mesi dacché aveva assunto l’incarico, Navarra si era trovato ad affrontare sette furti di portafogli e documenti a turisti (quattro statunitensi, due britannici, un italiano), cinque casi di aggressione domestica (quattro donne picchiate dal marito e un uomo randellato dalla moglie), un sequestro di droga e una truffa. Niente di che, ma soprattutto niente che meritasse la sua attenzione e meno ancora la sua esperienza. Si era limitato ad assegnare le indagini ai suoi subalterni e a chiederne gli sviluppi durante le riunioni settimanali. Per il resto, aveva avuto tutto il tempo di eleggere suo quartier generale un baretto di Calle El Caimito e di fare lunghe passeggiate per il centro della città, dove si trovavano l’animata piazza della Cattedrale e la Calzada, l’arteria pedonale che scendeva pigra verso il lago. Aveva imparato dove cercare l’ombra e a trovare ricovero nelle vie prospicienti, fuori dagli itinerari turistici, che gli avevano dato modo di conoscere la città, i suoi anfratti e i suoi personaggi.
La vita a Granada si era da subito rivelata lenta e placida. Il sole batteva inesorabile sulle strade polverose e sulle tegole rosse dei tetti delle case coloniali. Dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio non c’era tregua, e per affrontare il calore, spesso insopportabile, Navarra doveva ricorrere a forti dosi di gin tonic all’ombra degli alberi di guava e di limone nel cortile del bar del Mocho Pizarro. Era quello il suo quartiere generale, un giardino nascosto ai più che combinava due pregi: la riservatezza e la qualità dei prodotti che si servivano.
Il Mocho era un uomo dalla carnagione scura e folti baffi che, giunto alla soglia della cinquantina, tendeva alla pinguedine, complici: epiche mangiate di chicharrones di maiale innaffiate da colossali dosi di birra Toña. Privo dell’indice della mano sinistra, doveva il soprannome proprio alla mancanza di quel dito, un’amputazione che nascondeva una storia peculiare. Si narrava infatti che il Mocho se lo fosse reciso lui stesso con un preciso colpo di machete una sera, al culmine di una discussione con alcuni avventori del bar. Era stata la maniera di riappropriarsi del suo onore, infangato dalla moglie che lo aveva prima tradito e poi abbandonato per un altro uomo, con il quale era fuggita all’estero per rifarsi una vita. L’amputazione era stata una maniera di gridare la frustrazione per non poter vendicare l’affronto, ma anche un castigo per la dabbenaggine di non aver saputo controllare la propria donna. Infine, quel gesto estremo era servito a riabilitarlo agli occhi della comunità, che da allora si era ben guardata dal dargli del cornuto o dal fare commenti salaci al riguardo. Il Mocho Pizarro era un macho a tutti gli effetti, che aveva dovuto affrontare una disavventura coniugale e che l’aveva risolta come fanno i veri uomini.
Navarra era stato ammesso nel ristretto gruppo di avventori – il Mocho Pizarro riservava l’ingresso solo a una compagnia selezionata, tanto che la porta del bar rimaneva permanentemente chiusa e i clienti venivano prima scrutati da una finestrella intagliata nel legno dell’uscio – grazie alla raccomandazione del comisionado del posto, il maggiore Pinilla, che aveva visto nel nuovo arrivato dalla capitale un perfetto compagno di pláticas, le imbelli chiacchierate pomeridiane forbite di chincaglierie verbali dalla poca essenza, con cui affrontare i lunghi pomeriggi sotto l’ombra dei limoni. Il maggiore, prossimo alla pensione, era costantemente alla ricerca di persone a cui raccontare aneddoti della sua vita, un’esistenza che era stata piena in gioventù e che si era svuotata di contenuti con il passare degli anni e l’incremento dell’adipe. Estroverso, con la camicia sempre aperta a esibire il petto villoso, le mani adorne di pesanti anelli con pietre preziose, il maggiore Pinilla era sandinista da tutta la vita. Nemmeno gli ultimi, discussi avvenimenti che di rivoluzionario avevano ben poco ne avevano scalfito la fede politica.
«Meglio Daniel che un porco qualsiasi della feccia di Somoza» era solito ripetere a chi gli chiedesse spiegazioni sulle decisioni poco radicali e dal sapore conservatore adottate dal suo partito. Navarra era scettico sugli inutili favori alla chiesa cattolica o sulle fortune ammassate da chi si dichiarava figlio del popolo. Pinilla non si inalberava dinanzi alle analisi dell’intendente, ne rispettava la posizione critica e, un brindisi dopo l’altro, lo invitava a bere ai successi della rivoluzione guidata con oculatezza dal comandante Ortega. In definitiva, era stato il suo non schierarsi a costargli il posto a Managua e il trasferimento nella tranquilla Granada e Pinilla, a conoscenza del fatto, non se la sentiva di infierire.
«Lei e io andremo d’accordo» gli aveva detto sin dal primo giorno. «L’importante è non parlare di politica sul lavoro. So che lei è un buon poliziotto e mi aspetto che agisca di conseguenza.»
L’intendente aveva risposto con un’alzata di spalle.
«Non parlo mai di politica.»
Il maggiore Pinilla gli aveva dato una franca stretta di mano e lo aveva invitato subito al bar del Mocho Pizarro. Qui, davanti ai loro cocktail preferiti, il fresco e innocuo macuá per sé e l’immancabile gin tonic per l’intendente, gli aveva spiegato per filo e per segno cosa doveva aspettarsi da quel suo nuovo incarico. Nel corso di un pomeriggio bagnato dal gin e dal rum, intervallato da antipasti e stuzzichini, Pinilla aveva rivoltato la città come un guanto, presentandogli vizi e virtù, descrivendogli personaggi e luoghi, suggerendogli come comportarsi e cosa dire. Il comisionado era un uomo che conferiva a ogni frase un tocco di segretezza, avvicinandosi all’orecchio dell’intendente per sussurrargli dettagli e particolari che riteneva disdicevoli, un gesto che condiva alla fine con una sana risata e una pacca sulla spalla che altro non era che un ennesimo invito a bere. Pinilla era un uomo pingue, calvo e loquace che aveva il merito, nonostante il suo ruolo di capo della polizia, di riuscire simpatico a tutti, non solo a quelli che stavano dalla sua parte, ma anche a ladri, truffatori, evasori, delinquenti in generale. Riuscì simpatico anche a Navarra, che sopportava appena i tipi ciarlieri.
«Mi rimane poco tempo ormai come comisionado, ma sono sicuro che andremo d’accordo.»
Navarra sottoscrisse e brindò per l’ennesima volta.
Quegli incontri diventarono la normalità. Si protraevano per più di un’ora, almeno finché Pinilla, guardando l’orologio, proferiva la solita frase: «Si è fatto tardi. Mia moglie mi aspetta», allora gli prendeva la mano e gliela stringeva forte, al punto da lasciargliela segnata con quel grosso anello di rubini che portava al mignolo.
Dopo quattro mesi in provincia, l’intendente si era perfettamente ambientato. Si svegliava presto, faceva una camminata sul Malecón – correre gli riusciva maledettamente difficile – e andava in ufficio a piedi. Dopo una mattinata tra le scartoffie, pranzava leggero in uno dei locali tra la Calle Corrales e la Calzada. Si era messo in testa di seguire una dieta salutista, a base di insalate e di pietanze insulse, spesso prive di sapore ma che, si era convinto, lo aiutavano a mantenere un peso ideale e a reprimere l’accenno di pancetta che aveva acquisito durante la convalescenza.
Era perfettamente guarito dalle ferite nell’attentato davanti al Palacio e aveva riacquistato del tutto l’uso del braccio sinistro. L’inattività forzata in ospedale prima e la fisioterapia dopo, una fisioterapia volta quasi esclusivamente all’arto ferito, l’avevano un poco imbolsito. Ciononostante riteneva troppo impegnativo fare dell’esercizio fisico che non fosse la molle passeggiata sul lungolago. Così cercava di mantenersi in forma con insalate greche e filetti di guapotes bolliti con verdure, un tentativo che si infrangeva contro le leccornie e i liquori che ingollava nel tardo pomeriggio dal Mocho Pizarro. Era un circolo vizioso. Dopo pranzo, e un forte caffè nero, tornava alla Centrale per un paio d’ore e poi ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Presentazione
  3. L’Autore
  4. Frontespizio
  5. Pagina del Copyright
  6. Prima parte
  7. Seconda parte
  8. Indice